Esistono due versioni. Quella francofona celebra l'inizio del genocidio il 6 aprile mentre quella anglofona il 7 aprile. Insomma, la prima con l'uccisione del Presidente del Rwanda e la seconda con l'inizio della mattanza dei Tutsi. E già questo spiega che non si trattò solo di uno scontro etnico.

Andiamo per ordine. Il 7 aprile esco alle 6.00 del mattino e noto uno strano silenzio. L'ospedale, dove abitavo, non era ancora in movimento. Nel vicino lago non vi sono pescatori e le canne del papiro non ondeggiano.

Mi reco all'acquedotto per verificare se arriva acqua potabile per i rifugiati del Burundi1. Tutto regolare. L'impianto funziona. Esce acqua in abbondanza. Buona nuova. I rifugiati burundesi, siti nei vicini campi rifugiati al confine con il Burundi dall'ottobre '93, avranno anche oggi la razione di acqua potabile.

Carico le cisterne in pvc di color bluastro dei due camion parcheggiati in fila in attesa di gonfiare le proprie riserve che hanno lo stesso colore delle tende di plastica che l'Alto Commissariato per i Rifugiati, UNHCR, ha da poco distribuito per ricoprire dalla pioggia le capanne improvvisate intrecciando poca ramaglia. La stessa plastica la ritrovi, in abbondanza, nel mercato nero. Venduta per sopravvivere qualche giorno in più anche sott'acqua, se capita.

Vorrei farmi aiutare dai guardiani notturni che stanno confabulando tra loro e sembrano non dar retta alla mia richiesta d'aiuto. Li saluto con il saluto consueto che da anni si fa in Rwanda e Burundi: “Muramuzeu!” Che, peraltro, significa: “Siete sopravvissuti alla notte?2

No. Non rispondono. Oggi non è giornata.

Mi trovo in bilico all'alba sopra il cassone del camion con una pompa che spara a pressione incontrollata e loro stanno ancora lì impalati con una radiolina gracchiante in mano.

Alzo la voce. Si avvicinano. Mi guarda Joseph, il più anziano e con un francese impastato di Kinyarwanda3 mi dice: "Non è bene andare dai profughi, oggi!"

Rimango impietrito! La radiolina trasmette musica classica, Mozart, e proclami in lingua locale che non comprendo.

M'era capitato due mesi prima di disattendere i loro consigli e mi ritrovai nei guai. Dicevano: "Non è bene andare a Kigali, oggi!" E io presa l'auto mi infilai, come un pivello, dentro una confusione tale che sembrava di stare a Sarajevo, nei giorni dell'assedio o a Beirut nel 1982. Allora come oggi, la radio trasmetteva musica classica e proclami in Kinyarwanda.
- Cos'è successo? Chiedo ai guardiani.
- Ieri sera hanno ucciso il Presidente Habyarimana.

Sento che sta per crollare la piramide. Chiudo l'acqua. Mi siedo sul cassone del camion. È capitato ancora. Nei Grandi Laghi, quando muore un pezzo grosso, iniziano gli scontri. Si colpisce ovunque con la massima pianificazione. È poi l'esercito, unica agenzia che dà occupazione in Rwanda, a riportare l'ordine; se, dove, quando e nella misura gli viene comandato.

Ma stavolta non si trattava di un pezzo grosso ma ‘del’ pezzo grosso. Della testata d'angolo4.

Corro in casa a recuperare la mia radio. France International, tra le news, confermò l'uccisione dei due Presidenti (anche quello del Burundi) più una decina di membri dell'equipaggio e tre ufficiali francesi.

L'amico Giandomenico Colonna5 è già al telefono: console, amici a Kigali, l'ong Amici dei Popoli e le ong in Italia Medicus Mundi e Fondazione Tovini6. L'equipe medica di Médicins sans Vacances7 sono all'oscuro di tutto e tranquillamente stanno facendo colazione nel refettorio comune; a breve apriranno la sala operatoria e necessitano della consueta concentrazione oltre che della dose affatto contenuta di acqua potabile8. In lista vi sono 10 bambini malati di polio da operare che sono nel contempo eccitati e con la consueta fifa d'entrare nella sala verde. Beati loro. Avevano altro a cui pensare.

