Kobe: questo sconosciuto! No, non è il titolo di un nuovo saggio sulla carne, ma è la sintesi di uno degli argomenti che più di ogni altro è al centro dell’attenzione per quanto riguarda la cucina giapponese. Questa particolare e pregiatissima qualità di carne proviene da una rarissima razza di manzo, caratterizzata dal distintivo colore nero e dalla mole imponente. Questi animali infatti furono introdotti in Giappone al fine di coadiuvare i contadini nella pesante coltivazione del riso gohan. Nel diciannovesimo secolo i giapponesi cominciarono a consumare questa carne e rimasero affascinati dalla sua tenerezza e dalla distintiva marezzatura. Il nome esatto della specie è Kurolem Wagyu o Tajima Wagyu, a indicarne proprio la caratteristica colorazione nera, la parola Kuro in giapponese significa per l’appunto nero. Kobe è semplicemente la città situata nella prefettura di Hyogo, divenuta famosa per l’allevamento del Wagyu. Il Kobe beef è oramai divenuto una pietanza iconica, circondata da un alone di mistero e mito. I bovini, che devono raggiungere minimo i 470 chilogrammi di peso, vengono massaggiati e nutriti in modo da raggiungere un elevatissimo grado di marezzatura e marmorizzazione della carne, dal gusto avvolgente.

Il 4 marzo, qui da noi, in Italia, abbiamo festeggiato il Bue di Kobe. Eh sì, cari signori, è proprio così! Il 4 marzo la quarta gamba del centrodestra, il ''centro'' dei moderati, è andata... dopo essere stata massaggiata e accarezzata per fare in modo che qualche ''moderato'' si accorgesse di lei, come il Bue di Kobe è andata al macello. E che macello! Ma perché da più di 20 anni il centro in Italia non viene più preso in considerazione a parte quelle piccole roccaforti che ogni tanto mandano al Parlamento europeo qualche vecchia guardia post-democristiana come Lorenzo Cesa? È successo che anche questa volta ''il silenzio degli innocenti'', cioè di coloro come questi centristi moderati accusati di essere troppo silenziosi, ha prevalso e hanno perso i post-democristiani, quelli che con la politica dei due forni volevano mettere un filetto da una parte e una tagliata dall'altra. Bruciate tutte e due. Poi c'è la maggioranza che ha governato fino ad oggi, una sorta di ''Patto Gentiloni'' tornato di moda dopo 100 anni. Ripercorriamo allora che cosa hanno fruttato questi patti dall'inizio del '900 fino al Nazareno.

La storia d'Italia trabocca di “patti segreti”, a volte scritti (come l'accordo di Londra del 26 aprile 1915, che comportò l'intervento nella Grande Guerra), a volte no (come quello concordato in carrozza a Plombières nel luglio 1858 tra Cavour e Napoleone III per l'alleanza contro l'Austria). Abbozzati fra sorrisi compiaciuti, molti “patti” finirono come quelli “col diavolo”: stipulati con riserve mentali, andarono in malora. Fra i tanti, rimane misterioso quello “del Nazareno”. Il tempo dirà quale fosse la sua vera “posta”, quando si infranse, come e tra chi potrebbe nascere un accordo politico alla luce del sole in un Paese bisognoso di stabilità anziché di governi effimeri come l'attuale in via di trasloco, bocciato in partenza del 60% che ha votato no al referendum del 4 dicembre e schiantato alle politiche del 4 marzo; si ritrovò con ministri quali Lotti, Madia, Poletti... e Boschi Maria Elena sottosegretaria della presidenza, sempre sotto tutela della “madrina” Finocchiaro.

