Dal 10 al 14 settembre si è tenuto presso il Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche dell’Università degli Studi di Milano il corso annuale della Summer School on Organized Crime 2018, sul tema Mafia e informazione. L’argomento è quanto mai interessante e mi ha indotto ad inserirmi nel dibattito, dalle colonne di questa rivista, per farne oggetto del mio articolo mensile. Non pretendo neppure lontanamente di competere con il livello di approfondimento scientifico assicurato dall’elenco dei relatori di quel corso, ma ritengo che, tra le tante declinazioni nelle quali il tema può essere oggetto di analisi, possa esserci qualcuna sulla quale meno impegnata appare l’attenzione degli osservatori.

Sul rapporto informazione-mafia certamente non può ignorarsi il contributo dei giornalisti vittime di mafia, tra i quali il ricordo va a Giuseppe Impastato, Giovanni Spampinato, Giancarlo Siani, Giuseppe Fava, Mario Francese, Mauro De Mauro, Beppe Alfano, oltre a coloro che hanno subito e subiscono tuttora intimidazioni e minacce, a ragione del loro impegno in varie regioni d’Italia nella denuncia di fenomeni vecchi e nuovi di criminalità mafiosa.

Così come non va dimenticato, per motivi del tutto opposti, il ruolo corrivo, servile, degli organi di stampa, che già nell’Ottocento e sino ad oggi, hanno assicurato sulla presenza delle mafie un contributo elevatissimo alle tesi negazioniste, riduttive, giustificazioniste, ammantate di ipergarantismo e di delegittimazione della magistratura e delle forze politiche e sociali (si pensi ai sindacalisti uccisi in Sicilia, come Placido Rizzotto), quando ne avevano tentato di il contrasto.

È una costante storica quella di chi, nel momento in cui qualcuno, isolato, denuncia il pericolo della presenza di organizzazioni mafiose, viene aggredito con campagne di stampa, vere e proprie macchine del fango, che lo accusano di avere in tal modo “criminalizzato” una città, una regione, un settore di attività, difendendone l’integrità, la assoluta impermeabilità a fenomeni di tipo mafioso, anche contro ogni evidenza. Avveniva nella Palermo degli anni ’50, a Reggio Calabria negli anni ’80 e ’90, e chi scrive ne fu vittima proprio quando la città era sconvolta da una guerra di mafia tra due schieramenti contrapposti, che tra il 1985 e il 1991, lasciò sul terreno circa settecento morti ammazzati, quasi che quei decessi fossero da attribuire ad una epidemia di intossicazione da piombo...

Quando poi, nel 1992 affermai che non era più Reggio Calabria la capitale della ‘ndrangheta, bensì Milano con la cerchia dei Comuni di Corsico, Buccinasco e Trezzano sul Naviglio, poco mancò che non venissi considerato fuori di testa, nonostante che in quegli anni, la DDA di Milano avesse proceduto, anche grazie all’apporto di vari collaboratori di giustizia, ad arrestare circa 2.500 appartenenti ad organizzazioni mafiose (in grande prevalenza appartenenti alla ‘ndrangheta). Quel filone investigativo non ebbe seguito immediato e solo nel 2008 la Commissione Parlamentare Antimafia (Relazione Forgione), e dopo qualche anno la Direzione Distrettuale Antimafia di Milano, accertarono che la ‘ndrangheta non si era occupata solo di droga e sanguinose guerre intestine, ma aveva creato in Lombardia una rete di circa cinquanta “locali” (le strutture territoriali di base, ad imitazione dei moduli organizzativi dei paesi di origine) ed aveva letteralmente occupato vitali settori dell’economia come edilizia, commercio, ristorazione, immobiliare. Il fenomeno era così invasivo da far dire al giudice delle indagini preliminari di Milano, Giuseppe Gennari, che si era in presenza di un vero e proprio “sistema ‘ndrangheta”. Così è avvenuto per la ‘ndrangheta in Piemonte, in Liguria, Emilia Romagna, nonostante che magistrati e storici come Enzo Ciconte ne avessero offerto prove evidenti sin dagli anni ’80; avviene ancora in questi mesi per la presenza di organizzazioni mafiose a Roma città e nel Municipio di Ostia, nel Foggiano e in varie altre parti del Paese.

Ignoranza, ingenuità, certamente. Nando dalla Chiesa, nel suo libro del 2010 La convergenza, precisamente nel primo capitolo, si diffonde sull’importanza del cretino, che “farà spontaneamente ciò di cui la mafia ha bisogno. Di più, lo farà gratis. E se ci sarà da omettere, ometterà” e “se bisognerà non capire, lui non capirà”. Dalla Chiesa cita ancora una celebre frase di De Gaulle: “Sconfiggere i cretini? Vasto programma riformatore”. E poi c’è il dolo, la convergenza di interessi politici, voto di scambio innanzi tutto, la nascita dell’impresa a partecipazione mafiosa, la trattativa ininterrotta, l’abdicazione.

