Il 28 dicembre del 2017 il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Catanzaro emetteva ordinanza di misura cautelare nei confronti di ben 170 persone, su 186, indagate per la maggior parte di esse, per i reati di associazione di tipo mafioso, per altri di concorso esterno nella medesima associazione, altre per associazione a delinquere senza la caratteristica mafiosa, favoreggiamento, illecita concorrenza aggravata, estorsione aggravata, intestazione fittizia di beni, turbativa d’asta, frode fiscale, corruzione, falso ideologico, peculato e altro, reati aggravati dal metodo mafioso.

All’apparenza nulla di strano. L’operazione si inserisce tra le tante che dal 1993 in poi sono state condotte dalle Direzioni distrettuali antimafia di Reggio Calabria e Catanzaro (alle quali si sono aggiunte in seguito quelle di Milano, Torino, Bologna) nei confronti della ‘ndrangheta calabrese, e in particolare delle tante cosche che la compongono e che ne fanno il fenomeno criminale italiano più diffuso nel mondo, più ricco, più invasivo, meglio organizzato e presente in tutti e cinque i componenti. In questo caso si tratta della cosca Farao-Marincola, nomi sicuramente poco noti al grande pubblico, ma non certo nel mondo del crimine organizzato, originari di Cirò, comune in provincia di Crotone, noto più per la produzione dell’omonimo vino rosso che non per la caratura criminale delle locali cosche di ‘ndrangheta.

Qualcosa di diverso tuttavia c’è e merita di essere messo in evidenza, non solo per la presenza non del tutto consueta anche se non rara, di esponenti della politica calabrese (il presidente della provincia di Crotone, alcuni sindaci, funzionari pubblici), quanto per la circostanza che parte consistente dell’attività criminosa svolta dagli indagati si fosse svolta su territorio tedesco, nel quale la cosca si era insediata da tempo, insieme a tante altre che popolano, si può dire incontrastate, le città della Germania da decenni. L’ordinanza si compone di 1371 pagine e la sola elencazione degli indagati e dei 115 capi di imputazione ne occupa oltre 100 e non può essere certamente esposta in questa sede neppure in sintesi, anche per la complessità e il numero delle attività oggetto di indagine, che vanno dal 2013 sino al 2017. Non è tanto il merito delle vicende criminose poste in essere dagli indagati tra i due paesi, quanto piuttosto la comprensione della vastità degli interessi della ‘ndrangheta oltre i confini nazionali ed europei, e la correlativa inerzia degli Stati nell’attività di contrasto.

Per la verità, di presenze della ‘ndrangheta la Germania era venuta a conoscenza in maniera traumatica nel 2007, quando nella notte di ferragosto, davanti alla pizzeria “Da Bruno” di Duisburg un commando composto da componenti della famiglia Nirta-Strangio tese un agguato alla famiglia rivale Giorgi-Strangio (non stupisca la ricorrenza di identici cognomi in ambedue gli schieramenti), uccidendone sei componenti, nel contesto di una pregressa e feroce di una guerra tutta interna alle “famiglie” di San Luca, piccolo Comune della Locride, (noto per essere stato il luogo natale dello scrittore calabrese Corrado Alvaro, ma di più per essere stata la capitale dell’Anonima sequestri negli anni ’70 del secolo scorso), guerra che aveva già conosciuto precedenti agguati reciproci in territorio calabrese. Non si trattava di arcaica faida familiare, quanto di una lotta per la supremazia sul territorio ma non solo; erano in ballo anche corposi interessi economici, non esclusi quelli che derivavano dal traffico di sostanze stupefacenti.