Non potendo andare ai campi profughi, che stavano per diventare luoghi di reclutamento (un orecchio = tot franchi rwandesi) per compiere ciò che è poi accaduto, aiutai mia moglie Paola (fisioterapista) a preparare i bimbi per la sala operatoria. Serviva sterilità e a quelle latitudini un operatore sanitario doveva saper far di tutto: Paola la ferrista e io il tecnico di radiologia.

Ricordo la prima radiografia che riuscimmo a sviluppare in camera oscura. Eravamo contentissimi tant'è che confondemmo non poco il padre del bambino al quale furono fatti i raggi il quale ci chiese, partecipando alla nostra gioia: “È guarito?”

A mezzodì arrivarono notizie preoccupanti dalla capitale Kigali: sono in corso gli scontri cruenti tra le forze del Fronte Patriottico Rwandese, FPR9, e l'esercito regolare, FAR10, (Forze Armate Rwandesi). Già dal pomeriggio vedo un via vai di camion militari verso la vicina caserma e noto anche qualche graduato francese in mimetica attraversare l'abitato di Rilima dove c'è il nostro ospedale.

In Europa, i Tg ne parlano tra le ultime notizie e limitano il conflitto alla capitale; in realtà si stava allargando a macchia d'olio. Fu subito notte! Si decise di dormire tutti assieme nel salone accanto al refettorio. Chirurghi compresi che, post sala operatoria, furono informati di ciò che stava accadendo.

L'esile rete che faceva da confine con l'abitato del paese permise a decine di persone (prevalentemente di etnia tutsi) di salvarsi la vita, durante la prima e le seguenti notti. Decine di persone che stavano scappando da morte certa, da un genocidio che si stava consumando tra strazianti grida di supplica a pochi metri da noi.

Il personale del Centro iniziò a dividersi. Persone con carta d'identità hutu da un lato e tutsi dall'altro.
- No. Non dividiamoci! Urlò l'assistente sociale responsabile del Centro. Dobbiamo stare uniti.
- Così ci uccidono sia noi che voi! Le risponde l'amica di etnia hutu che ha saputo di esser tale solo perché sta scritto, su mandato coloniale, sulla sua carta d'identità.

Bisogna preparare, per i Tutsi, un nascondiglio sicuro, all'insaputa dei primi. All'insaputa di tutti. V'era una camera oscura vicino alla sala operatoria. Nessuno ne conosceva l'esistenza a parte i muratori bergamaschi e i medici europei che vi conservavano i farmaci di valore. Mettemmo alcune coperte e in piena notte vi portammo coloro che avevano scritto sulla propria carta d'identità la parola tutsi. Allocammo un armadio davanti alla porta.

Poi, li trovarono. A fare la spia fu il mio più stretto collaboratore. Impeccabile come allievo fisioterapista. Peccabile dopo il 6 aprile. Vittorioso durante i massacri e umiliato, in seguito, dopo la vittoria di Kagame. Una vendetta che dura sino ai giorni nostri e che s'è allargata a mezzo continente africano; la miccia per la grande guerra dei Grandi Laghi.
- Il ministro. In linea c'è il ministro! Grida l'amico Giandomenico.

Via satellite la Farnesina ci raggiunge. Ci garantisce che in breve tempo saranno da noi i parà italiani o quelli francesi. Aprile 1994 governo Prodi. Ministro agli Affari Esteri Beniamino (Nino) Andreatta. Parla il suo plenipotenziario di cui non ricordo nemmeno il nome.

