La superficialità del dibattito pubblico in Italia non smette mai di intristire. Un po’ perché, svolgendosi ormai soprattutto sui social network, è assai ‘volatile’; e un po’ perché non approfondisce mai, scivola sempre sulla superficie delle cose, delle questioni.

È così, malauguratamente, anche per quanto riguarda temi considerati generalmente di grande rilevanza, come ad esempio i beni culturali - un grande patrimonio di cui, appunto, molto si parla ma poco si approfondisce. Ed è stato così anche per l’annunciata revoca della direttiva Franceschini sull’apertura domenicale gratuita dei musei. Si è scatenata la tifoseria - d’ambo le ‘curve’... - per avversare e/o sostenere la decisione del ministro Alberto Bonisoli, senza mai entrare nel merito più di tanto, senza che emergessero dei pareri - magari anche opposti - da parte degli addetti ai lavori, e che quindi portassero il dibattito nel merito della questione. Magari favorendo così anche l’allargamento del dibattito stesso. Ma, inutile dirlo, il dibattito (la discussione, il confronto...) non si è in realtà nemmeno aperto; sparate quattro cartucce sui social, si è presto passati ad altri temi su cui ‘tifarsi’ reciprocamente contro...

Eppure il nodo della questione andava e va ben oltre una mera faccenda di marketing, o burocratico-amministrativa: attiene infatti a un’idea di museo, e del suo rapporto con la società. Per questo, sarebbe stata una buona occasione per affrontare il tema. Da questo punto di vista, va sottolineata ancora una volta la colpevole latitanza della grande stampa nazionale, il cui ruolo - nell’era dell’informazione digitale, veloce, ubiqua e soverchiante - dovrebbe essere proprio quello dell’approfondimento. Persino l’informazione ‘specializzata’, ormai quasi tutta a sua volta online, ha dedicato poco spazio al tema. Diversamente da quanto accaduto, ad esempio, con la nomina di Giorgio De Finis al Macro di Roma, che ha scatenato un lungo confronto - spesso anche astioso e pregiudiziale, laddove con tutta evidenza alla polemica ‘politica’ (essendo una nomina dell’amministrazione pentastellata) si sono aggiunti anche elementi relativi a una questione di ‘cordate’, se non proprio ‘di casta’. Ma, se non altro, nella querelle sul progetto Macro Asilo si sono quantomeno insinuati elementi di dibattito vero, sull’idea - o sulle idee... - di museo; la questione ‘domenicale’, invece, è rapidamente morta lì, complice la rilassatezza estiva.

La questione ‘in sé’ in effetti non è di grande rilevanza. È ovvio che l’idea della prima domenica del mese gratuita, in tutti i musei statali, ha i suoi pro e i suoi contro, e che attiene prevalentemente a questioni ‘tecniche’ (logistiche, economiche, ecc.), oltre che ovviamente ‘simboliche’; d’altro canto, la decisione del ministro ne revoca solo l’obbligatorietà, lasciando quindi libertà ai singoli direttori di decidere come ritengono più opportuno. È invece rilevante quale relazione si vuole stabilire tra museo e cittadinanza, e quindi quale ruolo il museo debba svolgere, ed è in questo quadro che la questione andrebbe posta: come elemento che contribuisce a costruire l’architettura di questa relazione. Senza affrontare prioritariamente questo aspetto di fondo, qualsiasi confronto sul tema specifico rischia di essere vacuo. Del resto, è esattamente questo uno dei problemi, per non dire dei drammi, del tema beni culturali. In mancanza di una visione globale, capace di ri-pensarli nel contesto contemporaneo (e tenendo quindi presenti le mutazioni culturali, sociologiche e tecnologiche intervenute), continuiamo ad affrontarne le problematiche in modo frammentato, particolare, in ultima analisi dispersivo.

Tornando ad esempio al progetto Macro Asilo, che sia detto per inciso prevede la gratuità dell’accesso tutti i giorni..., è chiaro che si ispira a un’idea di museo come luogo non di mera conservazione/esposizione, attraversato dal pubblico, ma come luogo esperienziale, di produzione e di ricerca, che si offre al pubblico (e agli artisti!) per essere ‘abitato’, vissuto. Non il museo che si ‘visita’ più o meno periodicamente, ma un contenitore d’arte che si ‘frequenta’, più o meno abitualmente. O quanto meno, è questa l’ambizione. Si vedrà se e quanto funziona. Ma, appunto, se non altro costituisce un tentativo, una sperimentazione d’una diversa relazione tra cittadini e museo.

Altre strade sono possibili, e percorribili. Sarebbe interessante, tra le tante, che si producessero approcci capaci di utilizzare le potenzialità tecnologiche in maniera meno riduttiva, scontata. Laddove invece siamo ancora a un livello di arretratezza spaventosa; quasi che il limes tra dentro (il museo) e fuori segnalasse una distanza epocale - in senso letterale. L’uso della tecnologia per i beni culturali, infatti, oscilla tra strumentazioni obsolete di mero supporto didascalico, e la spettacolarizzazione ‘sostitutiva’ dell’opera d’arte stessa.

