Dapprima fu la conferenza mondiale di Rio de Janeiro, poi il protocollo di Kyoto e gli accordi di Parigi, il mondo si rese conto che l'impatto della civilizzazione sulla terra era troppo aggressivo, che le aumentate esigenze della popolazione mondiale in continua crescita chiedevano un consumo di fonti non rinnovabili non più sostenibile. I grandi della terra convennero che si doveva dare una svolta alla nostra scelleratezza per non distruggere chi ci consente di vivere, per non distruggerci.

L’Earth Overshoot Day, ossia il giorno in cui la terra finisce le sue risorse e si comincia a consumare le riserve, ogni anno anticipa di qualche giorno, quest'anno il mondo è andato in riserva il 29 luglio, pensiamo che 30 anni fa ciò accadeva in ottobre, adesso è sempre più in anticipo. L'Italia è nona nella classifica dei consumi ed il suo overshoot day è stato il 15 maggio, consumando risorse pari a 4,7 Paesi come il nostro. Purtroppo c'è chi ancora non si allinea agli Stati che hanno già ratificato le normative per un corretto rapporto uomo-Terra ed ancora ignora la catastrofe imminente in virtù di interessi limitati a se stessi.

È stato proposto di sviluppare modelli di produzione non inquinanti per evitare emissioni di polveri sottili o di sostanze tossiche e mutagene; di mettere in atto sistemi di produzione di energia da fonti rinnovabili, energie alternative che limitino fino a far scomparire l'utilizzo del combustibile fossile, principale responsabile dei cambiamento climatico globale; di pensare a dotare il trasporto pubblico di veicoli eco compatibili a bassa produzione di smog e condivisibili per evitare la congestione delle città; di rendere efficaci le campagne contro lo spreco di risorse idriche che drammaticamente insieme all'innalzamento di temperatura desertifica aree sempre più vaste.

La desertificazione infatti è uno dei grandi problemi che la nostra terra sta affrontando, ma quali sono le cause?

Tante, che vanno dalla deforestazione, al sovra pascolo, alle cattive pratiche di irrigazione, alla povertà e all'instabilità politica e quindi sono in fin dei conti di natura fisica, sociale, culturale e politica.

Con il termine desertificazione non si identifica solo l’espansione dei deserti già esistenti ma si intende la degradazione del suolo continuo, che secondo l’Atlante mondiale della desertificazione prodotto dalla Commissione europea, riguarda i tre quarti delle terre del pianeta. Entro il 2050, l’avanzare della degradazione del suolo potrebbe costringere alla migrazione 700 milioni di persone (i migranti climatici che devono essere presi in considerazione al pari dei richiedenti asilo, poiché la fame è essa stessa una reale minaccia per la vita così come la guerra) e ad essere colpite in particolar modo saranno, Cina, India e Africa sub sahariana, ma il problema riguarderà anche l’Italia che secondo alcune stime ha già un quinto del suo territorio a rischio.

L'umanità ha due compiti essenziali pertanto: smettere di emettere inquinanti e CO2 e riforestare. I due polmoni della terra sono le foreste primarie e il mare, mantenerli è il nostro compito e dovere. Bolsonaro, presidente del Brasile, afferma che la foresta Amazzonica non è patrimonio dell'umanità ma del Brasile, rivendicandone la sovranità assoluta e mantenerne l'integrità rallenta lo sviluppo economico del paese, annunciando infatti, nuove concessioni per lo sfruttamento di suolo e sottosuolo. Gli incendi di questa estate mettono sotto accusa trafficanti di legno, grandi coltivatori e l'attività mineraria in cerca di nuove terre.

Sulla scia dell’ambientalista e vincitrice del premio Nobel per la Pace Wangari Muta Maathai, che aveva contribuito a piantare 30 milioni di alberi in Kenya in 30 anni, molte altre figure hanno lanciato campagne per riforestare i terreni. Piantare nuovi alberi serve a combattere la desertificazione, a rendere l’agricoltura più efficace grazie all’agro forestazione. Inoltre, questi regolano il ciclo dell’acqua e rendono il suolo più produttivo, proteggendo anche la nostra biodiversità e la capacità di trattenere le acque meteoriche che altrimenti causano smottamenti e distruzione come è noto. Non è semplice ricreare una biocenosi vegetale in luoghi deserti perciò utile è trovare le specie colonizzatrici primarie che da piante pioniere aprano la strada alle altre, sono queste le piante dell'impossibile, come ad esempio il bambù. Nel Nord-Est dell’India, nella valle del Brahmaputra un uomo ha trasformato 1.500 ettari di dune in foresta di bambù, mettendo in pratica la volontà di arginare la desertificazione. Il bambù ha grande potenziale per la sostenibilità dell’umanità, sia dal punto di vista alimentare che da quello di protezione dei nostri territori. Il bambù è una pianta resistente, forte come l’acciaio, che cresce velocemente (anche un metro al giorno) non soffre di particolari malattie e non è aggredita da parassiti, quindi non necessita di essere trattata con antiparassitari o diserbanti principali inquinanti del suolo e delle acque sotterranee.

Il bambù, originaria dell’Asia, appartiene alla famiglia delle graminacee, è una pianta sempreverde (ne esistono ben 1200 specie) e riesce a vivere in ogni tipo di clima, quindi adatto anche al clima mediterraneo. È una pianta utilissima per il consolidamento dei terreni e delle scarpate, può bonificare vecchie discariche, riesce ad assorbire sostanze inquinanti, polveri sottili, ci regala enormi quantità di ossigeno (35% in più degli alberi) e ci ripara dall’inquinamento acustico.

È una pianta resistente, impiegata nell’edilizia, nella produzione di fibre tessili, nell’alimentazione (innumerevoli sono i piatti a base di bambù, zuppe, tisane, insalate) i suoi benefici si incontrano già nella letteratura cinese della dinastia Tang e spaziano dalla perdita di peso, alla diminuzione del colesterolo, all’incremento delle difese immunitarie.

Una panacea da riscoprire in tutte le sue versioni, un dono che la natura ci offre per sanare le continue aggressioni che noi esseri umani continuiamo ad infliggerci. Oltre al bambù la natura ci mette a disposizione tante altre essenze indispensabili e laddove la natura non arriva, l'uomo realizza chimere botaniche che sollevino dalla fatica di lavorare il terreno, di non usare pesticidi o diserbanti, di risparmiare acqua per innaffiare. In che modo? Realizzando orti sugli alberi ad esempio, a 6 metri di altezza in un coacervo di verdure che si “colgono” come frutta, rigorosamente solanacee e quindi peperoni, melanzane, pomodori di tutte le forme e dimensioni su di un albero di Solanum mauritianum. Una invenzione di un signore, Francesco Mangano di Taurianova in provincia di Reggio Calabria, che innesta verdure su un albero, sottraendole a tutti i problemi connessi alla manutenzione di un orto. Risultato? Quintali di verdure di più qualità portate dai rami di un albero, ottimizzando spazio, acqua, concimi e resa produttiva. Una sorta di albero del paradiso terrestre, da utilizzare per portare nuovamente vegetazione e alimenti anche in zone aride e con scarsezza di acqua, oltre che per portare ossigeno e cibo. Un sistema botanico integrato da diffondere nelle aree ad alta criticità climatica, in quei luoghi poveri e deserti del mondo, per ricreare nuovi insediamenti umani o portare sostentamento a chi resiste, vittima di un “apartheid climatico”, in cui i soltanto i ricchi hanno i mezzi per sfuggire alla fame mentre il resto del mondo è lasciato a soffrire.