Passeranno, poi, lunghe giornate. L'interramento di mine da parte dell'esercito rwandese e le minacce da parte del Fronte Patriottico (se osate entrare vi taglieremo la testa) fanno desistere ogni esercito a metter piede dentro i confini del piccolo Rwanda11. Anzi. Il Consiglio di Sicurezza dell'ONU, anziché rafforzare la presenza delle forze armate ONU, come richiesto dal generale Romeo Dallaire, le riduce drasticamente. Sarebbero bastati 5.000 uomini per fermare i massacri ma i governi facevano orecchie da mercante; la posta in gioco è troppo alta. In Italia sta per cambiare il governo. Referente nostro è ora il ministro Martino. Primo ministro Silvio Berlusconi.

Il fabbro dell'ospedale mi chiede di andare a recuperare la moglie e i figli che sono fuggiti da casa durante la notte, evitando il massacro. Ora, sono dalla zia. Conosco la strada. Esco dall'Ospedale con la Pajero. In tasca ho una scacciacani che avrei avuto paura solo a impugnare. Trovo la moglie del fabbro e le bambine là dove mi fu indicato. Carico tutti in auto, sotto una coperta, e torno all'ospedale. Per le strade la strage.

L'inferno non può essere peggiore; vedi scene che ti fanno sprofondare di girone in girone. Senza pietà. Non c'è fine al peggio sino a trovarti in paradiso. Mi spiego. La gente sorride, collabora. I bambini saltellano, indicano ai genocidari dove si sono rifugiati i loro coetanei tutsi come stessero giocando a nascondino. Le donne aiutano l'esercito a compilare la lista come fosse quella della spesa e invece è la lista delle persone da eliminare. A migliaia. Uno studente delle superiori, vedendomi, grida: "È la nostra Rivoluzione Francese". Altri: "Libertà, Libertà". Avevano appena seppellito quasi tutti i componenti di una squadra di basket del liceo che mi dilettavo di allenare. Avevano la mano destra fuori terra. Come stessero ancora giocando.

C'era raduno, folla, lo ‘stare assieme’. Tutti rubarono di tutto. Compresi i lavandini da installare nelle povere pareti di fango dei contadini come non servissero anche le condotte di acqua per farli funzionare. È finita la fame, l'oppressione, l'umiliazione, l'essere figli di un dio minore. Da sempre servi. Insomma: è la festa. Il ‘nobile tutsi’ se ne stava nascosto nei canneti, in foresta, nelle paludi. Braccato; con la sua famiglia; i suoi bambini. Qualche mamma decise di annegarli. Una morte più dolce del lungo coltello affilato. Il marito di etnia hutu fu costretto a uccidere pubblicamente la moglie tutsi. L'etnia prima di ogni altro legame. Lo predicarono anche alcuni preti. Per braccare il fuggitivo utilizzarono anche i cani. I cani che a Kigali iniziarono a saziarsi dei cadaveri abbandonati.

La radio incitava gli uni a riempire le fosse comuni degli altri: gli scarafaggi. Moderati hutu compresi, rei di non far parte della festa o, peggio, di nascondere rifugiati in casa propria.

Passa un'altra notte. Lenta. Le grida fuori dall'ospedale; nuovi rifugiati dentro. Colpi di fucile. Facciamo tutti la guardia, tranne chi avrebbe dovuto farla: gli zamu. Stavano complottando per allearsi con i più forti. Vivere non fidandosi del vicino.

Il nostro cuoco Eùgene c'informò che stavano per attaccare il centro. Ebbe paura. Scavalcò nottetempo la rete su sconsiglio del fratello Petero che rimase con noi europei. Di Eùgene non se ne trovò più traccia12.
- C'è gente al cancello, gente al cancello. Esclamò Petero!

Mi avviai verso il cancello; vidi che alcuni avevano dei bastoni e altri delle mazze chiodate. Non pensai due volte ed estrassi la scacciacani. Vi fu un fuggi fuggi. - Ma tu hai coraggio di uccidere? Mi chiese il fabbro Giovanni alle 3 di notte, durante un turno di guardia e di accoglienza degli scampati.
- Io no - gli risposi.
- E allora che cosa ci fai qui con noi? Vai a dormire!

