Si dice che lo sciocco, quando gli si indichi la Luna, fissi invece il dito. É una metafora perfetta, per descrivere il tempo presente, in cui una pletora di dita si levano verso l’alto, ma noi non riusciamo comunque a vedere oltre. La Luna continua a sfuggirci.

In questo inizio d’estate, immersi nella crescente tropicalizzazione del Mediterraneo, ci appassioniamo furiosamente al dito del momento, indifferenti a qualsiasi luna possa esservi oltre. E non parlo qui del cambiamento climatico - seppure non veda problema più grande e urgenza maggiore; la spettacolarizzazione con cui i media internazionali hanno trattato Greta Thunberg, se da un lato ha posto sì l’attenzione sulla malattia del pianeta, dall’altro l’ha però concentrata sulla piccola svedese, polarizzando su di lei l’opinione pubblica. Ingigantisci il dito, per occultare la luna.

Ma, appunto, non è della Terra che parlo, ma di noi.

Di questa schizofrenia che ci induce a una feroce attenzione per il particolare, perdendo di vista il generale.

Due sono i fatti che hanno colpito la mia attenzione, e soprattutto a colpirmi è lo scarto enorme con cui sono stati trattati: tantissimo interesse per il meno rilevante, pochissimo per quello più importante.

Anche qui, c’è di mezzo una giovane donna ‘nordica’. Carola Rakete, capitana della Sea Watch 3, la nave dell’ONG in azione nel Mediterraneo, fa quel che ciascuno di noi dovrebbe essere capace di fare, cioè semplicemente agisce coerentemente con ciò che ritiene giusto, assumendosene la responsabilità. Si può ovviamente essere d’accordo o meno con quello che fa, ma non ci dovrebbero essere dubbi che il suo sia un comportamento esemplare, sotto questo punto di vista. Comunque, certamente Carola segue la sua coscienza, e semmai vorrebbe porre l’attenzione sulle ragioni del suo agire, non su se stessa. Né ‘puttana’ né ‘eroina’, ma solo una persona che vede un problema e lo affronta, secondo le sue convinzioni.

Ma lei, come Greta, diventa il dito dietro cui nascondere i problemi.

A bordo della Sea Watch 3 arrivano a Lampedusa 42 persone (perché questo sono, persone; comunque la si pensi, di questo non ci si dovrebbe dimenticare mai). 42 persone che arrivano in un paese di 60 milioni di abitanti, una delle 20 potenze economiche del pianeta. 42 persone che arrivano in un continente di 741 milioni di abitanti, con una tra le più alte concentrazioni di ricchezza al mondo.

Ma quelle 42 persone sono una goccia nel mare anche rispetto al totale degli arrivi.

Ad oggi, in Italia nel 2019 sono arrivate 1400 persone, in fuga da guerre, dittature, povertà e cambiamento climatico (che nel loro caso non significa ‘più caldo’, ma desertificazione, siccità, carestia...). Di queste 1400, solo una piccola parte hanno compiuto il tratto finale del proprio viaggio a bordo di una nave ONG.

Ma le ONG sono il (comodo) dito.

A fronte di un importante fenomeno migratorio, che investe buona parte del pianeta (e che per la gran parte è di brevissimo raggio: le persone in fuga si fermano quasi sempre nel paese più vicino), e che ha visto nel Mediterraneo uno snodo rilevante, posto com’è tra Africa, Medio Oriente ed Europa, “Aiutiamoli a casa loro” è sempre rimasto un vuoto slogan. Non solo non si fa nulla di serio per combattere le cause del fenomeno, ma al contrario le si moltiplicano. Scateniamo guerre, le alimentiamo con la vendita di armi, deprediamo le ricchezze di quei paesi per sostenere la nostra. Questa è la spinta dietro le migrazioni. Rispetto a questo fenomeno, abbiamo sempre assunto l’atteggiamento emergenziale: considerare (appunto) come un’emergenza ciò che invece è un fenomeno strutturale, di lungo periodo, per evitare di affrontarne le cause e cercando invece di ‘tamponarne’ gli epifenomeni. Uno dei quali era l’alto tasso di morti durante le traversate (oltre 30.000 persone sono annegate nel Mediterraneo, negli ultimi 15 anni). All’inizio, il problema fu affrontato con la missione Mare Nostrum, finalizzata proprio al salvataggio delle persone in pericolo in mare. Nel 2014, la missione venne terminata e sostituita da una nuova, questa volta europea, denominata Triton, che però spostava il suo focus dal salvataggio al contrasto, e arretrava considerevolmente il suo raggio d’azione, allontanandosi dalle coste africane. É in questo ‘vuoto’ che intervengono le ONG, cercando di supplire a quanto non fanno più gli stati europei.

Ma noi ci concentriamo su Carola Rakete.

