Con un intervento pronunciato il 25 settembre il presidente della Corte Costituzionale Sergio Lattanzi segnalava il pericolo che “Alcune idee che prima si vergognavano di comparire, oggi invece circolano in Europa” e aggiungeva subito dopo “In Europa e non solo c'è un clima politico e culturale che è cambiato. Ci sono orientamenti politici che, senza entrare nel merito, mi pare contrastino con il significato della Costituzione”.

Il riferimento ad un contesto sovranazionale fa intendere che alludesse ad un fenomeno riguardante non solo il nostro paese, ma altri paesi europei, e forse anche la Turchia di Erdogan. Non intendo attribuire all’illustre giurista che guida la Consulta alcun riferimento al tema di questo articolo, nel quale provo a riferire quale sia, a mio personale avviso, il principale, anche se non unico, terreno di contrasto alla Costituzione del nostro paese e più in generale al modello costituzionale di uno stato di diritto di tipo liberale. Si tratta della giustizia, del ruolo che essa deve necessariamente avere nei paesi di civiltà occidentale. Tutte le Costituzioni, compresa quella russa del 1993, si fondano sulla divisione dei poteri, reciprocamente indipendenti e autonomi dagli altri, con organi di garanzia che ne assicurano l’effettività. Altra cosa però quanto questi principi vengano rispettati e quanto, invece, i regimi autoritari provino a neutralizzarli nella pratica di governo.

È del 24 settembre la notizia che la Commissione Europea ha deciso di portare la Polonia, stato membro dell’UE, di fronte alla Corte di Giustizia con sede a Lussemburgo per “le gravi violazioni del principio di indipendenza giudiziaria” in atto nel Paese. In particolare si chiede la sospensione della legge che obbliga “al pensionamento anticipato” dei giudici della Corte suprema per far sì che vengano sostituiti da colleghi eletti dal Parlamento – e fedeli al governo – la cui “continua applicazione” è troppo “grave e irreparabile” e costituisce la ragione per la quale l’esecutivo Ue “chiederà alla Corte di prendere misure”. L’esecutivo comunitario chiederà alla Corte di “sospendere il regime di prepensionamento”, per far sì che i “giudici vittima della nuova legge continuino a esercitare completamente le loro funzioni” che il governo polacco “smetta di nominare giudici al posto di quelli già ritirati”, compresa la “nomina di un nuovo primo presidente della Corte suprema” al posto di quello mandato in pensione.

L’avvio della procedura giudiziaria segue la decisione dell’UE di avviare nei confronti del governo polacco la procedura di infrazione prevista dall’art. 7 del Trattato sull’Unione per le “minacce sistematiche allo Stato di diritto in atto nel Paese”, attuate mediante il prepensionamento obbligato dei giudici e altre manovre volte ad attaccare il sistema giudiziario.

Non è la prima volta che le autocrazie illiberali del Visegrad hanno fatto ricorso allo strumento del prepensionamento coatto dei giudici per liberarsi dei vertici della magistratura, in quanto ostacolo al controllo del governo sull’amministrazione giudiziaria. Già nel 2012 la Corte di Giustizia di Lussemburgo aveva pronunciato sentenza di condanna dello Stato ungherese (governo Orban) per avere introdotto una legge che imponeva la cessazione dell’attività professionale di giudici, procuratori e notai che avessero compiuto 62 anni di età. La sentenza riconosceva che la normativa adottata dall’Ungheria, impugnata dalla Commissione Europea, violava la direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000.

In Turchia il processo di rinnovamento è stato più drastico. Il presidente, che con la riforma costituzionale del 2017, accorpa oggi i ruoli di presidente della repubblica e di quello del governo, nomina ben dodici su quindici giudici della Corte Costituzionale e parte dell’organo disciplinare sui magistrati. Per sfoltire i ruoli ha utilizzato i poteri dello stato d’emergenza, proclamato a seguito del tentativo di colpo di stato del 2016, per espellere più di 100 mila tra magistrati, funzionari, militari, insegnati e giornalisti, di cui 50 mila detenuti.

In Italia, la polemica che si scatenò nel ventennio a cavallo di fine millennio, nei confronti dei magistrati, requirenti e giudicanti, che in qualche modo intervenivano nei confronti del presidente del consiglio Berlusconi, per lo più nel settore penale, definiti per ciò solo “toghe rosse”, nascondeva in realtà l’insofferenza per il controllo giudiziario e più in generale per la separazione dei poteri. Furono raggiunti livelli di scontro del tutto inconsueti, allorché il premier definì i magistrati delle procure come “antropologicamente diversi”, come tali bisognosi di controlli psichiatrici.

