Il 19 dicembre 2019, la Corte di Cassazione a sezioni unite penali emetteva una sentenza che non solo è destinata a suscitare forti reazioni di tipo contrapposto a livello politico e giuridico, ma rompe consolidati tabù circa la possibilità di accedere a forme controllate di consumo di canapa, anche previa coltivazione domestica destinata ad uso personale. In attesa di leggere le motivazioni che saranno pubblicate tra alcuni mesi, non resta che affidarsi allo stringato comunicato diffuso, come di consueto, al termine della camera di consiglio, che riporta il principio di diritto sotteso alla decisione adottata. Eccone il testo:

Il reato di coltivazione di stupefacente è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell'immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente; devono però ritenersi escluse in quanto non riconducibile all'ambito di applicazione della norma penale, le attività di coltivazione di minime dimensioni, svolte in forma domestica che per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell'ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all'uso personale del coltivatore.

Per capire l’importanza innovativa della pronuncia si ricorda che a norma dell’art. 1 del D.p.r. 5.06.1993, n. 171, era stato abrogato l’art. 72 del testo unico in materia di sostanze stupefacenti n. 309 del 1990, che puniva anche l’uso personale di sostanze stupefacenti, mentre restava vietata la coltivazione di canapa, ai sensi dell’art. 5 bis del successivo art. 73 bis, punita, nei casi di lieve entità, con la reclusione da uno a sei anni e con la pena pecuniaria da 3.000 a 26.000 euro.

C’era stato qualche precedente giurisprudenziale che metteva in evidenza la palese incongruenza di tale norma, come ad esempio l’ordinanza della Corte d’Appello di Brescia del 10 marzo 2015, che aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 75 del testo unico citato, nella parte in cui – secondo un consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità – non includeva tra le condotte punibili con sole sanzioni amministrative, ove finalizzate in via esclusiva all’uso personale della sostanza stupefacente, l’attività di coltivazione di piante di cannabis, anche quando non emergeva alcun elemento che consentisse di ritenere che lo stupefacente fosse destinato, in tutto o in parte, ad essere ceduto a terzi. Esisteva pertanto una netta disparità di trattamento tra la previsione di semplici sanzioni amministrative per acquisto e detenzione di modiche quantità di sostanze stupefacenti per uso personale, e quella di coltivazione con l’applicazione di sanzioni penali per la detenzione di medesime quantità ricavate da piante coltivate dallo steso detentore. In casi del genere, la coltivazione di piante di cannabis finalizzata al consumo personale, proprio perché non prodromica all’immissione della droga sul mercato, doveva intendersi radicalmente inidonea a ledere i beni giuridici protetti («combattere il mercato della droga, che mette in pericolo la salute pubblica, la sicurezza e l’ordine pubblico, nonché il normale sviluppo delle giovani generazioni». Corte di Cassazione sentenza 24 giugno-21 settembre 1998, n. 9973), e, dunque, inoffensiva. In questa prospettiva, la coltivazione per uso personale, proprio in quanto non finalizzata all’immissione della droga sul mercato, doveva ritenersi priva di qualsiasi offensività, con la conseguenza che la presunzione di pericolosità sottesa alla sua incriminazione risulterebbe del tutto irrazionale.

La Corte Costituzionale, tuttavia, con sentenza n. 109 del 2016, dichiarava infondata la questione di incostituzionalità sollevata dai giudici bresciani, sostenendo che la norma penale rifletteva la preoccupazione di evitare che la possibilità di coltivazione si traducesse in un fattore agevolativo della diffusione della droga tra la popolazione: fenomeno che – in assonanza con le indicazioni provenienti dalla normativa sovranazionale – è ritenuto meritevole di fermo contrasto a salvaguardia tanto della salute pubblica, «sempre più compromessa da tale diffusione», quanto della sicurezza e dell’ordine pubblico, «negativamente incisi vuoi dalle pulsioni criminogene indotte dalla tossicodipendenza […] vuoi dal prosperare intorno a tale fenomeno della criminalità organizzata […], nonché a fini di tutela delle giovani generazioni» (sentenza n. 333 del 1991)”.