Fu uno choc per l’opinione pubblica tedesca che non immaginava di ritrovare il proprio territorio al centro di una spietata guerra di mafia, ma lo fu anche per le istituzioni, prima fra tutte la BKA (polizia federale) che si ritrovò sorpresa, spiazzata e inerme di fronte ad un fenomeno che era sfuggito del tutto alla sua attenzione. Eppure la presenza di mafie italiane in Germania era nota da tempo. Le autorità italiane avevano segnalato per tempo il pericolo rappresentato dal proliferare di basi logistiche della ‘ndrangheta calabrese in territorio alemanno. Un corposo rapporto del ROS (Raggruppamento operativo speciale dei Carabinieri), già nel 2000 (!) aveva messo in evidenza, con la collaborazione delle autorità di polizia tedesche, le numerose basi logistiche delle cosche di San Luca nelle località di Duisburg e di Erfurt, oltre che di Bochum, München/Monaco di Baviera, Leipzig/Lipsia, Bous, Neukirchen-Vluyn e Deizisau. Altre presenze, riconducibili alle cosche Carelli e Farao (quest’ultima protagonista assoluta dell’ordinanza di questi giorni), erano state segnalate dalla polizia di Soest nella regione della Renania-Vestfalia. Già all’epoca le cosche risultavano proprietarie di 30 pizzerie, di alcune aziende e di un hotel. Avvenne però che dopo gli attentatiti terroristici del 2001 e successivamente quelli di Madrid del 2004 e di Londra del 2005, la sezione criminalità italiana della BKA venne smantellata e tutte le risorse concentrate sul pericolo terroristico.

Quelle diffuse presenze erano funzionali in primo luogo ad esigenze di riciclaggio dei proventi dei sequestri di persona e del traffico della droga, attività nelle quali le cosche di San Luca avevano acquisito un triste primato, all’attività di traffico di droga, in particolare cocaina, a consentire un sicuro rifugio per latitanti, oltre che alla delocalizzazione di attività fuori dai propri territori di origine, nei quali più intensa ed impegnata si manifestava l’attività repressiva di polizia e magistratura.

Le indagini della polizia tedesca, che avevano evidenziato tutte le presenze delle mafie in Germania, riprese dal ROS nel rapporto del 2000, non condussero però ad alcun risultato concreto. Nessun processo, nessuna condanna. La mancanza nella legislazione tedesca di ipotesi di reato associativo impediva di procedere su fenomeni di contesto, e l’autorità giudiziaria si limitava a giudicare singoli episodi senza preoccuparsi dei collegamenti, delle provenienze, delle possidenze. Non mancavano neppure, anch’essi documentati attraverso l’esito di intercettazioni telefoniche (ovviamente disposte dall’autorità giudiziaria italiana…), tracce di contatti equivoci degli ambienti mafiosi italiani con esponenti del potere politico tedesco, anche di alto livello.

Emblematico il rapporto tra Mario Lavorato, uno tra gli arrestati nella recente ordinanza della DDA di Catanzaro, proprietario di una pizzeria sita nei pressi di Stoccarda, nota come molti locali italiani per la buona cucina, e l’allora capogruppo della CDU nel parlamento di un land tedesco. Dalle intercettazioni delle conversazioni dell’italiano, originario di Cariati, in provincia di Crotone, emersero i rapporti assai cordiali con l’uomo politico, frequentatore abituale del locale, tanto da determinare l’intervento di autorevoli esponenti del suo stesso schieramento politico per avvertirlo della pericolosità dei suoi rapporti e indurlo a maggiore cautela. Sconveniente apparve il fatto che proprio nei locali della pizzeria si fosse svolta una “serata calabrese” a favore della CDU (in sostanza una raccolta di fondi). Nonostante che all’epoca il caso avesse sollevato polemiche anche accese non ne derivarono danni per la carriera politica dell’uomo; al contrario, adesso egli riveste la carica di commissario europeo al Bilancio e tra il 2010 e il 2014 lo era stato all’Energia, poi all’Economia. Nel frattempo, a leggere le pagine dell’ordinanza di questi giorni, anche la carriera criminale del Lavorato progrediva sino a farne uno degli esponenti principali dell’aggregato associativo operante tra Germania e Italia e delle attività estorsive che ne costituivano il metodo abituale di condotta. Verrebbe da dire che tutto il mondo è paese e che è facile dare lezioni di moralità e di rigore, sin quando non si creano le occasioni e le condizioni per accettare i vantaggi, di ogni tipo, che possono derivare da contatti con ambienti allettanti quanto chiaramente ambigui.

