Secondo il Presidente Mao Tze-tung, se “grande è il disordine sotto il cielo, la situazione (dunque) è eccellente”. E quindi, a dargli ragione, staremmo vivendo un momento straordinario, visto che quanto a “disordine sotto il cielo” non ci stiamo facendo mancare nulla... E veramente suona strano parlare d’altro, quando tutti sembrano rapiti dall’incantamento, da questo ‘elan’ da crociata che oppone ‘sovranisti’ a ‘europeisti’. Pure, proprio in questo momento, sembra la cosa migliore da fare.

Parliamo, ad esempio, di turismo. Di come la globalizzazione (che è anche e soprattutto possibilità ‘tecnica’ di spostare uomini e merci, a grandi distanze, in poco tempo e a basso costo) stia modificando sostanzialmente questo comparto, e di come questo a sua volta impatti sull’economia dei paesi e sulle comunità cittadine.

Cominciamo quindi col dirci che, al di là di alcuni grandi poli attrattivi archeologici (Pompei, Machu Picchu, le piramidi di Giza...), il turismo ‘globalizzato’ è un turismo metropolitano. Anche in paesi come l’Italia, che hanno una superificie relativamente ridotta, e molto densa di beni paesaggistici e culturali, la stragrande maggioranza dei flussi si concentra nelle grandi città. Perché il turismo di massa è un fenomeno sempre più ‘veloce’, mordi-e-fuggi, e viene veicolato soprattutto attraverso vettori aerei o navali. Sono quindi le grandi città, quelle che dispongono di grandi aeroporti attrezzati per un traffico intenso, e/o le città di mare con grandi porti, atti a ospitare navi da crociera, i luoghi dove si concentra il turismo contemporaneo.

La prima, più visibile conseguenza è quella che va sotto il nome di ‘gentrificazione’, ovvero la trasformazione d’uso intensiva di pezzi di città, segnatamente dei centri storici e delle aree limitrofe. Trasformazione che parte - per così dire - dal piano stradale, dove il piccolo commercio tradizionale viene sostituito dai bazar di paccottiglia ‘tipica’ e da fast-food, per poi dilagare ai piani superiori, dove il fenomeno dei B&B - con tutto il suo corollario di lavoro nero ed evasione fiscale - produce la progressiva espulsione dei ceti popolari dalle aree interessate.

Ovviamente, la gentrificazione non è soltanto una questione ‘estetica’ - l’aspetto dei luoghi - né soltanto sociale - la composizione dei residenti. C’è anche un impatto economico forte, che non è soltanto in positivo (commercio, accoglienza, ristorazione, servizi al turismo; quindi, attraverso la tassazione, amministrazioni pubbliche), ma anche in negativo; perché mentre, inevitabilmente, i profitti derivanti dal turismo si concentrano in una parte della città (e dei cittadini), i costi (manutenzione, trasporti e nettezza urbana, ecc.) gravano sull’intera collettività. Così come, per converso, l’impatto ‘fisico’ del turismo grava su aree limitate (esasperando il problema), rimanendo invece pressoché assente da altre.

In parole povere, il turismo è uno di quei settori in cui si manifesta platealmente, ‘plasticamente’, la necessità di ‘governare’ il fenomeno, da un lato, e di accompagnarlo con una redistribuzione economica, dall’altro.

In Italia, in particolare, abbiamo da decenni a che fare con due triti leit motiv relativi al settore: “il turismo è il petrolio dell’Italia” e “potremmo vivere di solo turismo”. Ed entrambe sono in realtà di ostacolo a uno sviluppo equilibrato (ed efficace) del settore turistico. L’economia italiana è, ancora oggi, una economia produttiva, basata cioè sulla ‘trasformazione’. Siamo un paese povero di materie prime, e di fonti energetiche fossili, ma ricco della capacità di sviluppare una produzione di qualità. Prova ne sia che la bilancia dei pagamenti (export vs import) è, persino oggi, attiva. Pensare di rinunciare a ciò, per trasformare il paese in un ‘turistificio’, è semplicemente follia - sotto il profilo economico, oltre che sociale e culturale. Così come folle è paragonare al petrolio - una fonte inquinante e destinata a esaurirsi - ai nostri beni paesaggistici e culturali (che del turismo costituiscono l’attrattore pressoché esclusivo). Folle già come paradigma culturale.