L’altro fatto di cui dicevo ha un nome seducente: Libra. Si tratta di una ‘criptovaluta’ (una moneta digitale) che sta per essere lanciata universalmente da Facebook e da un consorzio di big del digitale e dei servizi finanziari (Visa, Mastercard, Paypal, Uber, E-bay, Spotify, Booking...). L’obiettivo, più o meno apertamente dichiarato, è quello di creare una moneta planetaria, alternativa al dollaro o all’euro (o al renmimbi cinese...). A partire da un miliardo e mezzo di persone che - dice il comunicato di Menlo Park - possiedono uno smartphone ma non un conto in banca.

Libra sarà una moneta esclusivamente digitale, ma anche una ‘stablecoin’, cioè il suo valore sarà garantito da "depositi bancari e titoli di Stato in valute da banche centrali stabili e rispettabili". Sarà quindi convertibile in qualsiasi momento in una qualsiasi valuta ‘corrente’.

Non credo occorra essere degli esperti di finanza mondiale, per capire tutte le implicazioni potenziali - sul piano economico, ma anche su quello sociale e ‘culturale’.

Basti pensare all’impatto sulle economie più fragili, quelle di paesi instabili politicamente, ma anche sul nostro modo di usare il denaro. Da anni c’è un continuo tira-e-molla sull’uso del contante, sulla rilevanza che l’uso delle carte (di credito, di debito, prepagate...) potrebbe avere sull’evasione fiscale. E Libra, a dispetto del suo nome, potrebbe squilibrare tutto, e far pendere la bilancia in favore della moneta elettronica.

Tutto ciò, per non parlare dell’aspetto forse più rilevante, quello dei big data. Che non è una questione strettamente di privacy: alle multinazionali del ‘capitalismo di piattaforma’ non interessa tanto associare le informazioni a un nome, a una specifica identità; l’interesse non è per cosa faccio io o tu (dove vado, cosa compro, quanto spendo...), ma cosa facciamo noi. La macro-dimensione, i big-data, appunto.

Non è tanto il controllo onnicomprensivo, un orwelliano panopticon digitale, ad essere dietro l’angolo. Piuttosto Libra sarà un nuovo tassello nel complesso mosaico dell’estrazione di valore dalla nostra vita. La nostra vita, condensata in dati digitali, a loro volta elaborati da algoritmi, diviene una merce. E questa merce verrà venduta a chi la userà per potere, a sua volta, venderci meglio i suoi prodotti e/o servizi.

É il mondo del futuro prossimo, su cui abbiamo sempre meno possibilità di intervenire nel disegnarlo. Il mondo dello sviluppo tecnologico, che ci appare così ‘etereo’, immateriale, ma che invece è assolutamente basato su una enorme ‘fisicità’, fatta di consumi energetici (il settore dell'Information Technology consuma da solo il 7% dell’elettricità globale) e di minerali ‘strategici’.

Quanti di noi hanno sentito parlare di coltan, o di tantalio? Quanti sanno da dove proviene, a cosa serve? Sono entrambe indispensabili per la realizzazione di componentistica elettronica. Di coltan, ad esempio, sono ricchissimi il Congo e il Venezuela (che è anche il paese più ricco di petrolio al mondo...). E anche il tantalio viene soprattutto dal Congo. E in Congo c’è una guerra, terribile1. Per fare la guerra, si comprano armi. Noi produciamo e vendiamo armi, loro le comprano. E le pagano anche vendendo a loro volta quei minerali. Le guerre producono morte, distruzione e carestia (in Congo, si stima circa 5,4 milioni di persone sono decedute in conseguenza del conflitto). Dalle guerre si fugge. E il cerchio si chiude.

Il punto, ovviamente, non è la demonizzazione della tecnologia, che certamente migliora la nostra vita. Semmai, è aver cura che contribuisca a liberarla, non a costruire nuove (anche se nascoste) schiavitù. In questi giorni, per dire, al Maxxi di Roma, si sperimenta una apparecchiatura che utilizza una tecnologia d’avanguardia - la conduzione ossea - per migliorare l’esperienza museale. Basterà avvicinare un dito all’orecchio, per usufruire di contenuti audio.

Ecco, il dito. Usiamolo, guardiamolo, ma non dimentichiamo di guardare anche ciò che ci indica. Il mondo può a volte apparire terribilmente complesso, tanto da avere la tentazione di non vedere per non sapere. Ma spesso questa complessità deriva proprio dalla mancanza di attenzione che vi rivolgiamo. Non vi è motivo alcuno per complicare ciò che è semplice. É il principio del Rasoio di Occam: "Pluralitas non est ponenda sine necessitate" (non considerare la pluralità se non è necessario).

Non guardare il dito, guarda il mondo.

1 “Non mi sono mai occupato di una guerra peggiore di quella del Congo, e mi ossessiona. In Congo, ho visto donne mutilate, bambini forzati a mangiare la carne dei loro genitori, ragazze vittime di stupri e distrutte nel loro io. I signori della guerra finanziano parte delle loro scorribande attraverso la vendita di minerali grezzi contenenti tantalio, tungsteno, stagno e oro”. Nicholas Kristof (premio Pulitzer), New York Times.