Marco Tullio Cicerone (106 - 43 a. C.), celebre oratore e avvocato protagonista della vita politica e culturale dell’antica Roma nell’ultimo periodo della Res publica precedente l’instaurazione del Principato di Augusto (27 a. C.), aveva un grande interesse per gli investimenti immobiliari che riuscì a realizzare nel corso del tempo in misura via via crescente tramite l’acquisto e la ristrutturazione di diverse dimore sia urbane che campestri, residenze dove amava ritirarsi e rigenerarsi lontano dai rumori del Foro e dai continui impegni sociali dell’Urbe.

Secondo gli ultimi studi, Cicerone possedeva nell’ultima fase della sua vita diverse “ville” (almeno sette/otto abitazioni padronali) ed altre proprietà immobiliari: a Roma, oltre al palazzo sul Palatino, c’era la casa di famiglia nel quartiere borghese di Carinae, ereditata dal padre e successivamente trasferita al fratello Quinto; altre proprietà nel quartiere dell’Argileto e sull’Aventino venivano concesse in locazione ricavandone proventi per circa 80 mila sesterzi all’anno. Fuori dall’Urbe, oltre alla casa degli avi ad Arpino (paese di origine, in provincia dell’attuale Frosinone), Cicerone disponeva di due piccole fattorie nelle vicinanze di Napoli e di Pompei, e acquistò nel tempo un certo numero di unità immobiliari definite “diversoria”, piccoli locali che i Romani ricchi utilizzavano come alloggi privati durante le soste di viaggio lungo le strade principali in assenza di alberghi confortevoli.

L’Arpinate chiamava la sua collezione di ville “le gemme d’Italia”, alcune delle quali erano case di campagna di gran lusso: la villa di Formia, ridente località marina sul confine campano a circa ottanta chilometri a nord di Pompei; la villa di Astura, piccola penisola boscosa sulla costa, presso Anzio; ma soprattutto la villa che negli scritti ciceroniani viene più volte citata come fiore all’occhiello: la residenza di Tusculum, ubicata sui Colli Albani a sud-est della città di Roma, nell’area dei Castelli Romani ricompresa tra gli odierni territori di Frascati, Grottaferrata, Monte Porzio Catone e Monte Compatri. Questa villa era e rimase sempre la dimora preferita, come risulta dalle confessioni epistolari indirizzate all’amico Tito Pomponio Attico (110 - 32 a. C.) al quale scriveva: “adoro il mio ritiro di Tusculum, tanto che mi sento felice solo quando vado là” (Lettere ad Attico, 2, I, 6). E ancora, nel parlare della residenza di Astura, che aveva acquistato negli ultimi anni della sua vita, egli evidenziava all’amico Attico: “questo posto, lasciatelo dire, è incantevole e isolato e, se viene voglia di scrivere, è lontano da occhi indiscreti. Eppure, per una ragione o per l’altra, non c’è niente di meglio di casa propria; ecco perché i miei piedi mi riporteranno presto a Tusculum” (Lettere ad Attico, 392, XV, 16).

Risale probabilmente al 68 a. C. l’acquisto della villa di Tusculum, ubicata in una zona in cui abbondava la presenza di residenze dei Romani altolocati, anche perché la vicinanza con l’Urbe permetteva di fruire del soggiorno senza perdere del tutto i contatti con la vita politica della Capitale. La villa tuscolana, già appartenuta in passato ad altri personaggi illustri, quali il letterato Lutazio Catuto (150 – 87 a. C.) e il dittatore Silla (138 - 78 a. C.), venne da Cicerone sottoposta a ristrutturazione in base al gusto, abbastanza diffuso tra i Romani dell’epoca, di ricreare attorno a sé l’atmosfera culturale della “grecità” per rifugiarvisi nelle pause di “otium”: “solo in quel luogo riesco a trovare requie da tutti i fastidi e le fatiche” (Lettere ad Attico, I, 5, 7). Cicerone investì copioso denaro per le decorazioni e le sculture destinate ad abbellire questa dimora e si rivolse spesso al paziente amico Attico affinché ricercasse in Grecia ogni oggetto d’arte adatto alla sua villa, secondo la moda dell’epoca che prediligeva i capolavori dell’arte greca, fossero essi semplici riproduzioni o i ben più costosi originali.