Anziché dormire la sera uscivo inconsciamente dal Centre des Handicapées per andare a trovare Padre Marcel (tutsi) o le vicine suore spagnole. Il primo aveva una paura matta di rimanere solo con i genocidari e veniva spesso a trovarci. Il suo catechista si procurò delle granate mentre lui della grappa trentina. Una di queste interminabili sere, mentre stavo attraversando la strada con un buio pesto, e disattendendo puntualmente le regole che c'eravamo dati come europei, incrociai un gruppo di uomini che tornavano ‘dal lavoro’. Avevano i machete insanguinati e mi accorsi della loro presenza quando ormai ero a meno di un metro.
- Bonsoir Fabien – esclamò uno di loro.
- Bonsoir! - Risposi gelato.

Intravvidi, poco lontano, tra le piante persone che cercavano riparo e rifugio; per ora scampati dal machete. Loro si accorsero che li notai e portarono l'indice al naso. Silenzio.

Il giorno dopo il pozzo del paese era pieno di cadaveri e Josephine, la bambina che ogni mattina si recava al centro per un tozzo di pane, squartata davanti al nostro cancello. La riconobbi dal vestito. Vomitai. Presi paura; rientrato nel centro cercai di mettermi in collegamento con l'Italia. Il telefono funzionava infatti in uscita e raramente in entrata. Mi collegai con una nostra amica che stava a New York presso il segretariato generale delle Nazioni Unite13.
- Ciao Fabio. Che piacere sentirti.
- Ciao, sono qua in Rwanda con Paola.
- Via da lì. Vattene! Varca il confine. Scappa.
- Non possiamo. Tutte le strade sono presidiate da genocidari.
- Ti metto in contatto con una radio. Lancia un appello.

E così feci. L'appello fu ascoltato, oltre che dai miei genitori, dalle nostre ong che da Brescia provavano a far pressione presso l'Unità di Crisi della Farnesina.

Poi presi sonno. Era circa mezzogiorno. Mi coricai e mi svegliai il giorno dopo. Il corpo ha detto basta. Anche la mente aveva bisogno di staccare.

Dopo interminabili giornate d'attesa arrivarono i belgi. Teste di cuoio. Ragazzi poco più che ventenni dipinti di nero. Senza alcuna paura di uccidere, se necessario. Non dovevano chiedere permesso ad alcuna autorità sovranazionale, ma avevano un solo compito: portare a termine il loro lavoro. Il comandante era esperto di evacuazioni: Zaire, Burundi e ora Rwanda.

Il centro esplose di gioia. Tutti si considerano salvi. Dalla paura collettiva. Da loro stessi. Dai genocidari. Da chi gli sta accanto. Decine di persone fecero capolino da sopra i container dove avevano trovato riparo; sembravano gli ebrei dei letti a castello di Auschwitz. Stessi volti consunti; stessi occhi sbarrati.

I liberatori hanno fame. Si prepara loro da mangiare. Si dà fine alle scorte. Anche i rifugiati avevano fame. Si dette cibo e accesso ai bagni. Alla possibilità di lavarsi e cambiarsi. Un minimo di decoro. Si va in Europa.

Il capo missione mi ordinò di svuotare tutto il vino e superalcolici che erano in casa affinché i genocidari non se ne appropriassero. Ubriachi sarebbero stati più feroci. Lo stesso per la scorta di gasolio e benzina al fine di non permettere l'uso/abuso di auto e camion per allargare il genocidio a macchia d'olio. Obbedii.

A un tratto arrivò una telefonata. Urla in francese. Stavano massacrando a Kigali i loro commilitoni. Altri soldati belgi14.

Contr'ordine.
- Portare via solo i bianchi.
- Subito. Alcuna discussione.

