Il 29 maggio 1915, a pochi giorni dall’ingresso in guerra dell’Italia, si arruolò volontario nell’esercito italiano, pur essendo suddito austriaco, Cesare Battisti, convinto della necessità di vedere tornare il Trentino tra i confini italiani. Venne adibito al comando al campo della 50esima compagnia, nella conca di Montozzo. Si cerca di proteggerlo, evitandogli la trincea, per non perdere un elemento così prezioso per le sue spiccate doti di comando e di affiatamento con i propri uomini, ma Battisti vuole prendere parte attiva al conflitto, così riesce a farsi assegnare a una pattuglia di esplorazione guidata dal sottotenente Attilio Calci che per tre giorni, nell’agosto 1915, agisce in territorio nemico portandosi per il Corno dei Tre Signori a il San Matteo a osservare la conca di Pejo. Descrive la ricognizione in una lettera in cui, oltre alla soddisfazione per l’impresa eroica, se si pensa che gli alpini operavano oltre i tremila metri di quota, è evidente l’ammirazione per i fratelli d’armi gente di razza scelta.

Parteciperà ai combattimenti per la conquista di quota 2828 di punta di Ercavallo, con l’occupazione di un’anticima dell’Albiolo che compirà con gli alpini del suo plotone, baionetta innestata al fucile. Si dimostra impavido e viene proposto per una medaglia al valore. Ben presto, con l’avvicinarsi dell’autunno del 1915, arriverà la neve e Battisti si rifiuterà di scendere a valle, per restare con i suoi alpini, malgrado avesse diritto a un po’ di riposo. Ottiene così di essere trasferito al reparto sciatori dell’Adamello, per operare in Val di Genova e Val Rendena che conosce bene. Inizia a compiere azioni solitarie, come scorrerie, esplorazioni, colpi di mano (La neve mi circonda, ma io ho caldo il cuore), mentre viene promosso a sottotenente e trasferito al 6° Alpini, al Monte Baldo.

Il suo reparto dovrà costruire ricoveri, trincee, camminamenti e già si lagna per non poter essere al fondovalle dove fervono combattimenti per la conquista di Loppio che poi raggiungerà, trovandosi in una mischia furibonda. Ciò gli avvale la proposta per una seconda medaglia al valore e la promozione a tenente per merito di guerra. È un soldato di prim’ordine, ma non manca di dimostrare la sua umanità e l’attaccamento alla cultura. Durante il combattimento di Loppio, infatti, mise in salvo i volumi della biblioteca e l’archivio dei Castelbarco. Allo stesso tempo, la disciplina era il suo imperativo; si manteneva freddo, preciso e calcolatore quando doveva pianificare le azioni dei propri uomini e la sua modalità di obbedire agli ordini superiori.

È un comandante capace e sicuro, uno giusto, come dicono gli alpini, e di lui gli uomini a lui affidati si fidavano ciecamente. Proprio per questo accettò, alla fine, di scendere a valle e di andare a Verona. La neve impediva azioni vere e proprie, così Battisti era più utile al comando della città scaligera, all’Ufficio Informazioni della Prima Armata, dove assume l’incarico di preparare alcune monografie del fronte compreso tra il Passo di Rolle e lo Stelvio, grazie proprio alla sua conoscenza della montagna. Il lavoro gli piace, salvo che deve stare lontano dai propri uomini. Tornerà operativo nel maggio del 1916, un anno dopo il suo arruolamento.

Le condizioni climatiche permettevano la ripresa delle operazioni anche alpine, così chiese e ottenne di ritornare al posto di combattimento. Gli venne affidato il comando della compagnia di marcia del 6° Alpini Centro Verona, assieme a Fabio Filzi. Ben quaranta alpini si offrirono volontari per essere comandati da un trentino. Il Feldmaresciallo Conrad scatena tra il 15 maggio e il16 giugno un’offensiva formidabile, la famosa Strafe-Expedition, con lo scopo di conquistare Vicenza, sbaragliando definitivamente il nemico italiano. L’offensiva si compie sulle giogaie e lungo le impervie vallate prealpine. Nel frattempo però, un’intensa offensiva russa costringe gli austro-ungarici a staccare alcune truppe per contrastare l’attacco dell’esercito zarista, così Conrad manca l’obiettivo; sarà proprio l’alto numero di morti di questa controffensiva a lasciare l’esercito russo fortemente scoraggiato, agevolando la strada di quella che sarà poi la rivoluzione di febbraio del 1917.

Ancora una volta Battisti non si tira indietro: il giorno prima dell’attacco fatale a Monte Corno, assume volontariamente il compito di riconoscere il canalone che porta direttamente alla cresta contesa agli austriaci. Nella notte del 10 luglio ottiene di partecipare all’assalto con la sua compagnia che potrebbe solo rimanere di rincalzo. Questo tipo di azioni erano volte a riprendere il terreno perduto con le battaglie precedenti, sotto l’offensiva nemica. Proprio quell’azione porterà all’arresto di Battisti che, dopo essere portato in trionfo, incatenato, per le vie di Trento, pericoloso nemico catturato, verrà condannato alla morte nella Fossa del Buonconsiglio dal Tribunale di Guerra austriaco. Che non dimenticò di ritenerlo traditore della patria, lui che era stato eletto nella Dieta come esponente trentino e che aveva svolto ampia azione di spionaggio ai danni dell’Austria. Questo portò a considerare Battisti in modo diverso da una parte all’altra del fronte. Il Tirolo della prima guerra mondiale usò Battisti come esempio dell’Italia perfida e traditrice, capace di cambiare fronte appena le fosse convenuto, tanto quanto per gli Italiani Battisti era l’eroe che si batteva per la giusta causa della nazionalità e dell’appartenenza nazionale.