Quanto sin qui detto suggerisce considerazioni amare sulla progressiva inarrestabile ascesa del potere delle mafie italiane in tutta Europa, ma soprattutto in Germania che oggi costituisce uno dei territori più interessati al fenomeno, ma nello stesso tempo tra i meno impegnati nell’opera di contrasto. Una scrittrice tedesca, Petra Reski, si è occupata con grande competenza e con ancora più grande coraggio, del fenomeno ‘ndrangheta in Germania ed ha scritto in proposito vari libri ricevendone in cambio minacce, denunce, condanne in sede civile per diffamazione, solamente per avere fatto il nome di personaggi già indicati nei rapporti di polizia come appartenenti alle cosche calabresi presenti in Germania e in particolare del titolare di un ristorante in Erfurt, quale uomo di fiducia della famiglia Giorgi di San Luca… Secondo la legge tedesca, infatti, non si può fare il nome di persona indagata per mafia, anche se il suo nome figura tra gli indagati nei rapporti di polizia, solo perché non è ancora intervenuta sentenza definitiva di condanna.

C’è solo da augurarsi che la recente operazione giudiziaria susciti nell’opinione pubblica tedesca e soprattutto a livello governativo, quella reazione sinora mancata e spinga ad adottare e condividere anche a livello europeo iniziative di coordinamento investigativo, armonizzazione della legislazione penale, istituzione della Procura europea contro mafie, terrorismo e reati finanziari, auspicata a parole, ma intorno alla quale la politica del rinvio ha prevalso sino a pochi mesi fa, su quella della sua rapida attuazione, in conformità a quanto previsto dall’art. 69 E del Trattato di Lisbona (rinumerato art. 86 del Trattato di funzionamento dell’Unione Europea). La norma prevede infatti, l’istituzione della Procura Europea, con il compito “di combattere i reati che ledono gli interessi finanziari dell'Unione”, ma prevede anche che il Consiglio europeo possa adottare, contemporaneamente o successivamente, una decisione che estenda le attribuzioni di tale organismo alla lotta contro la criminalità grave che presenta una dimensione transnazionale, consentendole di esercitare l’azione penale per quanto riguarda gli autori di reati gravi (tra i quali la corruzione), con ripercussioni in più Stati membri e i loro complici.

Solo lo scorso 12 ottobre 2017, dopo circa dieci anni d il Consiglio dell’Unione Europea ha deliberato il testo definitivo del Regolamento che istituisce la Procura Europea (EPPO, European Public Prosecutor’s Office), Si tratta di un nuovo ufficio europeo che trova la sua base giuridica nell’art. 86 TFUE e che sarà competente ad individuare, perseguire e rinviare a giudizio gli autori di reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione. La Procura Europea avrà la propria sede in Lussemburgo e, almeno inizialmente, non sarà competente in tutti gli Stati Membri, ma solo nei 20 paesi, inclusa l’Italia, che hanno deciso di prendere parte all’iniziativa. In particolare, restano al momento esclusi Danimarca, Regno Unito, Irlanda, Malta, Olanda, Polonia, Svezia e Ungheria. La competenza del nuovo organismo include, fra l’altro, condotte di truffa ai danni dell’Unione Europea e malversazione di fondi europei, di riciclaggio di proventi di reato, di corruzione attiva e passiva di funzionari europei, di condotte indebitamente appropriative di pubblici funzionari europei, nonché i delitti di frode relativi all’imposta sul valore aggiunto.

Per il momento nessun cenno alla competenza del nuovo organismo in tema di criminalità organizzata, terrorismo e corruzione. Il Regolamento, peraltro, si limita a delineare la struttura organizzativa dell’EPPO, ma il cammino che resta da compiere perché divenga operativo non sarà certo breve. Pur prendendo atto con soddisfazione del traguardo, ancora provvisorio, raggiunto nello scorso anno, saranno necessari ulteriori interventi in materia di coordinamento in materia di mafie e terrorismo, di scambio di informazioni tra gli organi di polizia e tra quelli di sicurezza.