Fu la disperazione da parte dei rifugiati. Il prete Marcel mi chiese il favore di essere ucciso con una mitragliata assieme a tutti i Tutsi presenti. Non sapeva del nostro accordo/promessa con la Farnesina che tutti i rifugiati sarebbero stati tratti in salvo. Gli zairesi rivendicarono diritti d'appartenenza alla comunità internazionale. La Farnesina non rispose, il Console Pierantonio Costa stava facendo del suo meglio per portare in salvo tutti gli italiani iscritti all'Aire e non rispondeva, naturalmente, al telefono fisso.

A forza ci caricarono su camion, Jeep e pulmino. Abbandonammo tutti! Sotto la minaccia delle armi affinché nessuno tentasse di salire sui mezzi in partenza. Non ci salutammo; non c'era più un solo filo di speranza se non un piccolo gruzzolo di soldi che consegnai al sindaco per far da mediatore e tardare il più possibile la mattanza.

Nel paese era iniziata la caccia al belga e ci fu vietato parlare francese. Per noi. Vietato avvicinarsi ai mezzi di trasporto. Per loro.

Guidavo un furgone Toyota ed ero in coda al convoglio. Tentai d'imbarcare un paio di persone ma le teste di cuoio belghe mi scoprirono: “Vuoi farci ammazzare tutti?” Mi presero il passaporto!

Percorro i 60 km che dividono Rilima dalla capitale attento a seguire il carro semovente che guidava il convoglio. Non sono ammessi fuoripista causa mine anticarro. Venimmo fermati di tanto in tanto da gruppi di interahamwe che sporchi di sangue e pieni di droga battevano sui vetri del pulmino al grido: “Tutsi Tutsi”. Avevo una calma e un sangue freddo che mi era tipico delle situazioni di panico. Non fermai mai la macchina. Arrivammo a Kigali. Si vedevano i cadaveri lungo i fossi e file di persone in attesa di essere ammazzate. All'incrocio, un mio coetaneo che imprecava: “Coloni, fuori da questa terra”.

A Kigali entrammo nell'aeroporto dove venimmo marchiati con un timbro sul dorso della mano. Si sentono spari ovunque e rimasi basito dalla flemma della funzionaria che mi timbrò la mano; sembrò stare dentro in un qualsiasi ufficio di un qualsiasi giorno di lavoro. Ci attese un aereo militare che fu, tra l'altro, carico di cani. I cani dei signori che vivevano nella capitale. Poche le persone di colore. Vi sarebbe stato posto per molti nostri amici che avevamo abbandonato. Vi fu un misto di ‘senso di colpa e impotenza’. Destinazione Nairobi. Poi cambio per Bruxelles. L'aereo decollò. Il Rwanda bruciava. Colonne di fumo si alzavano dai cortili dei Tutsi. Furono derubate, saccheggiate e incendiate tutte le loro proprietà. A Nairobi incrociammo i parà della Folgore in attesa di un ordine che mai arrivò.

In Belgio ci aspettò il Console italiano che curò, assieme alla Farnesina e la sua controparte di Kigali Costa, tutta l'evacuazione. Il Corriere della Sera titolava in prima pagina: “Salvi gli italiani di Rilima in Rwanda con tutto il personale locale. Come promesso dalla Farnesina”.

Giandomenico Colonna va su tutte le furie. Le organizzazioni non governative pure. È una palla. Il Console ci ascoltò e chiese un incontro immediato con il Ministro degli Esteri belga anch'egli presente in aeroporto per accogliere i suoi connazionali. Non furono rispettati gli accordi15.

Il Ministro belga ascoltò pazientemente e si lamentò delle pretese degli italiani. Dopo una discussione affatto diplomatica, dove il Ministro rivendicava la messa in sicurezza degli italiani il Console rispose secco in francese: “Non sono italiano. Sono siculo!” Il non detto: “Ho a cuore la sicurezza sua e della sua famiglia”. Silenzio. Il Ministro alzò la cornetta e inviò una task force da Kigali, via elicottero, a Rilima. Questa seconda evacuazione fu un successo: vennero salvati quasi tutti; dopo una giornata di terrore. Ostaggi dell'esercito e in attesa dei genocidari. Soli, stanchi e lontani.