Gli atti del Tribunale dell’Imperiale e Regio Comando Militare di stazione a Trento, l’11 luglio 1916, al foglio 8 dattiloscritto dal soldato di fanteria e scritturale Rudolf Stoll, firmato dal testimone Vincenz Braun, recitano che “La sezione mitragliatrici n. 4 del Reggimento dei Bersaglieri provinciali n. 1, alla quale appartengo, si trovava il 9 luglio scorso in posizione a quota 1801 sul Monte Spil. Nella notte fra le 10 e le 11, gli italiani diedero l’assalto al Monte Corno che tennero fino al mattino […]. Dopo di ciò si arresero e vennero disarmati un tenente italiano, che disse di chiamarsi Brusarosco, e circa 40 o 50 uomini […]. Abbiamo però udito, da disertori italiani, che un certo Battisti comandava la seconda compagnia di valorosi perché la guerra potesse finire in un paio di mesi”. A questo punto l’uomo chiese ai presenti dove fosse Battisti. Risposero: “Battisti, capitano e anca maggiore, andrio”. Il colonnello Langer, capo di Stato Maggiore dell’Imperial Regio Comando del 21° Corpo d’Armata, raccontò così l’accaduto: “Il 10 corrente, nelle prime ore del mattino, truppe alpine svolsero, contro le nostre posizioni al Monte Corno in Vallarsa, un’azione offensiva in seguito alla quale la linea avanzata cadde nelle mani degli italiani.

Quando sul far del giorno ebbe inizio la nostra controffensiva, il nemico venne respinto e il fuoco di sbarramento della nostra artiglieria gli impedì di ritirarsi, cosicché il reparto attaccante fu, quasi senza eccezione, fatto prigioniero. Detto reparto consisteva nel Battaglione Vicenza, al quale si trovava anche unita, come antecedentemente era stato riferito da prigionieri, una compagnia di marcia del Battaglione Alpini Verona. Secondo le medesime asserzioni di prigionieri, è comandante di questa Compagnia di marcia, in qualità di primo Tenente, il dr. Cesare Battisti di Trento, colpito da mandato di cattura assieme al dr. Fabio Filzi. Ambedue combattevano in essa, sotto falso nome, contro la loro patria”.

E sarà Battisti a dichiarare appena iniziato il processo a suo carico: Sostengo di essere cittadino italiano perché sono stato nominato ufficiale dell’Esercito italiano. Devo però ammettere che non ho avuto lo svincolo dalla sudditanza austriaca. Infatti, Battisti non veniva processato come nemico catturato, ma come traditore della patria austriaca che aveva lasciato per arruolarsi nell’esercito del nemico. In attesa della sentenza, assoluzione o condanna a morte, venne convocato il boia Johann Lang, che in effetti ricevette l’incarico di uccidere Battisti e Filzi. Il Trentino in quei mesi era in condizioni precarie. Si soffriva la fame e l’idea di vedere uccisi due esponenti di quell’idea di dover combattere, non era indifferente a molti, desiderosi in qualche maniera di rivalsa, se non di vendetta, contro chi potevano identificare come colpevole delle loro pene. Il comandante in capo dell’esercito italiano Cadorna pensava che il Trentino dovesse essere difeso dove il terreno era montuoso e le valli strette, difficili da pensare attaccabili da un’azione massiccia del nemico.

L’offensiva italiana si doveva, invece, concentrare sul fronte Giulio con 35 divisioni suddivise in 4 armate assieme a un gruppo nella zona Carnia. L’azione di attacco doveva essere affidata alla seconda e terza armata, mentre gli austriaci ci schieravano contro 25 divisioni ripartite tra le armate Dankl, Rohr e Boroevic, al comando del generale Conrad Von Hötzendorf, Capo di Stato Maggiore e grande nemico dell’Italia. Già nel luglio del 1915 iniziarono le battaglie dell’Isonzo, offensive sul Carso che vedevano grandi slanci di soldati italiani comandati all’attacco contro mitragliatrici austriache ben piazzate e organizzate in postazioni campali adatte a contenere l’attacco nemico. Seguì la seconda e poi, nell’ottobre 1915, la terza e quarta battaglia dell’Isonzo, con lo stesso criterio e risultati scarsissimi. L’esercito italiano era riuscito ad arrivare a conquistare le pendici del Carso, ma non si procedeva se non nel numero impressionante dei morti.

Si arriverà alla quinta battaglia dell’Isonzo dopo che l’operato di Cadorna venne messo in discussione dal ministro Sonnino, intenzionato a diminuire il potere di Cadorna stesso ed eventualmente di sostituirlo, ma Salandra obiettò, con una frase memorabile, che se Cadorna si fosse dimesso nessun altro ci sarebbe stato a prendere il suo posto. Così fu sempre Cadorna a comandare il nuovo attacco isontino, su sollecitazione del comando francese che voleva alleggerire l’attacco tedesco su Verdun. Anche con quel quinto attacco, nel marzo del 1916, non si ottennero risultati in termini territoriali, mentre Conrad, penetrava nell’altipiano di Asiago incontrando una resistenza italiana inaudita e impensabile. Tanto che la spedizione si concluse con un grosso fallimento, se non appunto per l’arresto di Battisti e Filzi.