L'Italia è un vero inferno fiscale per le imprese, il peggior posto in Europa dove mettersi in proprio. Sembra quasi che tutto congiuri, dal fisco al credito, contro chi ha voglia di diventare imprenditore. Il prelievo fiscale annuale sul profitto è arrivato al 64,8%, contro una media europea del 40,6%. A rivelare questo e altri indicatori fiscali importanti è il rapporto annuale di Banca Mondiale e PWC “Paying taxes 2016”. Sono tre gli indicatori considerati: la pressione fiscale sulle imprese, le ore perse per gli adempimenti fiscali e il numero di tasse che gravano sulle imprese. Su 189 Paesi del mondo analizzati, l'Italia si pone al 137° posto.

Il rapporto è stato riproposto in Italia dal MEF. Durante la presentazione, Fabrizia Lapecorella, direttore del Dipartimento Finanze del MEF, ha fatto notare che il rapporto si riferisce al 2015 e quindi non prende in considerazione i miglioramenti che porteranno le misure introdotte dalla Legge di Stabilità 2017. Questo è vero. Ma il gap tra l’Italia e i colleghi europei è talmente ampio da non poter certo essere colmato dalle timide riforme di Renzi che, oltretutto, privilegiano l'abolizione delle tasse sulla prima casa rispetto al taglio del cuneo fiscale.

Ne abbiamo parlato con il prof. Angelo Todaro, docente di economia aziendale e imprenditore nel settore delle energie rinnovabili, con la sua Todaro Group è un vero pioniere italiano in questo settore. Todaro ha interessi non solo nel nostro Paese, ma in varie parti del mondo. Eppure, lui considera l'Italia il paese migliore al mondo ''il paese che amo, la Sicilia, la mia regione, la adoro'', ci dice davanti a un buon caffè in Piazza Politeama a Palermo dove va spesso per lavoro e non solo, essendo anche Presidente di Assoesco Sicilia, l'associazione che raggruppa le società che si occupano di energie rinnovabili e pulite. Todaro vive a Roma da 30 anni pur non avendo mai lasciato la sua adorata isola. Premiato più volte a livello nazionale e internazionale, già responsabile del dipartimento energie rinnovabili dell'Isiamed, l'Istituto Italiano per il Mediterraneo, Todaro sta intraprendendo anche un percorso culturale presentando il progetto per far rinascere un dipartimento di ''economia circolare'' il primo nel Mediterraneo.

Prof. Todaro, perché le nostre imprese fuggono all' estero, in particolare in Est Europa?

Le imprese non si trasferiscono dal territorio Italiano all’estero solo per pagare meno tasse, ma anche e soprattutto per la burocrazia che soffoca le infrastrutture, per non parlare dei bolli e le carte. Se si pensa che in Italia, per avere un OK su un progetto occorrono 15 anni, come mia esperienza personale documentabile. La cosa che blocca in particolare è la pubblica amministrazione: il suo processo decisionale. Il processo decisionale attraversa parecchi iter autorizzativi per la realizzazione delle opere, nelle sue diverse fasi, dove gli Enti coinvolti si trovano spesso e volentieri in contrasto con pareri diversi. I tempi che le imprese sopportano dell’iter autorizzativo sono tempi morti di ordinaria burocrazia che si perdono nel passaggio da una fase all’altra, da una pubblica amministrazione all'altra, da una decisione all’altra, da un parere all’altro. Come è noto, per coloro che fanno impresa, il male burocratico Italiano frena senza dubbio alcuno anche la salvaguardia dei diritti dei lavoratori.

Perché il nostro fisco è così pesante. Ci spiega, dal suo osservatorio internazionale, qual è la differenza tra noi e gli altri paesi?

Rispetto ad esempio alle aziende statunitensi, il nostro maggior carico fiscale è di 21,8 punti, che scende a 20,4 quando ci paragoniamo con la media tedesca, per raggiungere i 20 punti quando il confronto è con il Giappone. Al prelievo elevato, nel nostro Paese, si associa anche un sistema burocratico particolarmente complicato. Tra IRES, IRAP, tasse sugli immobili, versamenti IVA e contributi sociali, in Italia un imprenditore medio effettua in un anno 15 versamenti al fisco, 6 in più di un suo collega tedesco, 7 in più di un inglese, di uno spagnolo o di un francese, e 9 in più di uno svedese. Anche per essere in regola con il fisco le nostre aziende sono costrette a occupare una parte consistente del loro tempo: con 269 ore l’anno impiegate per adempimenti fiscali, l’Italia è sesta in Europa e prima tra le grandi economie. Un’azienda tedesca ha bisogno di “sole” 218 ore all’anno (51 in meno) e fa comunque peggio di Spagna (167 ore, 102 in meno dell’Italia) e Francia (137 ore, 132 in meno). Particolare la situazione del Regno Unito: a un sistema fiscale già leggero in termini quantitativi si accompagna un sistema di pagamento molto semplice. Gli imprenditori inglesi effettuano in un anno una media di 8 versamenti al fisco, occupando “solo” 110 ore del loro tempo, meno della metà di un imprenditore italiano.