Il 28 novembre del 2002, al fine di consacrare ufficialmente e visibilmente il primato della politica sulla magistratura, il ministro della giustizia, l’ing. Roberto Castelli emanò una direttiva che imponeva di applicare in tutte le aule di giustizia, una nuova targa con la scritta “la giustizia è amministrata in nome del popolo”, accanto a quella tradizionale “la legge è eguale per tutti”. La nuova targa riproduceva il primo comma dell’art. 101 della Costituzione, e, secondo l’intenzione del ministro, doveva servire di monito ai giudici sul dovere di tenere conto, nell’attività di interpretazione della legge della volontà popolare (cosa ben diversa dalla sovranità popolare), rappresentata dalla maggioranza parlamentare e di governo.

La targa ometteva però di riprodurre il secondo comma, che recita “i giudici sono soggetti soltanto alla legge”, che sancisce l’autonomia e l’indipendenza dell’ordine giudiziario rispetto ad ogni altro potere (art, 104, comma primo). Autonomia e indipendenza assicurata anche ai magistrati del pubblico ministero, anch’essi soggetti soltanto alla legge costituzionale che prevede, all’art. 112, l’obbligatorietà dell’azione penale, a garanzia del principio di eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, eliminando ogni margine di discrezionalità, di opportunità, di interferenza. Ad accrescere il significato in qualche modo intimidatorio, l’apposizione delle targhe (rimosse nel 2006 su disposizione del nuovo ministro della Giustizia, Mastella, espressione di diversa maggioranza politica) avvenne pochi giorni prima dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, in modo da assicurare il massimo di visibilità.

La politica governativa nei confronti dei problemi della magistratura e della giustizia in generale, non doveva subire significativi cambiamenti con i governi a guida PD. Sia pure in un quadro politico del tutto diverso da quello di Polonia e Ungheria, il governo Renzi, a qualche mese dal suo insediamento, adottò una misura analoga, quando emanò un decreto legge (n.90 del 24 giugno 2014), con il quale, all’art. 1, stabiliva disposizioni per il ricambio generale nelle pubbliche amministrazioni (alias: rottamazione), che anticipava il pensionamento dei magistrati da 75 a 70 anni entro il 31 ottobre. In sede di conversione il Parlamento stabilì una prima proroga al 31 dicembre del 2015, per attenuare l’impatto della riforma che avrebbe comportato il prepensionamento di circa mille magistrati con conseguenze devastanti sul funzionamento della giustizia.

Quale fosse in realtà il disegno riformatore del nuovo governo non è dato sapere, potendosi scegliere tra il disfunzionamento della giustizia, che sarebbe passato da grave a disastroso, ulteriore rallentamento della durata dei processi di cui nessuno avvertiva la necessità, la sostituzione di capi degli uffici giudiziari di grande esperienza e professionalità con altri più giovani e più inesperti; l’aggravio dei bilanci dell’INPS, la creazione di gravi vuoti di un organico già ridotto, da coprire in tempi stretti. E quando la categoria osò protestare, il presidente del consiglio, nel clima di dialogo costruttivo che ne contraddistingueva l’operato, rispose con l’espressione “Brrr… che paura”.

Con l’attuale governo nazionalsovranista l’argomento della giustizia, dopo una prima ingannevole fase di tregua, ha costituito frequente terreno di attacchi alla magistratura ed al CSM. Il ministro dell’Interno ne è l’interprete principale. In occasione delle disavventure finanziarie della Lega, aveva animatamente protestato, accusando di politicizzazione persino i consiglieri della Corte di Cassazione che avevano confermato la confisca disposta dalla Procura di Savona dei 49 milioni dovuti a seguito della condanna di Bossi e Belsito, rispettivamente ex-segretario e ex-tesoriere della Lega, già condannati in primo grado per truffa aggravata, ma ha poi ripiegato su una rateizzazione del pagamento a lunghissimo termine, così finendo con il riconoscere la legittimità della decisione dei giudici.

In occasione della notifica da parte della Procura di Palermo dell’apertura del procedimento a suo carico davanti al Tribunale dei Ministri per sequestro di persona e altro ha dichiarato: "Siamo davanti alla certificazione che un organo dello Stato indaga su un altro organo dello Stato. Con la piccolissima differenza - ha sottolineato il leader leghista - che io pieno di limiti e difetti, sono stato eletto dai cittadini; altri non sono stati eletti da nessuno e non rispondono a nessuno". Piccolo particolare: l’articolo 92 della Costituzione dice che i ministri vengono nominati dal presidente della Repubblica su proposta del presidente del Consiglio e non dal popolo e che l’indipendenza e l’autonomia della magistratura è assicurata dalla Costituzione quando afferma che i giudici sono nominati per concorso e non per elezione del popolo.

Alle roboanti dichiarazioni del “Capitano” si accodava il deputato leghista Giuseppe Bellachioma, che il 23 agosto “postava” la minaccia, diretta ai magistrati siciliani “se toccate il Capitano vi veniamo a prendere sotto casa. Occhio!!!” Linguaggio usato da un parlamentare, ma più da squadrismo fascista o da intimidazione mafiosa. Del tutto inaudite poi le proteste elevate dal Ministro della Giustizia che inveisce contro i componenti del CSM (organo di rilievo costituzionale con funzione di autogoverno della Magistratura), solo perché hanno eletto un vicepresidente diverso da… quello che desiderava lui, cui seguono, secondo la regola aurea che della par condicio intimidatoria, le parole di Salvini che annuncia minaccioso una riforma della giustizia in tempi brevi.