Ed è proprio di questo che si dovrebbe parlare. E invece se ne parla poco e male. Non tanto da parte della saggistica (che da circa vent’anni ha colmato il lungo vuoto colpevolmente lasciato dagli storici) e costituisce nel nostro Paese una fonte di contro-informazione di altissimo livello e impegno, quanto da parte degli operatori istituzionali chiamati, prima, ancora di intervenire, a capire, analizzare il fenomeno mafioso in tutte le sue declinazioni, la sua evoluzione, le sue trasformazioni quando queste si sono rese necessarie, ma soprattutto i suoi collegamenti occulti. Sono in particolare questi ultimi che ne hanno consentito prima la nascita, poi la diffusione, quindi lo sviluppo, sino a costituire ai nostri giorni, una lobby criminale potentissima, dalle risorse finanziarie illimitate, dal potere di condizionamento politico, economico e istituzionale, di cui nessun’altra organizzazione criminale al mondo dispone.

La vulgata comune, che trova la sua fonte nelle dichiarazioni di uomini di governo, alti esponenti istituzionali, compresi i vertici della magistratura, al contrario, ha sempre presentato le mafie come fenomeno emergenziale (un’accusatio non petita del ritardo e della insufficienza dell’azione di contrasto), quindi come patologia, cancro e termini consimili, da combattere come una malefica intrusione nel corpo sano della società e dello Stato, un antistato, nel contesto di una lotta bipolare dei buoni contro i cattivi, con le sue vittime, i suoi eroi, le sue battaglie, peraltro prossime a concludersi con la vittoria finale. Versione falsa, fuorviante, smentita dalla storia. Eppure a sentire le dichiarazioni di molti magistrati delle Procure italiane, da quelle di più alto livello alle più modeste, capita sovente di ascoltare, a commento dell’ultima “brillante” operazione giudiziaria, che era stato “sbaragliato/a” un traffico internazionale di droga o una cosca mafiosa sul territorio, che si era “assestato un colpo mortale” alle cosche e/o ai trafficanti.

Si dirà che si tratta di enfatizzazioni dovute a comprensibile orgoglio professionale. Legittimo, certo, purché contenuto entro limiti ben precisi e se non motivato dall’autopromozione a fini di carriera o di incarichi politici (non quelli parlamentari, ma quelli ministeriali, che in questi ultimi anni vanno molto di moda). Salvo poi aggiungere che quella appena sgominata è una potentissima associazione mafiosa che controlla territori e nazioni, ricicla ingenti proventi del traffico di droga, si estende sino a coinvolgere avvocati, commercialisti, banchieri, senza esclusione dei poteri occulti di tipo massonico. Tutto vero, se non fosse che a fronte del tono eclatante della denuncia, i risultati in termini investigativi e giudiziari risultano rari ed evanescenti proprio nei riguardi degli ancora largamente ignoti esponenti della borghesia mafiosa.

La tesi che la vittoria sulle mafie sia prossima trae origine da un concetto espresso da Giovanni Falcone, quando affermava che “La mafia non è affatto invincibile. È un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio, e avrà anche una fine”. Affermazione ovvia nella sua semplicità, non essendosi mai ipotizzato che la mafia sia un fenomeno soprannaturale e come tale eterno, ma che si carica di significato leggendone il seguito: “Piuttosto bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave e che si può vincere non pretendendo eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni." Il concetto espresso dal caro e compianto collega era che se non mutano i rapporti di forze dello scontro ed anzi permangono le condizioni che ne hanno determinato la durata (siamo al secondo secolo di vita, almeno quella storicamente documentata), l’evoluzione e la crescita, dovremo ancora attendere a lungo prima di potere cantare vittoria…

Due apprezzati studiosi di Cosa Nostra, lo storico Salvatore Lupo e il giurista Giovanni Fiandaca, nel libro La mafia non ha vinto, scritto nell’ambito di una serrata polemica sul processo avviato dalla Procura di Palermo sulla trattativa Stato-mafia (edito – è bene precisare – nel 2014), processo definito in primo grado con sentenza della Corte d’Assise di Palermo del 20 aprile 2018 e della quale sono state recentemente depositate le motivazioni, composte da ben 5252 pagine. I due autori sostengono, che, contrariamente a quanto il processo in questione potrebbe far pensare, la mafia non ha vinto e Cosa Nostra non è stata salvata.

