Si dice, non ha torto, che avvertiamo l'importanza ed il valore di qualcosa o di qualcuno, soprattutto quando lo stiamo perdendo. La sensazione di smarrimento, di precarietà, è innescata dalla consapevolezza di stare perdendo 'un pezzo' importante per il nostro equilibrio - sociale, emotivo, comunque psicologico. E, ovviamente, tanto più la nostra percezione globale di sicurezza è fragile, tanto più ogni qualvolta abbiamo la percezione che ci stiano sottraendo un pezzo del nostro 'castello di carte' psicologico, la reazione è irrazionale, difensiva, di 'attaccamento' a quel 'pezzo' - cui magari sino al giorno prima non attribuivamo particolare valore.

È esattamente questa, in fondo, la dinamica 'identitaria' nelle moderne società di massa. Nelle piccole comunità, o laddove nonostante la modernità permane una struttura sociale 'tribale', basata sull'appartenenza - appunto - ad un corpus specifico, connotato da legami di sangue (in senso assai ampio), l'identità individuale è fortemente connessa a queste identità 'comunitarie', e si fonda su elementi non solo culturali, ma anche sociali e materiali. Ma nelle società massificate ed 'urbanizzate', i legami comunitari sono in realtà in larga misura saltati; oppure si riducono ad una ristrettissima cerchia familiare (in cui comunque prevale il legame affettivo più identitario), o ancora in 'comunità di scopo' più o meno ampie - un movimento politico, un'associazione, etc - dove a prevalere è un legame 'culturale'.

L'individuo medio è comunque 'atomizzato', si percepisce parte di un tutto indistinto, ma nell'estraneità dal vicino, dagli altri 'atomi' intorno a lui. La sua identità 'comunitaria' è labile, connessa a fattori 'lontani', di scarsa rilevanza nella sua vita quotidiana, e fondamentalmente basata su un meccanismo di 'trasmissione automatica' di una serie di elementi culturali.

Per dire, è ovvio che l'identità cristiana prevalente in Europa, esattamente come l'identità islamica prevalente nel mondo arabo, non sono conseguenza di una autonoma e convinta adesione individuale alle rispettive fedi religiose, ma semplicemente di un processo di 'adeguamento' al contesto in cui si nasce.

Il richiamo ad una identità collettiva, spesso poco rilevante sinché non ci viene indicata come causa dello smottamento del nostro 'castello di carte', è uno strumento classico della mobilitazione politica. Lo è stato per i nazional-fascismi, nella prima metà del Novecento, lo è adesso per i populismi identitari.

Il paradosso è che l'humus su cui germogliano questi fenomeni è un prodotto della globalizzazione, così come la conosciamo (assoluta libertà di circolazione per merci e denaro, limitazione alla circolazione umana - svuotamento progressivo dei 'poteri' pubblici, rafforzamento estremo dei poteri privati, etc), mentre ad agitare parole d'ordine come "America first!" e "Prima gli italiani!" sono individui e movimenti assolutamente e totalmente 'interni' a questo processo, e che in alcun modo (fuorché appunto nella comunicazione verbale) sanno e vogliono uscirne. "Sono gli anni della retrotopia", per dirla con Bauman1.

Ma ancor più interessante, se vogliamo, è che mentre da un lato cresce l'attenzione, a volte persino morbosa, verso forme di identità collettiva in realtà assai poco significanti, permane una grande disattenzione verso l'esproprio di massa delle identità individuali. L'accumulo - e lo sfruttamento - di una enorme mole di dati riguardanti la nostra identità personale (relazioni, gusti, orientamento politico e religioso, salute, stile di vita...), ci lascia indifferenti. Quasi fosse una condizione naturale, rispetto alla quale non c'è che da adattarsi. Lo stesso meccanismo di "adeguamento al contesto" di cui dicevo prima riguardo alle fedi religiose. Così è.

In realtà, uno dei processi più intimamente connessi alla globalizzazione, ovvero la rivoluzione digitale, non solo è all'origine di questo esproprio, ma si sta spingendo verso frontiere sempre più invasive ed inquietanti. Anche se ancora imperfetti2, i meccanismi di controllo algoritmico, in particolare nel settore della videosorveglianza e del riconoscimento facciale, sono in rapido (quanto problematico) sviluppo, e l'esito di ciò è una crescente sottrazione di identità. La Cina, in cui lo sviluppo tecnologico impetuoso si accompagna ad una tradizione culturale autoritaria, e dunque si danno le condizioni ottimali per questo genere di 'sperimentazione', la videosorveglianza abbinata all'uso dell'AI per il riconoscimento facciale è arrivata al punto introdurre un meccanismo premiale/punitivo, basato appunto sulla capacità algoritmica di valutare i comportamenti individuali, estrapolati da una estesissima rete di strumenti di controllo visivo. In USA, che tendiamo a considerare - non si capisce bene perché... - la 'patria' della democrazia, un’indagine del Congresso3 ha fatto emergere che i sistemi di riconoscimento facciale non regolamentati stanno già schedando i manifestanti, modificando il sistema penale e aggravando i pregiudizi razziali.

Le grandi imprese multinazionali (anzi, sarebbe il caso di cominciare a definirle, più correttamente, sovranazionali) del digitale, che ovviamente sono pienamente coinvolte nello sviluppo di queste tecnologie, se da un lato si dichiarano preoccupate dei possibili aspetti negativi delle stesse (è quanto hanno fatto, ad esempio, Microsoft ed Amazon), dall'altro invitando alla regolamentazione del fenomeno hanno realizzato un abile trucco: invece d’incentrare il dibattito sulla decisione di adottare o meno il riconoscimento facciale su ampia scala, l’hanno focalizzato su come gestire l’innovazione4.

Insomma, se fossimo un po' più consapevoli della realtà che ci circonda ed in cui siamo pienamente immersi, la parola d'ordine dovrebbe essere: "Prima i miei dati!".

È singolare che, mentre in Paesi che consideriamo più 'arretrati', e che effettivamente hanno comunque una struttura sociale segmentata per confessioni politico-religiose, come l'Iraq ed il Libano, in questi giorni masse imponenti di cittadini (soprattutto giovani, e la questione demografica è strettamente connessa alla dinamica politica conservazione/innovazione) manifestano rompendo questi schemi identitari, e richiamandosi piuttosto ad un essere comune basato sulla eguale partecipazione, nell'avanzato Occidente si regredisca alla difesa identitaria più vaga (ed in realtà poco o nulla minacciata), sguarnendo completamente il fronte della difesa della identità più sensibile e reale, quella personale e digitale.

Sarebbe tempo di svegliarsi.

1 "Abbiamo invertito la rotta e navighiamo a ritroso. Abbiamo invertito la rotta e navighiamo a ritroso. Il futuro è finito alla gogna e il passato è stato spostato tra i crediti, rivalutato, a torto o a ragione, come spazio in cui le speranze non sono ancora screditate. Sono gli anni della retrotopia." Zygmunt Bauman, Retrotopia, Laterza.
2 Sulla inaffidabilità degli strumenti di controllo algoritmico, cfr. Out now! State Machines: Reflections and Actions at the Edge of Digital Citizenship, Finance, and Art.
3 Cfr. Washingtonpost.com.
4 Cfr. Amazon Joins Microsoft's Call for Rules on Facial Recognition.