La postazione scavata nella roccia l’avevamo individuata l’anno prima, durante la salita alla Tofana di Rozes, lungo la ferrata Lipella. Usciti dalla galleria di mina, nei pressi di ciò che resta del cratere, risultato dell’esplosione della mina italiana che alle 3.30 dell’11 luglio 1916 fece saltare in aria parte delle postazioni austriache, prima di proseguire lungo la cengia che porta all’attacco vero e proprio della ferrata, visto che la nostra era, come sempre del resto, un'escursione oltre che alpinistica anche storica, avevamo deviato verso le rocce del Castelletto proprio per visitare le tante postazioni che ancora vi si trovano al suo interno.

Una di queste, la cosiddetta caverna austriaca degli obici, che il 21 marzo 1916 fu centrata da un colpo d’artiglieria italiano, mantiene ancora tra le sue mura numerosi resti dei manufatti in legno, che i soldati, austriaci prima e quindi italiani dopo la sua conquista, costruirono per cercar di rendere più confortevole la loro permanenza in quei luoghi. E fu così che tra un discorso e l’altro durante questa prima visita spuntò l’idea che sarebbe stato interessante passare una notte lì dentro, non solo per il fascino di una notte in alta montagna ma anche per tentar di avvicinarsi allo spirito di quegli uomini che lì vi trovarono riparo e conforto anche se in ben altra situazione e con ben altri scopi ed emozioni.

Giunti al pomeriggio del giorno fissato, al passo Falzarego, ci siamo portati prima a forcella Col de Bois e quindi risalendo il pendio sud verso l’entrata della galleria di mina ai piedi della Tofana Prima, per raggiungere in breve la postazione che per quella notte sarebbe stata il nostro rifugio. Questa galleria presenta all’entrata un piccolo spazio che prosegue con un corridoio verso destra sul quale si aprono alcune nicchie più piccole sul lato sinistro, tutte dotate di feritoie con vista verso il Col de Bois e il Lagazuoi. Lungo questo corridoio sono state ricavate con assi di legno un paio di stanzette con letti a castello ormai tutti distrutti. La galleria, che presenta aperture su entrambi i lati, prosegue poi verso l’interno fino a un punto dove risulta in parte crollata. Come “dormitorio“ abbiamo provveduto ad attrezzare una di queste nicchie, chiudendo la feritoia e l’entrata con due teli da tenda. Il pavimento non era umido, come solitamente si trova in altre postazioni di questo tipo, ciò nonostante abbiamo isolato da terra i sacchi a pelo con un telo di nylon e i materassini oltre che con delle tavole di legno che al mattino abbiamo doverosamente rimesso al loro posto…

Le rocce che chiudono questo luogo tra la parete della Tofana e il Castelletto, raccontano tutte una loro storia. Una storia fatta di sofferenze e dolore, di coraggio e obbedienza, di senso del dovere e di solidarietà tra uomini di montagna che per un volere non loro si trovarono in questi luoghi, lontani dai loro affetti e dalle loro case, a combattersi e sfidarsi in una guerra che qui assunse spesso i toni della leggenda. E lo star lì in silenzio a passare con lo sguardo i buchi oscuri che si aprono su quelle pareti e conoscendo quello che quei buchi rappresentano, come e perché sono stati usati all’epoca, per sorprendere il nemico dall’alto, o dal basso, a seconda degli ordini ricevuti, danno a chi sa leggere queste tracce un significato e un senso del tutto particolare all’andare in montagna. Il saper riconoscere quello che la Grande Guerra ha lasciato tra le rocce e sul terreno, lo scoprire tracce più personali, lasciate direttamente dai soldati, come scritte o nomi, magari incisi sulla roccia con la punta della baionetta durante i turni di guardia, notare che una roccia sbrecciata è tale perché colpita da una cannonata e non per cause naturali, o il ritrovamento di un bossolo o di una stelletta o di qualche altro oggetto magari non propriamente di uso militare ma molto più personale, sono tutte cose che raccontano quella storia che deve essere tramandata a chi vuole ascoltarla, ma soprattutto a chi non la conosce e che spesso l’attraversa con indifferenza senza il dovuto rispetto per chi quella storia l’ha vissuta e sofferta.

La conquista del Castelletto

Sulla conquista di questo, al primo sguardo insignificante spuntone di roccia rispetto la maestosità delle cime che lo circondano, sono stati scritti diversi libri. Ne cito tre che ritengo fondamentali per chi volesse approfondire l’argomento: Hans Schneeberger La montagna che esplode, Kaiserjäger e Alpini sul Castelletto della Tofana, editore Gaspari; Piero Pieri La nostra guerra tra le Tofane, la conquista del Castelletto, edizioni Lint Trieste, e Robert Striffler Guerra di mine delle Dolomiti, Lagazuoi e Castelletto 1915-1917, edizioni Panorama.