L’argomento merita una riflessione più accurata e formerà oggetto di uno dei prossimi articoli, per adesso se ne fa menzione solo per concordare con gli autori sulla sconfitta di Cosa Nostra di Totò Riina e Luca Bagarella e della loro strategia stragista, e nello stesso tempo affermare che in Sicilia, come in Calabria, a quella mafia fortemente connotata dall’uso spregiudicato di violenza e intimidazione, ha fatto seguito una nuova mafia, che, dal 1994 in poi, ha abbandonato ogni proposito di lotta armata contro lo Stato, i suoi rappresentanti istituzionali e politici, ha chiuso con le sanguinose lotte intestine che hanno caratterizzato Cosa Nostra, ‘ndrangheta e camorra nel corso degli anni ’80, e vive oggi una nuova fase della sua lunga esistenza, caratterizzata dalla cooptazione nel sistema economico, finanziario e imprenditoriale italiano e non solo, da un più intenso ma meno visibile rapporto con il potere politico sia a livello locale che nazionale, da vaste attività di riciclaggio degli enormi proventi assicurati dall’ingresso (in particolare da parte della ‘ndrangheta) nel traffico internazionale della cocaina dai paesi produttori all’Europa.

Se questa analisi è corretta, è difficile concordare che si sia in presenza di una mafia sconfitta, ridimensionata, o almeno in difficoltà. Il punto è che tale sensazione si alimenta per il semplice motivo che non se ne parla più e quando se ne parla lo si fa in termini che fanno riferimento a situazioni pregresse e superate e non si tiene conto delle profonde, radicali, trasformazioni che ne hanno mutato il volto, tenuto ancora in vita solo dalle fiction televisive. E qui vale la pena rammentare che, contrariamente alle apparenze, quando la mafia entra in guerra (interna o esterna poco cambia) è sempre un segnale di difficoltà, oltre che provocare una “fuoriuscita di elementi probatori” circa gli organigrammi dei rispettivi schieramenti, delle disponibilità di armi, dei covi usati ed altro ancora. Al contrario, la pax mafiosa è quella che assicura invisibilità, svolgimento riservato di affari, contatti, alleanze, conquista di spazi e settori di attività, attività di riciclaggio e di reimpiego dei proventi da reato.

Pensare quindi, in questo momento di trionfo della pax mafiosa iniziata nel 1994 e da allora ininterrotta, risultato conseguito dalla trattativa, di combattere con armi spuntate, è un’offesa all’esigenza di verità che grava sugli intellettuali in genere e sui professionisti del contrasto antimafia. Proporre aggiustamenti al codice penale con innalzamento delle pene, o, peggio, al codice di procedura penale, non solo equivale a volere svuotare il mare con un secchiello, ma ad ingannare l’opinione pubblica e impedirle di valutare la gravità del pericolo che le mafie apportano al nostro paese, alla sua economia, al suo sviluppo, alla sua credibilità, alle regole della democrazia e della costituzione.

Quanto poi alla “guerra” ai traffici di droga, bisognerebbe ammettere pubblicamente, con onestà intellettuale, che il proibizionismo è fallito, come unanimemente riconosciuto a livello globale, ma che anche coloro che ne sono strenui sostenitori, di fatto hanno abbandonato il campo, rendendosi conto della inutilità degli sforzi. Gli stessi investigatori, anche quelli professionalmente più qualificati, devono riconoscere (non pubblicamente…) che la diffusione della cocaina nel nostro paese è incontrollabile, che il suo consumo è diffusissimo, che il suo reperimento è facile e impunito, che le quantità sequestrate sono irrisorie.

È di comune percezione che le maxi-operazioni antidroga, frequenti nel primo decennio di questo secolo, non si sono ripetute ormai da anni e che le difficoltà di trovare collaborazioni investigative, soprattutto all’estero, sono sempre maggiori. Ridurre la lotta alla droga all’individuazione di pusher di quartiere è il segno della resa, nonostante che in determinati ambienti politici sia estremamente diffuso il tabù del proibizionismo senza se e senza ma, persino nei confronti della canapa a produzione controllata, con basso indice di principio attivo. Evidentemente “le rendite della proibizione” sono ancora elevatissime a livello politico, istituzionale e culturale e si alimentano con false rassicurazioni, e false promesse piuttosto che affrontare la realtà così come essa meriterebbe.

È agevole in tale contesto, di falsità attive costruite su falsità per omissione, indicare nei migranti (beninteso di colore) il nemico che mette in pericolo la nostra identità, posti di lavoro e sicurezza nazionale, mentre le mafie proseguono indisturbate il loro lavoro sporco all’ombra di solide coperture politiche e dell’indifferenza di un’opinione pubblica, preda dei falsi messaggi di abili imbonitori al potere.

Mafia e informazione? Tra le tante declinazioni nelle quali il tema può essere oggetto di analisi, è su queste dimensioni dei pericoli per il continente europeo, in primis per il nostro paese, che si vorrebbe che sia puntato l’attenzione degli osservatori. E invece l’argomento è del tutto scomparso dall’agenda politica. Tranne che nelle cerimonie ufficiali, con rituali espressioni di sdegno, gonfie di retorica, quanto vuote di contenuti.