Si potrebbe replicare che, in fondo, si tratta solo di parole, pronunciate per incontenibile necessità di una perpetua campagna elettorale, di cui le (poche) misure sinora adottate, rispetto a quelle promesse, rappresentano una componente trascurabile dell’azione di governo, che vive su un ininterrotto flusso comunicativo diretto a trasmettere l’impressione che ciò che si annuncia si farà. Ed invece, scrive il giudice Giuseppe Battarino in suo articolo apparso sulla rivista Questione Giustizia, non si deve abdicare “alla vigilanza che ciascun cittadino deve esercitare di fronte alle «impercettibili transizioni», perché ogni concessione accettata dal popolo è di per sé insignificante: prese insieme portano all’orrore.

Ogni regime autoritario, o aspirante tale, entra inevitabilmente in conflitto con il diritto, non potendo ammettere che l’esercizio del potere possa trovare limiti di sorta nella giurisdizione; ne consegue il tentativo di compressione del principio della separazione dei poteri e di autonomia e indipendenza della Magistratura. Ne abbiamo già riferito alcuni esempi, per non citare quelli del nazionalsocialismo e del fascismo. L’invocazione al popolo sovrano, ora fatta propria persino da un giurista come il presidente del Consiglio, è fondata sul fraudolento richiamo alla art. 1 della Costituzione, “la sovranità appartiene al popolo”, omettendo di leggerne il seguito “che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Quelle riforme e quei limiti, per quanto riguarda la giustizia, sono gli articoli della Costituzione che vanno dal 101 al 113. Aggiungo che il rispetto di quelle norme nel contrasto a mafie e terrorismo è costato alla magistratura un tributo di sangue che nessun altro paese dell’Europa occidentale ha dovuto versare e solo per questo essa meriterebbe ben altro rispetto del suo ruolo di garante della legalità nei confronti di chiunque la metta in discussione, chiunque egli sia.

Nella iconografia classica la Giustizia è rappresentata come una dea che con la mano destra impugna la spada e con la sinistra sorregge la bilancia, ma i suoi occhi sono bendati. La spada rappresenta la forza della legge nei confronti di chi la trasgredisce, la bilancia rappresenta l’imparzialità e l’equilibrio che la deve caratterizzare, la benda è il simbolo più importante e nel contempo inquietante. La giustizia deve essere cieca perché “non deve guardare in faccia nessuno”. “Tutti sono uguali davanti alla legge” è la moderna traduzione costituzionale di quel simbolo, che i nostri insofferenti governanti dovrebbero porre a fondamento del loro operato. Questo richiamo appare oggi attuale e necessario. La Giustizia deve rimanere insensibile rispetto ai poteri esterni, compreso quello politico, anzi soprattutto rispetto a quello politico. Lo ha ricordato il Presidente della Repubblica Mattarella quando, il 12 settembre, nel centenario della nascita di Oscar Luigi Scalfaro, ha solennemente affermato “nel nostro ordinamento non esistono giudici elettivi: i giudici traggono la loro legittimazione dalla Costituzione. Nessuno è al di sopra della legge, neppure gli esponenti politici. Il rispetto delle regole è rispetto della democrazia”.

Per la chiusura di questo articolo ci siamo rivolti a Nicolò Machiavelli, che in una allocuzione, scritta nel 1520 e rivolta ad un magistrato appena assunto, ricorda l’importanza fondamentale della dea Giustizia “Questa genera negli stati e ne' regni l'unione, potenza e mantenimento di quelli; questa difende i poveri e gl' impotenti, reprime i ricchi e i potenti, umilia i superbi e gli audaci, frena i rapaci e gli avari, gastiga gli insolenti e i violenti disperge”. Conclude con un inatteso richiamo alla dea bendata con le parole: “Dovete pertanto, prestantissimi cittadini, e voi altri che siete preposti a giudicare, chiudervi gli occhi, turarvi gli orecchi, legarvi le mani, quando voi abbiate a veder nel giudizio amici o parenti, o a sentir preghi o persuasioni non ragionevoli; o a ricever cosa alcuna che vi corrompa l'animo, e vi devii dalle rie e giuste operazioni. Che se farete, quando la Giustizia non ci sia, tornerà ad abitare in questa città; quando la ci sia, ci starà volentieri, nò le verrà voglia di tornarsene in cielo; e così insieme con lei farete questa città e questo stato glorioso e perpetuo; e però a questo io vi conforto, e per il debito dell'uffizio nostro ve lo protesto: e voi Ser ne sarete rogato”.

Un nobile ammonimento che viene da lontano, ma attuale e imprescindibile nell’attuale difficile momento storico.