La sentenza della Consulta non poteva non suscitare fondate perplessità. L’interpretazione contenuta in motivazione risentiva all’evidenza di un pregiudizio di tipo moralistico, («le pulsioni criminogene indotte dalla tossicodipendenza») e giungeva al paradosso di sospingere il consumatore ad acquistare, con condotta immune da sanzione penale, «la dose» destinata all’uso personale, dal pusher di strada, con la necessità di doversi rivolgere al mercato criminale e contribuire al conseguimento del suo profitto illecito (così agevolando «il prosperare intorno a tale fenomeno della criminalità organizzata»)! Quanto ai pericoli per la salute delle nuove generazioni, si ricorda che la droga “proibita” è sempre potenziata per stimolare le richieste del mercato; nel caso della canapa la concentrazione di THC può arrivare al 10-15% e quella dell’hashish sino al 40%. In sostanza, la repressione penale della coltivazione ad uso esclusivamente personale realizza una eterogenesi dei fini, in quanto finisce con l’aggravare i pericoli che intenderebbe scongiurare. La sentenza della Corte era inoltre in contrasto con la direttiva comunitaria che citava a sostegno.

Essa fa infatti riferimento alla decisione quadro UE n. 2004/757/GAI, la quale però, all’art. 2, secondo paragrafo, stabilisce: «Sono escluse dal campo di applicazione della presente decisione quadro le condotte descritte al paragrafo 1, se tenute dai loro autori soltanto ai fini del loro consumo personale quale definito dalle rispettive legislazioni nazionali». Nel primo paragrafo, lett. a), b), c) e d) sono indicati in dettaglio i reati connessi al traffico di stupefacenti e precursori, e, alla lett. b), è inserita «la coltura del papavero di oppio, della pianta di coca o della pianta di cannabis». Il rinvio alle legislazioni nazionali, nel caso del nostro paese, è soddisfatto dall’art. 80 del DPR 309/90, che esenta da responsabilità penale la detenzione di modiche quantità per uso personale, esenzione che la norma comunitaria estende, senza possibilità di equivoci, alla «coltura della pianta di cannabis». La sentenza concludeva con una considerazione, che sarà poi ripresa dalla Cassazione a sezioni unite nella sentenza del 30 maggio 2019, considerazione forse scontata, ma comunque utile per ricondurre la valutazione dell’ “offensività in concreto” della condotta al momento interpretativo ed applicativo di competenza esclusiva del giudice penale, cui spetta «verificare se la singola condotta di coltivazione non autorizzata, contestata all’agente, risulti assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico protetto e, dunque, in concreto inoffensiva, escludendone in tal caso la punibilità».

Canone interpretativo questo, recepito dalla sentenza della Cassazione sezione 3, n. 36037 del 2017, secondo la quale «quando non vi è alcun dubbio che la coltivazione, per le sue caratteristiche e per la sua assai modesta estensione, realizzata in maniera complessivamente rudimentale, fosse assolutamente poco estesa, e in ragione della peculiare destinazione dello stupefacente "in produzione", non era in grado, nel caso concreto, di recare alcuna lesione della salute pubblica, che in quanto costituente "la risultante della sommatoria della salute dei singoli individui" (così la citata sentenza n. 109 del 2016 della Corte Costituzionale), non avrebbe potuto essere concretamente vulnerata da una condotta destinata al consumo esclusivo di una sola persona; e, ancora, che alla descritta condotta non potesse essere ricondotta, per le medesime ragioni, una qualche idoneità a favorire la circolazione della droga e di alimentarne il mercato».

L’orientamento sopra riportato riceve con la sentenza a sezioni unite del 19 dicembre scorso, un autorevole avallo, nonostante le pretestuose polemiche che ne sono seguite. Essa, così come l’emendamento proposto dal senatore Mantero ed altri alla legge di bilancio, dichiarato inammissibile ma che si auspica possa formare oggetto di apposito disegno di legge, contribuiscono ad intaccare il monopolio mafioso della distribuzione della canapa e conseguentemente a ridurre i proventi del traffico di droga, divenuto ormai uno dei pericoli principali per l’economia e la stessa democrazia del nostro paese. Non sarà certo facile raggiungere un risultato siffatto. Le resistenze opposte dai titolari pubblici e privati delle rendite della proibizione saranno molto forti e punteranno a difendere l’attuale regime di proibizionismo senza se e senza ma, nonostante il clamoroso fallimento che tale regime ha conseguito nel contrasto alla diffusione della droga. Resta salvo ed intoccabile il monopolio che le mafie detengono nel traffico internazionale di droga, con il conseguente incalcolabile aumento dei proventi da esso assicurati, che, attraverso il riciclaggio drogano, è proprio il caso di dirlo, l’economia di mezzo mondo.