Fra le tante leggende nere, occupa un posto privilegiato il “patto Gentiloni” (1912-1913), sul quale molto si scrisse e ancor più, forse, si scriverà per vezzeggiare il Presidente del consiglio dei ministri che ha preso dalle tasche di Renzi il campanellino di Palazzo Chigi, parente molto alla lontana del conte Vincenzo Ottorino Gentiloni (Filottrano, 1863-Roma, 1916), il cui ultimo discendente diretto morì nel 1981. Secondo il chiacchiericcio giornalistico, Giovanni Giolitti (1842-1928), per la quarta volta a capo del governo, e Gentiloni, presidente dell'Unione elettorale cattolica italiana, concordarono che i cattolici avrebbero votato i liberali “moderati” (cioè non anticlericali assatanati) e i liberali avrebbero votato, a loro volta, i cattolici “moderati” (cioè non clericali fanatici) nei collegi ove si prospettava la vittoria di temibili “estremisti”: socialisti, soprattutto massimalisti, e repubblicani, cioè gli avversari della monarchia. Implicitamente i cattolici misero tra parentesi le antiche riserve nei confronti delle leggi laicistiche (statizzazione dei beni degli ordini ecclesiastici “contemplativi”, ineleggibilità dei sacerdoti con cura d'anime, divieto di propaganda politica dai pulpiti...) e, ancor più, la spoliazione dello Stato pontificio da parte della Terza Italia, e l'invisa “Casa Savoia”: due libertini (Vittorio Emanuele II e Umberto I) e un agnostico (Vittorio Emanuele III) secondo i nostalgici del papa-re. L'Unione elettorale esortò i cattolici a votare candidati che si impegnavano a difendere l'insegnamento della religione se voluto dalle famiglie (già legge dal 1908) e si opponevano al divorzio (che Giolitti non aveva alcuna intenzione di proporre).

I fatti, però, andarono molto diversamente da come sono stati narrati da studiosi compiacenti. Anzitutto va ricordato che la Chiesa aveva problemi al suo interno. Nel 1907 papa Pio X scomunicò i “modernisti”. Peggio che anticlericali e massoni, erano temuti come verme solitario corrosivo. Inoltre, basti ricordare che nelle Memorie della mia vita, pubblicate il 27 ottobre 1922, per il suo 80° compleanno, Giolitti non cita Gentiloni e nel suo sterminato carteggio il conte non compare mai. Lo Statista dedicò più di cento pagine alla guerra di Libia, ai negoziati di Losanna e di Caux e al trattato di pace tra Roma e la Sublime Porta (un quarto dell'insieme), mentre riassunse in appena sei righe le elezioni del 26 ottobre 1913, le prime a suffragio quasi universale maschile. Le urne “smentirono le previsioni di una rivoluzione parlamentare”. I socialisti crebbero a una cinquantina “e gli elementi che facevano capo al partito clericale, allora non ancora trasformato (in partito cattolico), esercitarono una maggiore influenza in numerosi collegi; ma nel complesso i liberali mantennero le loro posizioni più anche che non fosse necessario per un esercizio efficace del potere”.

All'apertura della Camera, il 9 dicembre 1913, Arturo Labriola, all'epoca sindacalista rivoluzionario, lanciò la celebre invettiva: “Esiste un'Italia cattolica, esiste un'Italia socialista, esiste un'Italia imperialista: non esiste un'Italia giolittiana. L'Italia giolittiana è una mediocre combinazione parlamentare (…). Quest'Italia deve sparire”. Sei anni dopo Labriola entrò ministro del Lavoro nel quinto governo Giolitti.

Si disse e si ripete che grazie al “patto Gentiloni” nelle elezioni del 1913 almeno 228 deputati, anche anticlericali notori e persino massoni, furono eletti con i voti dei cattolici. Per Giolitti, però, lo Stato era “incompetente” in questioni religiose: Stato e Chiesa sono due parallele che non s’incontrano. Il “patto Gentiloni”, in realtà, non è mai esistito come intesa nazionale tra l'Unione elettorale cattolica e i liberali, anche perché questi non erano organizzati in “partito”. Dal 1848/1861 vigevano i collegi uninominali, il miglior filtro della classe dirigente e “ascensore” del più imponente rinnovo di classe dirigente mai verificatosi in Italia dall'età di Comuni e Signorie a oggi, come acutamente osservò Giuseppe Galasso, meritoriamente fregiato del premio alla carriera dal Premio Acqui Storia. Nel 1913 ogni collegio elettorale ebbe vicende proprie, secondo tradizioni locali e candidati in lizza.