E mentre ci si trastulla con queste idee - che poi fanno da sfondo all’assalto predatorio al territorio - si trascurano invece del tutto le vere politiche di investimento sul turismo, quelle appunto capaci di massimizzare i benefici e minimizzare i costi sociale e ambientali. A partire proprio dalla capacità di intercettare e indirizzare i flussi turistici. Benché l’Italia sia, come già detto, un paese ad altissima densità di bellezze paesaggistiche, artistiche e architettoniche - cosa su cui spesso tendiamo a fantasticare, ingigantendola... - risultiamo meno competitivi rispetto ad altri paesi, che pure hanno un potenziale minore.

Pensiamo ad esempio agli Stati Uniti. Qui l’apporto (diretto e indiretto) del turismo all’economia vale l’8,1%, mentre in Italia vale il 10%. Ma mentre ogni anno un milione di italiani va in USA e spende per le proprie vacanze oltre quattro miliardi di dollari, dagli Usa arrivano 11 milioni di turisti che, però, in Italia spendono solo 4,7 miliardi di euro. Anche se in termini assoluti i bilancio appare positivo, è evidente lo squilibrio. Che è conseguenza di strategie diverse; anzi, del fatto che gli USA ne hanno una e noi no. Per dire, Brand Usa, l’ente di promozione turistico americano, tra il 2013 e il 2017 ha speso 650 milioni di dollari in attività di marketing, che hanno prodotto 17,5 miliardi di maggiori entrate da turismo. Noi non abbiamo nulla di simile.

Stessa storia per la Spagna. Nel 2017, anno record (+9% di arrivi), sono stati incassati oltre 80 miliardi dai turisti stranieri, il doppio dell’Italia. Il doppio. Come scrive il Sole 24 Ore, “sono ormai lontani gli anni Sessanta e Settanta quando l’Italia era la prima destinazione turistica al mondo. Oggi siamo scesi al quinto posto dietro la Cina, mentre la Spagna che ha investito molto in questo settore ha scalato la classifica e ormai ha superato gli Usa scesi al terzo posto e ha praticamente affiancato la Francia che è la prima destinazione al mondo”.

Ancora una volta, i numeri ci dicono qualcosa. Nel 2017, la Spagna ha registrato l'arrivo di 82 milioni di turisti; nello stesso periodo, in Italia abbiamo avuto 60 milioni di arrivi. Col 73% dei turisti arrivati nel paese iberico, abbiamo ricavato il 50% del loro utile. Perché? Perché i turisti stranieri in Spagna si fermano di più: oltre sette giorni contro i 3,5 in Italia (la metà anche in questo caso). Poiché è fin troppo evidente che il gap non trova giustificazione nella differente qualità del territorio - che semmai dovrebbe vederci avvantaggiati - è chiaro che il problema risiede nella qualità dei servizi.

E quando parliamo di servizi, ci si riferisce soprattutto a quelli strutturali. E soprattutto ai collegamenti, internazionali e interni - oltre che, ovviamente, ai trasporti locali. Da questo punto di vista, appare incomprensibile che ci si ostini a perseguire opere faraoniche - e di grandissimo impatto ambientale e sociale - come la TAV Torino-Lione, e poi si rimanga incapaci di mantenere una compagnia aerea che ‘copra’ strategicamente le rotte da e verso l’Italia. Per dire, benché il nostro paese sia la meta preferita dai cinesi, la Germania richiama molti più turisti da quel paese, per la semplice ragione che esistono molti più collegamenti aerei diretti con la Cina di quanti ne abbia l’Italia.