Il Castelletto o come lo chiamavano gli austriaci, lo Schreckenstein, il Sasso della paura, perché assomigliava all’omonimo sasso vicino ad Aussig in Boemia dipinto dal pittore Ludwig Richter in una delle sue opere, assunse durante la Grande Guerra importanza militare in quanto risultava una spina nel fianco per l’esercito italiano che transitava nella sottostante Val Costeana per portarsi verso le postazioni del passo Falzarego, oltre che a costituire la chiave di volta delle difese austriache della val Travenanzes. La lotta per questo monte vide fronteggiarsi per oltre un anno, dal maggio del 1915 al luglio del 1916, a costo di enormi sacrifici, gli alpini e i Kaiserjäger, in un duello fatto di scaramucce e colpi di mano come solo la conformità del fronte dolomitico permetteva, che però non portarono a niente se non al consolidamento delle proprie posizioni. A chiarire l’importanza militare che questo monte aveva per gli austriaci e i problemi che invece creava agli italiani, possono essere d’aiuto le parole di Amedeo Tosti ne La guerra sotterranea:
Quanti erano i morti del Castelletto?... Chi poteva dirlo ? Certo non v’era compagnia di fanti o di alpini, che non avesse perduto decine di uomini sotto il piombo inesorabile dei tiratori austriaci e tedeschi veglianti su quelle rocce; e dappertutto nella zona, dal trincerone di quota 1808, traversante la via delle Dolomiti, fino alle trincee più avanzate di passo Falzarego, si narravano episodi di quella caccia all’uomo, che ogni giorno faceva raccogliere qualche cadavere in mezzo alla rotabile, sull’erta di Col di Bois, oppure sullo squallido masarè di Travenanzes: qualche fante sardo, quando gli accadeva di nominare il Castelletto, si faceva addirittura il segno della croce (…).

La zona per quanto riguarda il nostro esercito era presidiata dal 5° Gruppo alpini, composto dai battaglioni Belluno, Val Chisone, Monte Pelmo, Antelao, Monte Albergian, Pieve di Cadore, dai Volontari alpini feltrini e due battaglioni di fanteria della brigata Reggio, tutti agli ordini del colonnello Tarditi e dipendenti dalla IV armata. Gli austriaci invece lo presidiavano (al momento dell’esplosione) con due plotoni di Kaiserjäger agli ordini dell’alfiere Hans Schneeberger, detto “la pulce delle nevi” per la sua abilità e agilità nel muoversi in montagna.

Vanificati tutti i tentativi di conquista con attacchi e colpi di mano in superficie, da parte del presidio austriaco che godeva di un’ottima posizione difensiva, si pensò di conquistarlo facendolo saltare in aria, pratica a cui si ricorse spesso nella guerra in montagna e non solo, nonostante i risultati non fossero mai all’altezza degli sforzi profusi nei lavori di scavo. Dell’operazione furono incaricati i sottotenenti Tissi e Malvezzi che dovettero per prima cosa procurarsi personalmente il materiale, come le perforatrici Ingersol e Sullivan, per dare il via al loro progetto. Individuato il luogo dove far partire la galleria si diede inizio ai lavori. Lavori di scavo che contemporaneamente erano accompagnati da operazioni militari in superficie, sia per distogliere gli austriaci dal vero scopo delle numerose esplosioni sotterranee che inevitabilmente venivano percepite, che per aprire feritoie e postazioni sulla parte della Tofana che sarebbero servite per appoggiare il definitivo attacco a esplosione avvenuta.

Tutte postazioni abbastanza facilmente individuabili anche al giorno d’oggi. La sezione di scavo della galleria era di 1.80 per 2.00 metri e progrediva di 5/6 metri al giorno nel ventre della montagna. Al Tissi, ferito a una spalla, subentrò nella direzione dei lavori l’aspirante Cadorin. Lavori che procedettero incessantemente fino a creare una galleria di circa 500 metri, in salita, e con più curve, che sbucava in una camera di scoppio che fu caricata con 35.000 Kg di gelatina, sette volte quelli usati per il Col di Lana! Nel frattempo anche gli austriaci, consci del pericolo che si avvicinava, avevano iniziato una galleria di contromina, ma troppo tardi e senza l’attrezzatura adeguata per poter ostacolare il lavoro degli italiani. E così alle 3.30 del 11 luglio 1916, tre mesi dopo la mina del Col di Lana, un’altra esplosione gigantesca scuoteva le montagne del fronte dolomitico. Come già detto in generale, anche in questo caso, il risultato, nonostante lo sforzo umano e materiale profuso, non fu all’altezza delle previsioni. Inoltre i gas sprigionati dall’esplosione e le frane da essa causate, che durarono più giorni, non permisero la completa attuazione dei piani di attacco previsti. Pur tuttavia gli italiani finalmente il 15 luglio riuscirono a conquistare la tanto agognata posizione. Poi come per tutto il fronte dolomitico tanti sforzi, sacrifici e caduti, furono resi vani dai fatti di Caporetto dell’ottobre del 1917… ma questa è un’altra storia…