Il 19 luglio si commemora il 26° anniversario della strage di via D’Amelio, nella quale persero la vita il magistrato Paolo Borsellino e cinque componenti della sua scorta. Meno di due mesi prima (il 23 maggio dello stesso anno) era avvenuta la strage di Capaci, nella quale a perdere la vita furono Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e quattro componenti della sua scorta. Personalmente non amo le celebrazioni retoriche, formali, ripetitive dei soliti messaggi contro le mafie e dell’esaltazione di due eroi caduti per la feroce sete di vendetta di Cosa Nostra, contro due dei suoi più autorevoli oppositori.

Tutto questo è necessario, ma non sufficiente: oggi a distanza di oltre un quarto di secolo, si ha il dovere di cambiare registro, di affrontare con coraggio, senza giri di parole e timidezze di sorta alcuni dei nodi irrisolti di quegli eventi, avvenuti in uno dei periodi più caldi e decisivi per le sorti politiche, economiche e criminali, d’Italia e dell’intera Europa.

In quello che si è detto e scritto in questi giorni è mancato, tranne poche eccezioni, il tentativo di capire le ragioni che hanno determinato le due stragi del 1992, consumate da Cosa Nostra con il massimo impiego di tecniche terroristiche e a brevissimo lasso di tempo tra l’una e l’altra, come se alla strage di Capaci dovesse necessariamente seguire quella di via D’Amelio, in vista di un risultato che doveva comunque essere raggiunto, anche con la prosecuzione sul territorio nazionale di quella feroce strategia, come poi effettivamente avvenne con gli attentati del 1993 e con i progetti stragisti di inizio 1994, poi non realizzati.

Spiegare tutto con la tesi del colpo di coda della bestia morente (Cosa Nostra, colpita dalla condanna divenuta definitiva in Cassazione, proprio nel gennaio di quell’anno), prima di essere piegata per sempre dalla risposta dello Stato, è semplicistico e riduttivo, e, soprattutto, non tiene conto di quello che dovrebbe essere il primo dovere di chiunque voglia comprendere fenomeni di così vasta e devastante portata, vale a dire il contesto storico e geo-politico nel quale quegli avvenimenti si inscrissero in maniera talmente incisiva e profonda da determinare un mutamento generale dello scenario politico ed economico del paese e di cui ancora oggi si scorgono le conseguenze.

Quel mutamento ha infatti lasciato tracce profonde ed oggi esso si è compiuto con l’avvento di partiti sovranisti, demagogici e populisti, il cui programma politico costituisce, se realizzato, un gravissimo pericolo per la democrazia nel nostro paese e per la sopravvivenza stessa dell’Unione Europea, così come la vollero i sei paesi fondatori con il Trattato di Roma del 1956.

Nel 1989 cadeva il muro di Berlino, i paesi “satelliti” dell’URSS riprendevano la libertà e la democrazia perduta, e nel 1991 faceva seguito, inesorabilmente, il crollo dell’impero sovietico. Finiva dunque la guerra fredda e con essa veniva meno il complesso apparato difensivo costruito in Occidente, del quale facevano parte non solo strutture istituzionali occulte, come Gladio e altre consimili di tutta Europa, ma anche strutture criminali che dalla fine della seconda guerra mondiale in poi ebbero il compito di fare da cani da guardia contro ogni pericolo di cedimento interno ed esterno nei confronti del colosso sovietico.

In Italia, Andreotti aveva già rivelato l’esistenza di Gladio, strumento prezioso negli anni della strategia della tensione, divenuto obsoleto ed imbarazzante. I partiti sui cui si sorreggeva la prima repubblica (Democrazia Cristiana, i suoi partiti satelliti, ed il PSI) crollarono uno dopo l’altro per l’effetto dell’intervento giudiziario milanese contro corruzione e finanziamento illecito, ma sostanzialmente perché avevano perso anch’essi la loro funzione strategica di argine nei confronti di un partito comunista, che evolveva rapidamente come possibile alternativa di governo, dopo decenni di conventio ad escludendum, non più sostenibile.

Ed anche l’apparato mafioso tradizionale, nelle sue varie declinazioni di sostegno elettorale e di agenzia di servizi criminali, era divenuto ingombrante ed anacronistico e doveva essere smantellato nelle sua dimensione militare e terroristica. Tutto questo non esclude che Cosa Nostra intendesse in qualche modo reagire alla repressione giudiziaria della quale riteneva responsabile in primo luogo Falcone, sia per il suo passato di giudice istruttore del maxiprocesso, sia per l’attuale ruolo al Ministero di Grazie e Giustizia, sia infine per quello che avrebbe potuto ricoprire al vertice della Direzione Nazionale Antimafia di prossima istituzione.