Non solo. Le nuove regole di Basilea III sono un ostacolo all'elargizione del credito. Le banche sono chiamate, infatti, a detenere capitale in misura proporzionale ai rischi che assumono. Ricordiamo che le PMI in Italia, ma non solo, sono caratterizzate da una forte propensione all’indebitamento, in particolare nei confronti delle banche. Questa condizione di debolezza finanziaria delle piccole e medie imprese, già messa a dura prova da Basilea II e dalla perdurante crisi recessiva attuale, rischia di aggravarsi ulteriormente con l’entrata in vigore di Basilea III, che contiene parametri estremamente più severi per la salvaguardia del capitale. Infatti le banche, per rispondere positivamente alle situazioni di prove di stress e arrivare preparate all’appuntamento di Basilea III, sono impegnate a rafforzare i loro vincoli patrimoniali e a selezionare di conseguenza con maggiore rigidità le controparti, siano esse imprese o famiglie.

Molte piccole e medie imprese soffrono il soffocamento delle grandi aziende che fagocitano tutte le gare interne e internazionali. Il nuovo codice degli appalti può essere un elemento di facile accesso al sistema di gare italiane ed europee?

Guardi, sarò molto tranchant: chiedo come imprenditore a coloro che si candidano a governare questo Paese una revisione del codice degli appalti, considerato una delle cause della mancata ripresa degli investimenti. Di più cosa vuole che le dica?

Lei si batte da anni per le energie rinnovabili. È giusto investire sulle fonti pulite?

Se consideriamo gli ultimi 17 anni, i più caldi di sempre, scopriremo che 16 fanno parte nel XXI secolo. Secondo l’agenzia IRENA il mondo può permettersi un aumento medio di temperatura che oscilla da 0.6°C a 1.1°C. Gli impegni attuali sottoscritti a Parigi potrebbero avviare un calo delle emissioni nei prossimi anni, ma non sono sufficienti per raggiungere gli obiettivi fissati. Occorre ripensare il nostro sistema energetico, l’84% della nostra elettricità deriva ancora da combustibili fossili, inquinanti e dannose per la nostra salute. Secondo l’Agenzia IRENA se solo volessimo, entro il 2050, l’80% della produzione elettrica potrebbe derivare da fonti pulite e rinnovabili. In questo modo le emissioni di gas serra crollerebbero dell’85% e potremmo finalmente avere un mondo migliore dove vivere. Accelerare sulla decarbonizzazione in favore delle energie rinnovabili avrebbe una serie di effetti positivi di tipo socio-economici che spesso non vengono considerati altrettanto importanti: nuovi posti di lavoro, una salute migliore, maggiore inclusione sociale. Secondo le statistiche dell’Agenzia Internazionale per le energie rinnovabili, diminuire le emissioni di CO2 in linea con quanto previsto dall’Accordo di Parigi, porterebbe entro il 2050 a un aumento del PIL dello 0,8% che tradotto in soldi significherebbe un guadagno cumulativo di 19 trillioni di dollari. Cifra che potrebbe essere reinvestita per migliorare la qualità della vita e offrire più servizi a tutti i livelli. Il futuro delle energie rinnovabili è molto più roseo, anzi green, di quanto si può immaginare. Si stima che entro il 2050 più di venticinque milioni di persone si occuperanno di “renewable energy” ed efficienza energetica, con ricadute positive sul benessere umano (non saremo esposti a inquinanti atmosferici) e sugli ecosistemi (meno estrazione di carbone, trivellazioni per gas e petrolio).

Potrebbero essere le energie rinnovabili un nuovo modello di business?

Certo! Occorre focalizzarsi su nuovi modelli di business, nuovi strumenti di progettazione e regolamentazione dei mercati che possano incrementare gli investimenti. Solo investendo nella ricerca sarà possibile continuare a ridurre i costi dell’energia, migliorare le prestazioni dei sistemi energetici e investire in sistemi che integrino le fonti energetiche rinnovabili. Anche l’innovazione deve dare il suo contributo: è fondamentale portare alla luce e sviluppare nuove tecnologie che contribuiscano all’abbandono del carbone in un tempo ragionevolmente utile. Dalla batteria in grado di stoccare l'energia termica, alla carta da parati che produce energia passando per le batterie al sodio, la ricerca e l’innovazione hanno già fatto tanto e continuano a farlo. La speranza è che si continui a investire in nuove tecnologie rinnovabili in grado di garantirci un futuro più sostenibile.