Ma non è solo la rete dei collegamenti aerei ad essere rilevante ai fini turistici. I collegamenti ‘interni’, su gomma e su ferro, sono non meno rilevanti, perché sono quelli che consentono di ‘spalmare’ sul territorio le presenze, evitando il sovraccarico su pochi grandi centri urbani. Bisognerebbe quindi lavorare non solo alle grandi dorsali ad alta velocità, ma anche ai collegamenti radiali, quelli a breve e medio raggio - solitamente trascurati perché usati prevalentemente dai pendolari. Sotto il profilo turistico, l’Italia ha sostanzialmente cinque grandi poli attrattivi: Milano, Venezia, Firenze, Roma e Napoli. Ciascuno di questi poli ha però un territorio circostante che, per livelli concentrici, si presenta ricco di veri e propri gioielli storici, architettonici e urbanistici, dalle ville palladiane del Veneto a cittadine come Siena, San Gimignano, Mantova. Rendere agevolmente accessibili i luoghi variamente prossimi a questi grandi poli - e promuoverli opportunamente - significherebbe ragionare in termini strategici.

Al tempo stesso, non va mai dimenticato che il turismo deve essere una risorsa, e per tutti, non una piaga per i molti e un vantaggio per pochi. Quindi ‘governare’ strategicamente il fenomeno non significa semplicemente organizzare le infrastrutture necessarie a soddisfare la (crescente) domanda, ma implica anche farlo in modo che l’impatto sulle comunità non raggiunga mai il livello di guardia, che non si arrivi mai a uno stravolgimento della struttura socio-culturale dei centri interessati.

In questo senso, lavorare nella direzione del decongestionamento dei principali centri urbani, non solo garantirebbe una più diffusa ricaduta economica (probabilmente anche più ‘ricca’, perché stimolerebbe una permanenza più prolungata), ma appunto anche un allentamento della pressione sui centri maggiori. Una questione, questa, che assume sempre maggior rilevanza, e di cui non si può continuare a non tener conto. E che va affrontata in modo ‘partecipativo’, coinvolgendo tutti gli attori e non soltanto gli stakeholder economici e/o istituzionali.

Assai interessante, in questo senso, la nascita della rete SET (Sud Europa di fronte alla Turistizzazione), una rete internazionale di città colpite dall’industria turistica che riunisce Venezia, Valencia, Siviglia, Palma, Pamplona, Lisbona, Malta, Malaga, Madrid, Girona, Donostia/San Sebastian, Canarie, Camp de Terragona, e Barcellona. Una iniziativa dal basso, che si propone di cercare risposte alle svariate problematiche connesse all’aumento - impetuoso e incontrollato - del turismo, da quelle abitative a quelle relative ai prezzi, dalla saturazione delle reti di trasporto pubblico alla precarizzazione delle condizioni lavorative.

In mancanza di opportune politiche di gestione da parte dello stato centrale, l’auto organizzazione dei cittadini (e delle municipalità) diventa la risposta necessaria. Sarebbe comunque auspicabile che, anche se in forma eventualmente conflittuale, queste due realtà avessero uno scambio dialettico, come presupposto per una definizione delle strategie turistiche pienamente condivisa.

È necessario cogliere le opportunità insite nel turismo, che non sono meramente economiche ma anche di scambio culturale, ma va fatto in modo intelligente, pianificato, e con la dovuta attenzione non soltanto ai benefici economici ma anche ai costi sociali. Va fatto sottoscrivendo un patto tra Stato e cittadini, tra amministrazione centrale e amministrazioni locali. Un vero e proprio ‘accordo di programma’ da stipulare nell’ambito della Conferenza Stato-Regioni, la cui formulazione veda però la partecipazione attiva dei cittadini e dei Comuni.

Perché, per dirla con le parole del Califfo di Cordova, al-Qasim al-Ma’mun, “Le stelle della saggezza brillano nelle profondità dell’inchiostro”.