L'asilo di Castenedolo di Brescia offrì la sua struttura per accogliere i più piccoli. Ironia della sorte. L'asilo è a pochi metri dalla Valsella. La stessa fabbrica di mine vendute nei Grandi Laghi. Gli adulti, invece, trovarono riparo in Belgio ospiti di una struttura della regina Paola Ruffo di Calabria.

Seguimmo quotidianamente l'evolversi della guerra e salutammo favorevolmente L'Opération Turquoise condotta dalle forze armate francesi in Rwanda nel giugno del 1994 sotto il mandato delle Nazioni Unite con il fine ufficiale di porre un freno al genocidio, ma con lo scopo ufficioso di mettere in salvo la famiglia Habyarimana amica personale della famiglia Mitterand. Seguimmo il rientro del console Costa16 che lasciò il paese solo quando tutti gli italiani, compresi coloro che per negligenza non s'iscrissero all'Aire, furono messi in salvo.

Seguimmo la vittoria dei Tutsi sugli Hutu e l'esodo di milioni di persone. Le città di Goma e Bukavu, nel vicino Zaire, accolsero milioni di persone tra le quali alcuni nostri amici di Rilima compreso il sindaco al quale avevamo affidato qualche risparmio per mettere in salvo se e la sua famiglia.

In queste città, normalmente di centomila abitanti, si temette il colera con il sopraggiungere di dieci volte tanto la propria popolazione. Ricordo che vennero accatastati i cadaveri ai confini con il Rwanda. Le organizzazioni internazionali entrarono pian piano in Rwanda e ai confini: Medici senza Frontiere, Croce Rossa Internazionale e, tra le italiane, Emergency al quale fu affidata la pediatria dell'ospedale civile di Kigali.

Il 18 luglio 1994, dopo 100 giorni di guerra e quasi un milione di morti ammazzati, il Fronte Patriottico Rwandese prende il potere e, come ritorsione, stipa le carceri di genocidari o presunti tali.

Infiniti rifornimenti d'armi via Uganda, dopo 3 mesi di sangue, resero i Tutsi vincitori e, parallelamente, un embargo al rifornimento di armi via Zaire agli Hutu. Così decise il Palazzo di Vetro. L'anglofonia ebbe allora la meglio sulla francofonia.

Si viene a conoscenza di drammi inimmaginabili. Partite a calcio con teste di uomo, chiese, tra le quali la vicina Nyamata, adibite a macello, stupri di massa.

Nei Grandi Laghi iniziò la ‘caccia all'Hutu’ e, con la questa scusa, la conquista della Repubblica Democratica del Congo per la conquista di suolo e sottosuolo di una terra – il Kivu, provincia del Katanga – che è la più ricca del pianeta. Qui, non a caso, fu ucciso Patrice Lumumba e vi combatté Che Guevara. Qui si trovano i giacimenti più importanti di coltan al mondo. Gli aeroporti internazionali più vicini sono, guarda caso, le capitali di Rwanda e Burundi.

In Italia, da lì a poco, insorse la società civile contro le politiche di vendita di armi a paesi in guerra. Venne istituita la Commissione presieduta da Achille Occhetto e la Valsella, dopo un paio di tentativi di aggirare la legge, venne riconvertita. Una nota di speranza.

Non rientrai per quasi un ventennio. Ero indesiderato come tutti coloro che, in qualche modo, contribuì a far uscire ma, soprattutto, a non far rientrare i rifugiati in patria.

Ricevetti il visto d'ingresso nell'agosto del 2012. Trovai un paese che incredibilmente stava cambiando. V'è ancora speranza.