Al contrario, quel progetto si prestava alla perfezione per essere utilizzato a fini affatto diversi da quelli dei vertici di Cosa Nostra e così avvenne. Elemento decisivo emerso nel corso delle indagini risulta essere l’improvviso cambiamento di programma del progetto di assassinare Falcone, che in un primo tempo doveva avvenire a Roma lungo i percorsi che egli faceva abitualmente, per poi essere sostituito da quello dell’attentatuni da compiere in Sicilia, col duplice scopo di evitare equivoci circa la sua paternità, che doveva comunque risultare quella mafiosa, e nel contempo consentire un’esecuzione terroristica, di tipo libanese, che non poteva certo avvenire all’interno della capitale.

La saggistica sull’argomento è ricca e offre un panorama inquietante della strategia dell’inganno, messa in atto non certo da Riina e compagni, per creare nel paese allarme e confusione insieme, opera di organi di controinformazione adusi al depistaggio organizzato. Prende corpo la tesi del “doppio cantiere”, quella cioè di un intervento aggiuntivo di esplosivo di ben più elevata potenza (Semtex H o Torpex), diverso dal nitrato di ammonio di cui parla Brusca.

A questo si aggiunga che una “nuova strategia della tensione”, che sarebbe avvenuta tra febbraio e luglio del 1992, programmata nell’autunno del 1991 in una riunione tenutasi a Sissak, nell’ex Jugoslavia, venne annunciata nei primi giorni di febbraio di quell’anno, da un personaggio come Elio Ciolini, inaffidabile e screditato quanto si vuole, ma vicino ai servizi e persino ad ambienti Nato, e che, non certo per caso, anticipò quanto effettivamente avvenne, visto che dopo pochi giorni dal suo annuncio venne ucciso Salvo Lima, a maggio Falcone e a luglio Borsellino. Anche organi di stampa, come Repubblica (da non confondere con il quotidiano La Repubblica) avevano allusivamente previsto, appena qualche giorno prima del 23 maggio, un “colpo grosso, secondo una frequente tentazione nazionale”.

Lo stesso Falcone aveva previsto il suo assassinio, così come, dopo la sua fine, Borsellino previde la sua, di fine. Sapeva Falcone che la mafia voleva ucciderlo, ma capiva che a quell’obiettivo concorreva una “convergenza di interessi”, di cui fu consapevole dopo l’attentato dell’Addaura di qualche anno prima, quando accennò alla paternità di “menti raffinatissime”, e quelle di Riina e Provenzano sicuramente non lo erano e non a quelle egli faceva riferimento. Dopo la sua morte, poi, le visite nel suo studio al Ministero, la sparizione dei suoi appunti, del suo diario, solo in parte ricostruito, non furono dovute a personale mafioso, così come la soppressione delle tracce di una sua breve permanenza negli USA tra la fine di aprile ed i primi di maggio.

Nel dicembre di quell’anno, davanti alla Commissione Parlamentare Antimafia presieduta da Luciano Violante, Leonardo Messina rivelò, nei dettagli, il progetto di Cosa Nostra di non voler più fare da sostegno allo Stato, ma di volersi essa stessa farsi Stato, con l’appoggio di nuove forze politiche, imprenditoriali e criminali, italiane e straniere, nonché della Massoneria internazionale.

Un contesto internazionale interessato al cambiamento dello scenario politico italiano, l’entrata in scena di nuovi soggetti politici, come la Lega Nord prima e dopo qualche anno Forza Italia, costituiscono lo scenario sullo sfondo del quale avvenne la strage di Capaci e, poco dopo, quella di via D’Amelio. Quest’ultima, sicuramente non prevista, divenne necessaria per accelerare quel cambiamento che stentava ad affermarsi. Si procedette per sollecitazioni progressive (se così possono definirsi attentati e morte di innocenti) pur di pervenire al risultato, che maturò nei primi mesi del 1994, allorquando la progettata strage dell’Olimpico a Roma venne annullata perché non più necessaria dopo la “discesa in campo” del Cavalier Berlusconi, tessera 1812 della Loggia P2 di Licio Gelli, e del suo impero televisivo e finanziario.

Il precedente progetto separatista mafio-leghista, per il quale erano state create nel Centro Sud d’Italia circa settanta partiti di ispirazione leghista, cui avevano aderito Cosa Nostra, ‘ndrangheta, destra eversiva e massoneria piduista, si era rivelato difficilmente realizzabile. Troppo audace e troppo pericoloso consegnare il Sud nelle mani delle mafie, come auspicato dal Giancarlo Miglio, ideologo della Lega Nord. Più concreto e fattibile il progetto di Forza Italia, sostenuto dalle medesime forze, grazie ancora alla capacità di coinvolgimento della massiccia propaganda delle tv commerciali.