In territori intermedi, si collocano alcune iniziative internazionali, come il progetto Rekrei, che puntano alla digitalizzazione del patrimonio culturale anche in funzione della sua preservazione (dalle distruzioni delle guerre, ad esempio). Ma che, al tempo stesso, aprono prospettive diverse, proprio sotto il profilo concettuale. Come scrive Pierre Chaumont su Digicult, un archivio digitale dei beni culturali, “essendo accessibile a chiunque abbia accesso ad un computer e ad internet, ha operato un cambiamento fondamentale, ridefinendo la nostra relazione con l’arte e la maniera in cui ne facciamo esperienza. Questo processo sta trasformando i luoghi in cui viviamo l’arte, dal momento che ogni oggetto scansionato è ora accessibile indipendentemente dalla sua posizione, dal suo valore o dalla proprietà. (...) In un certo senso traspone il museo all’interno del nostro computer”.

Sempre Chaumont, più avanti, nota: “Il valore culturale si trova nella conoscenza dell’oggetto piuttosto che nell’oggetto stesso e la sua materialità non fa che innescare il desiderio di ottenerlo. Durante il processo di trasposizione digitale ogni singolo pezzo viene spogliato del suo valore di mercato e della sua aura per lasciare in alternativa solo il suo valore storico e culturale”. [1] Questa riflessione - a mio avviso solo in parte vera - amplia ulteriormente la necessità (e il raggio) di una riflessione sul ‘senso’ dell’istituzione museale. In parte, dicevo, perché appare totalmente ‘subalterna’ a una concezione ‘digitale’ delle relazioni, e sembra ignorare del tutto il valore (e la possibilità stessa) dell’empatia tra l’osservatore e l’opera, che non può che risultare negata - o quantomeno distorta - dalla mediazione della sua (pur fedele) riproduzione digitale.

In ogni caso, è assai probabile che il processo di digitalizzazione mondiale dei beni culturali andrà assai avanti (anche se, per ovvie ragioni, sarà altrettanto probabilmente molto ‘occidentocentrico’...); ma la sua fruizione sarà prevalentemente per gli addetti ai lavori - conservatori, restauratori, ricercatori, storici e critici, curatori, artisti... Per il grande pubblico, il riferimento resta il museo, in quanto luogo deputato. Del resto, basta guardare al turismo, oggi l’unica industria globale in rapidissima ed esponenziale espansione: la possibilità di ‘vedere’ virtualmente quasi ogni luogo del mondo (dai miliardi di foto georeferenziate a Google Street View) non solo non è di ostacolo a questa espansione, ma ne è al contrario volano. Perché ciò che viene ricercata non è la ‘visione’, ma l’esperienza.

Chi segue in qualche modo quanto scrivo in materia ormai da anni, sa che sono sempre stato favorevole alla separazione tra il ministero dei Beni Culturali e quello del Turismo, anche se avrei immaginato un accorpamento di quest’ultimo al ministero dello Sviluppo Economico, e non certo all’Agricoltura (bizzarra decisione, in effetti)! Ciò nonostante, è evidente che tra i due settori esistono delle connessioni forti. E quindi, non sarebbe male fare tesoro della summenzionata semplice constatazione anche in ambito culturale.

Se compito del museo è anche - se non, oggi, principalmente - l’educazione alla bellezza, sarebbe opportuno trovare le giuste chiavi di lettura, il giusto impianto comunicativo, per svolgere al meglio questa funzione. Anche, appunto, attraverso un uso intelligente delle moderne tecnologie digitali. Utilizzate in modo tale da favorire il coinvolgimento - sensoriale, intellettuale ed emotivo; in una parola, attraverso un approccio esperenziale.

Questo è un campo assolutamente ancora in larga misura inesplorato, soprattutto in ambito istituzionale, e anche a livello internazionale. E l’Italia, con il suo straordinario patrimonio storico-artistico, ma anche con la ricchezza del suo patrimonio di competenze tecniche, scientifiche e artistiche, potrebbe agevolmente affermarsi come leader nel settore - se solo ci fosse la consapevolezza e la volontà politica (oltre che le risorse...) necessarie. Quel poco che si muove, invece, resta quasi confinato nella clandestinità di piccole nicchie d’utenti [2].

C’è un terreno sconfinato di tecnologie da utilizzare, in ambito museale, se solo si prova a immaginarne usi ‘creativi’ e non convenzionali. O persino limitandosi a questi, ma innestandoli ragionevolmente nel contesto specifico, e in relazione alle sue peculiarità. Eppure, anche la tecnologia RFID (Radio-Frequency IDentification], le cui origini risalgono agli anni ‘30 del Novecento, e il primo brevetto al 1973, non trova applicazione museale. E sarebbe proprio un uso ‘basico’, per fornire informazioni in formato digitale sui device dell’utente/visitatore, sulle opere ma anche sui percorsi, sulle ‘connessioni’ artistiche, ecc.

Non parliamo quindi di tecnologie più recenti, come VR, AR, AI, ML, IoT. Che non sono oggetti misteriosi, ma solo acronimi per la Realtà Virtuale (VR), la Realtà Aumentata (AR), l’Intelligenza Artificiale (AI), l’Apprendimento Automatico (ML), l’Internet delle Cose (IoT). Tutti strumenti che potrebbero rivelarsi preziosi per rendere l’esperienza museale più agevole, più completa, più coinvolgente; e più sicura per le opere.

Ci vorrebbe un dibattito pubblico, per ragionare su queste cose. Un dibattito pubblico, e col pubblico, per capire come ridisegnare il museo del futuro. E un dibattito pubblico, che metta a valore le competenze, per determinare come realizzare l’obiettivo. E invece, stiamo a discutere di una maledetta domenica. E solo per un giorno, che poi è già lunedì.

[1] ibidem
[2] Donato Maniello, Realtà aumentata in spazi pubblici, Le Penseur [www.amazon.it]