1 Siamo a Rilima in Rwanda nel 1994, anno del genocidio. Rilima è l'abitato con acqua potabile e un ospedale attrezzato (grazie alla cooperazione italiana) più vicino ai campi profughi burundesi. Dista 60 km dalla capitale Kigali e 30 km dal confine con il Burundi. Questi campi sono stati realizzati dopo la morte del presidente del Burundi Melchior Ndadaye il 21 ottobre 1993. Qui l'esercito, in prevalenza di etnia tutsi, non accettò la recente elezione del Presidente Ndadaye del Frodebu (Fronte per la Democrazia in Burundi) nonostante fosse il primo presidente liberamente eletto e di etnia hutu nella storia del Burundi. Fu assassinato nella sua casa dopo soli 102 giorni di presidenza da tre militari dell'11° blindato del 2º comando. Fu strangolato con una corda e trafitto sette volte dalle baionette degli stessi militari. Il suo cadavere venne abbandonato nel campo e dileggiato, infine, sepolto in una fossa comune nello stesso campo insieme ai corpi di Pontien Karibwami, vicepresidente e presidente dell'Assemblea Nazionale, di Bimazubute Gilles, vicepresidente dell'Assemblea Nazionale, di Juvénal Ndayikeza, ministro dell'Agricoltura e dello Sviluppo Rurale e Richard Ndikumwami, Direttore dei Servizi Segreti. Ne seguì un massacro di circa 200.000 persone (global security). In alcuni di questi campi profughi l'ospedale di Rilima riforniva di acqua potabile le strutture ospedaliere e di pronto soccorso.
2In Rwanda e in Burundi la maggior parte degli attacchi di carattere etnico avvenivano nottetempo. Le famiglie rurali, quando v'era tensione, preferivano dormire in foresta anziché in casa. Ciò, negli anni, ha modificato persino il modo di salutarsi.
3 Lingua del Rwanda molto simile al Kirundi che è la lingua del Burundi.
4I poteri dittatoriali, per quanto illuminati, vengono costituiti come una piramide a rovescio. Sotto ci sta il Presidente e se viene tolta, per l'appunto, la ‘testata d'angolo’ viene a cadere tutta l'infrastruttura governativa e sottogovernativa.
5Anestesista dell'ospedale Rizzoli di Bologna.
6Queste due ultime ong sono i nostri (Giandomenico, Paola e io) datori di lavoro e referenti in Italia. Sono entrambe ong bresciane.
7All'interno dell'ospedale c'erano anche dei chirurghi di questa ong belga. Il più anziano dei chirurghi era amico personale del Ministro della Difesa del Belgio. Erano presenti a Rilima per alcuni interventi chirurgici programmati da tempo. Era Paola, mia moglie, colei che sceglieva i bambini che dovevano essere sottoposti all'intervento e seguiva l'iter post-operatorio.
8L'ospedale era fornito di due potabilizzatori importanti donati dal Rotary di Bologna. Erano in grado di potabilizzare un'importante quantità di acqua dall'acquedotto. I filtri dei potabilizzatori andavano puliti con cadenza quotidiana, ma è grazie a questa donazione che siamo diventati punto di riferimento per i campi profughi burundesi in Rwanda.
9 Prevalentemente di etnia tutsi.
10Prevalentemente di etnia hutu.
11I paracadutisti della Folgore si fermano a Nairobi. D'altronde il sottosegretario agli Esteri Rocchetta nel giugno 1994 tenta di metter piede in Rwanda ma, l'Hercules delle Nazioni Unite con il quale volava assieme all'ambsciatore italiano in Uganda, è stato cannoneggiato e immediatamente fece ritorno a Nairobi.
12Vane furono le ricerche negli anni seguenti.
13Mi fece entrare con un pass al Consiglio di Sicurezza mentre stavano interrogando Tariq Aziz, Ministro degli Esteri di Saddam Hussein con il benestare dell'ambasciatore italiano all'Onu Fulci.
14Uscì un'info da Radio Mille Colline che i belgi stavano rifornendo di armi i Tutsi. Notizia del tutto infondata in quanto fanno parte della francofonia e non avevano alcun interesse ad armare il nemico.
15Nel frattempo in Italia c'è il primo governo Berlusconi con Martino agli Esteri.
16 Il Console salvò circa duemila persone tra cui 375 bambini. Ricevette la Medaglia d'Oro al Valore Civile.