Paolo Borsellino aveva fatto parte del pool antimafia, composto da quattro giudici istruttori, insieme a Giovanni Falcone, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta. Quel gruppo operò dal 1983 al 1988, quando venne sciolto dal successore di Antonino Caponnetto, Antonino Meli. Anche nei suoi confronti, Cosa Nostra nutriva propositi di vendetta, ma non furono solo questi quelli che determinarono la strage di via D’Amelio a così breve distanza da quella di Capaci.

Il punto cruciale è rappresentato dal ruolo che Borsellino avrebbe potuto ricoprire alla guida della Direzione Nazionale Antimafia, nonostante egli avesse più volte manifestato di non esserne per nulla interessato, ma ancor più egli era di ostacolo allo svolgimento della prima trattativa Stato-Mafia, condotta dagli uomini del Ros, gli ufficiali Mori e Di Donno da una parte e Ciancimino dall’altra.

Non sfugga un particolare di estremo interesse. Nei giorni che seguirono l’assassinio del suo amico Giovanni, Borsellino svolse una febbrile attività di ricerca e di indagine, di cui non parlò con i colleghi, ma che dovevano averlo condotto a dei risultati, evidentemente molto importanti, tanto da indurlo a dichiarare apertamente che attendeva di essere convocato dai colleghi della Procura di Caltanissetta, che indagavano sulla strage di Capaci, per metterli al corrente di quanto aveva accertato. Nonostante fossero trascorsi quasi due mesi, nessuna convocazione avvenne, nonostante che proprio lui dovesse logicamente essere il primo a essere sentito per il rapporto fraterno che notoriamente lo legava a Giovanni e per le conoscenze che sicuramente condivideva proprio in virtù del lungo lavoro condotto in comune.

Quelle conoscenze andarono perse, ma quel ritardo stride con la rapidità con la quale il Procuratore di Caltanissetta richiese – irritualmente – la collaborazione del dottor Contrada già nel giorno successivo alla strage di via D’Amelio. Sono considerazioni contenute nella sentenza della Corte d’Assise di Caltanissetta, le cui 1856 pagine di motivazione sono state depositate il 30 giugno scorso. La Corte non esita a definire le indagini e il primo processo che ne seguì, “uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”, affermazione di inaudita gravità alla quale segue il tentativo di individuarne le finalità, condensate nelle seguenti ipotesi:
- alla copertura della presenza di fonti rimaste occulte, che viene evidenziata dalla trasmissione ai finti collaboratori di giustizia di informazioni estranee al loro patrimonio conoscitivo ed in seguito rivelatesi oggettivamente rispondenti alla realtà;
- ai collegamenti con la sottrazione dell’agenda rossa che Paolo Borsellino aveva con sé al momento dell’attentato e che conteneva una serie di appunti di fondamentale rilevanza per la ricostruzione dell’attività da lui svolta nell’ultimo periodo della sua vita, dedicato ad una serie di indagini di estrema delicatezza e alla ricerca della verità sulla strage di Capaci;
- alla eventuale finalità di occultamento della responsabilità di altri soggetti per la strage, nel quadro di una convergenza di interessi tra "Cosa Nostra" e altri centri di potere che percepivano come un pericolo l’opera del Magistrato.

In questo contesto, aggiunge la Corte, un particolare rilievo assume, la convinzione, espressa da Paolo Borsellino alla moglie Agnese Piraino proprio il giorno prima della strage di Via D’Amelio, «che non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo, (…) ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò potesse accadere», e la drammatica percezione, da parte del Magistrato, dell’esistenza di un «colloquio tra la mafia e parti infedeli dello stato». Il collaboratore Giuffrè, aveva riferito che, prima di passare all’attuazione della strategia stragista, erano stati effettuati “sondaggi” con “persone importanti” appartenenti al mondo economico e politico.

E infine, anche se gli spunti di riflessione offerti dalla lettura della sentenza sono tantissimi e ciascuno rilevante per la comprensione del fenomeno e dei ruoli avuti da cosiddetti “servitori dello Stato”, in qualche modo coinvolti nell’occultamento della verità, si sottolinea il ruolo da protagonista nella costruzione del depistaggio organizzato, ricoperto dal questore Arnaldo La Barbera, che comprende, oltre alla costruzione delle false collaborazioni con la giustizia, l’occultamento dell’agenda rossa di Paolo Borsellino, che rimase sul suo tavolo per mesi prima di sparire definitivamente, “come è evidenziato dalla sua reazione – connotata da una inaudita aggressività – nei confronti di Lucia Borsellino, impegnata in una coraggiosa opera di ricerca della verità sulla morte del padre”, annota la Corte nella motivazione della sentenza.

Di questo si vorrebbe sentir parlare nel corso delle celebrazioni e non di vuota retorica e di impegni mai mantenuti. Svuotare gli archivi segreti dello Stato occulto che nasconde la verità per coprire il tradimento consumato nei confronti dei suoi uomini migliori, questa è la promessa che attendiamo, pur sapendo che mai sarà pronunciata e mai mantenuta.