Giolitti dichiarò alla Camera che quanti avessero sottoscritto intese sottobanco non erano affatto “liberali”: del resto a norma dello Statuto i deputati rappresentavano la Nazione senza vincolo di mandato, né di conventi né di logge. Nessuno (men che tutti Gentiloni) lo confutò. La realtà era sotto gli occhi. Mentre a sinistra ingrossava la marea dei massimalisti (guidati da Mussolini), una parte dei repubblicani scendeva in piazza e sorgevano nuovi gruppi di estremistici (i nazionalisti, i futuristi e altri nuclei anti-sistema), nel 1913 Giolitti si limitò a far emergere in sede di elezioni politiche quello che era evidente dall'Unità: i cattolici (clero compreso) erano onnipresenti nell'amministrazione locale (comuni, province, enti pubblici, banche…) senza scandalo per nessuno. Sin dalla nascita dello Stato unitario parroci e mangiapreti collaboravano fianco a fianco in una miriade di enti e istituti.

Nelle elezioni dell'ottobre 1913 fecero scalpore i casi eccezionali. Un paio in particolare. A Montegiorgio don Romolo Murri, sacerdote modernista, già capofila della democrazia cristiana, sospeso “a divinis”, eletto con i voti dei radicali nel 1909 e sospettato addirittura di iniziazione massonica, fu sconfitto da Gaetano Falconi. A Cuneo il trentenne Marcello Soleri, da poco eletto sindaco, travolse Tancredi Galimberti, deputato dal 1887, già fervido giolittiano, poi acerrimo nemico dello statista. Terzo incomodo nel conflitto tra i due erano i cattolici, che avrebbero potuto far vincere Galimberti. Ma il conte Gentiloni andò a Cuneo in visita al prefetto e, come è come non è, i clericali si ritirarono dalla contesa e Soleri vinse con l'esultanza della locale loggia “Vita Nuova”. Altrettanto avvenne nel contiguo collegio di Borgo San Dalmazzo, ove Marco Cassin, ebreo e sostenuto dai massoni delle valli, prevalse sul clericale Alessandro Rovasenda di Rovasenda. Nella vivace lotta elettorale ci scappò persino un morto.

Indispettiti dal successo dei moderati, nel marzo 1914 i radicali lasciarono il governo e poco dopo uscirono dalla storia. Sognavano di avere in mano il futuro dell'Italia; invece scomparvero. Accade. La “settimana rossa” del giugno 1914 - quando repubblicani, socialisti e anarchici misero a soqquadro proprio le Marche del conte Gentiloni e qualche poco delle Romagne - mostrò che la difesa dello Stato non aveva bisogno di patti “scritti” tra i fautori dell'ordine: Annibale era alle porte. Bisognava fermare il movimento anti-sistema non con i cannoni (come era avvenuto nel 1898) ma con le urne elettorali.

La Grande Guerra sconvolse tutto. Liberali giolittiani e cattolici moderati furono a fianco dei socialisti contro l'intervento. Vennero messi all'angolo da una minoranza di interventisti, parte visionari, parte cinici, alcuni semplicemente stupidi. Il conte Gentiloni morì nel 1916, proprio quando il Paese più ne aveva bisogno. Nel dopoguerra alla guida dei cattolici ascese Luigi Sturzo, il “prete intrigante” (parole di Giolitti) che organizzò i cattolici nel Partito popolare italiano, fatto apposta per dividere mentre l'Italia aveva bisogno di unione per superare la catastrofe della Grande Guerra. Finì che al governo ascese Mussolini, il Partito popolare entrò al governo col Duce, poi si frantumò e la Santa Sede mandò Sturzo negli Stati Uniti d'America.

Il 27 febbraio 1908 Giolitti aveva detto alla Camera parole chiare e definitive, in linea con Azeglio, Cavour, Sella e con i re d'Italia: “l'italiano considera tanto il clericale quanto l'anticlericale come nemici della sua pace, nemici del paese (…). Al di sopra poi dei clericali, degli anticlericali, dei liberali sta lo Stato, cioè l'autorità suprema in tutti i rapporti della vita politica e della vita civile, perché nessuna autorità può stare al di sopra dello Stato. Questo è il fondamento del nostro diritto pubblico”. La “res publica”, sia in regime monarchico sia nell'attuale, non ha bisogno di patti segreti tra partiti ma di un governo fondato sul voto dei cittadini, liberamente espresso, come è accaduto nel novembre 2016 col referendum che ha sonoramente bocciato l'azzardo della riforma costituzionale Renzi-Boschi e il 4 marzo scorso.

Se ne viene fuori solo con un patto alla luce del sole, in Parlamento: le leggi elettorali per Camera e Senato e il ripristino dell'elezione diretta dei Consigli provinciali.