L’edificio e i giardini della villa tuscolana riproducevano, in scala ridotta, gli ambienti pubblici della Grecia: due peristili, porticati che circondavano le aree alberate, erano collocati su terrazze a due diversi livelli; Cicerone li chiamava “Ginnasi” e aveva assegnato loro i nomi di “Liceo” e “Accademia”, che richiamavano la tradizione delle scuole filosofiche di Atene. Al Liceo era annessa una biblioteca che disponeva di posti a sedere, forse in sale aperte che consentivano di godere del panorama. Alcune tra le prime lettere ad Attico, risalenti al 68 a. C. e agli anni immediatamente successivi, testimoniano l’insistenza con la quale Cicerone sollecitava all’amico la ricerca sul mercato ateniese non solo dei libri per la biblioteca ma anche di statue e altre opere d’arte adatte a decorare i diversi ambienti della villa: egli era attratto soprattutto dai simboli della tradizione intellettuale dell’Ellade, quali le erme di Eracle, altre di filosofi e poeti, e in particolare un’erma di Atena, dea della Sapienza, della quale, una volta ricevuta e collocata al suo posto, andava particolarmente fiero.

Gli studiosi si sono spesso interrogati sulle fonti di reddito dalle quali Cicerone ritraeva i mezzi per il sostenimento e la gestione dei suoi frequenti e dispendiosi investimenti immobiliari, tenuto conto delle sue modeste origini provinciali e della presenza all’epoca di un’interdizione legale che vietava agli avvocati la percezione di compensi a fronte della libera professione esercitata nel Foro. In effetti, anche se Cicerone aveva ereditato terreni e altre proprietà fondiarie dal padre e aveva beneficiato della sostanziosa dote della moglie Terenzia, in qualità di senatore non gli era consentito di praticare il commercio e di prestare a interesse, e non sembra che egli lo abbia mai fatto, nonostante molti suoi colleghi si ingegnassero per eludere o violare la legge vigente in materia; inoltre, in qualità di pubblico ufficiale, nello svolgimento degli incarichi politici e amministrativi assunti durante il cursus honorum, non sembra che egli abbia mai ceduto a episodi di corruzione, condannati d’altra parte più volte nelle sue orazioni, in particolare nelle famose “Verrine” pronunciate contro Gaio Verre (120 - 43 a. C.) in relazione alla mala gestio da questi perpetrata durante il governatorato della Sicilia dal 73 al 71 a. C.

La Lex Cincia de donis et muneribus, plebiscito votato su proposta del tribuno Marco Cincio Alimento nel 204 a. C., avente ad oggetto la limitazione delle donazioni tra vivi, era ancora vigente all’epoca di Cicerone e prevedeva che il patrocinio legale e giudiziario fosse gratuito. Nonostante i vincoli normativi impedissero l’incasso diretto della “parcella”, a distanza di centocinquanta anni dalla promulgazione della legge era diventata ormai prassi corrente, e accettata dall’opinione comune, farsi pagare le prestazioni forensi, purché la forma di regolamento non fosse diretta e specifica: l’avvocato romano si poteva rivalere, pertanto, non disdegnando i “doni” elargiti dai clienti in segno di gratitudine per la felice conclusione della causa processuale, consistenti soprattutto in lasciti testamentari e/o in prestiti che per tacito accordo non venivano rimborsati.

Cicerone stesso accenna a queste forme alternative di pagamento delle prestazioni professionali: facendo un bilancio alla fine della sua carriera, egli stimava di avere accumulato in lasciti ed eredità una somma ingentissima pari a circa 20 milioni di sesterzi; inoltre, nell’epistolario comunica ad Attico di avere acquistato la villa di Crasso (112 - 53 a. C.) sul Palatino al cospicuo prezzo di 3,5 milioni di sesterzi e confida all’amico che tale acquisto era stato reso possibile da un “prestito” di 2 milioni di sesterzi concesso dal Publio Silla, un nipote dell’omonimo dittatore, difeso con successo in tribunale dall’accusa di avere partecipato al fallito “golpe” noto come “congiura di Catilina”.

La dimora del Palatino, acquistata verso la fine del 62 a. C., era una delle ville più sontuose ed era ubicata nel più sfarzoso quartiere della città, sulla prominenza nord-orientale del colle da cui si godeva una splendida vista sull’Urbe, in posizione ideale, a pochi minuti di cammino o di lettiga dal Foro percorrendo l’antica strada nota come “clivo della Vittoria”. La residenza era una delle poche in città ad avere un giardino abbastanza esteso, con una bella passeggiata alberata di pioppi ed uno spazio per l’attività fisica (palestra) che, secondo il costume greco, era anche usato per i dibattiti filosofici. Cicerone, pur essendo soddisfatto per l’acquisto dell’ex dimora di Crasso, che gli conferiva grande prestigio, si rendeva conto al tempo stesso di essersi indebitato pesantemente e confessava all’amico Attico che, se glielo avessero proposto, sarebbe entrato in una congiura, se questa fosse stata utile a liberarlo dal gravoso peso dei debiti: battuta di spirito questa tra le più ciniche, ironiche e divertenti nell’ampio repertorio di facezie che vengono attribuite al grande avvocato, sempre schierato in prima linea contro i delitti che attentavano all’integrità e alla sopravvivenza della Res publica.