Pane e lavoro gridando e brandendo le lucide forti armi della fatica uomini, donne fanciulli esercito di pace dai dolci campi di Romagna qua trassero per restituire alla coltura, all’igiene a la civiltà nova la zolle che l’antica civiltà seminò di ruderi ed ignavia di principi e di prelati ed inerzia colpevole di governi a la malaria omicida abbandonò e pane e lavoro ebbero tutti e molti morte! E le ossa di questi biancheggiano qua e là al sole pei campi dissodati, seminati, fecondati…

(Andrea Costa)

Questa l’epigrafe che il romagnolo Andrea Costa, primo socialista a entrare nel parlamento italiano, dettò per ricordare l’epopea, ma anche il sacrificio dei braccianti ravennati, che dal 1884 scesero nell’Agro Romano per bonificarlo e renderlo produttivo. Erano tempi di pionierismo politico e cooperativo e i toni tardo romantici della lapide esprimono tutto l’ingenuo e partecipato fervore di un’impresa storica che pose Ravenna e tutta la Romagna al centro dell’attenzione nazionale ed europea.

Ma questo straordinario evento ci può e ci deve anche servire a riflettere sul significato e il ruolo attuale del movimento cooperativo, con il suo contraddittorio rapporto con l’economia di mercato e il vischioso e condizionate legame coi partiti politici.

Nell’aprile 1883, nel popolare e storico ravennate Borgo S. Rocco, 303 soci sancivano la nascita dell’Associazione Generale degli Operai Braccianti (AGOBR), evento, che, oltre alle motivazioni sociopolitiche, che affondavano le radici nelle mazziniane società di mutuo soccorso, molto diffuse in tutta la regione, fu stimolato anche da impellenti necessità pratiche. Erano infatti venute a ridursi o a mancare alcune fondamentali fonti di occupazione del mondo contadino, “in primis” la produzione risicola, che subiva la concorrenza asiatica e anche il mercato del frumento era in crisi per la concorrenza americana, il tutto favorito dallo sviluppo delle comunicazioni e dei trasporti. A questo bisogna aggiungere le negative congiunture meteorologiche che, fra l’altro, avevano portato a un disseccamento di parte della pineta, riducendo un’altra fonte di lavoro e sostentamento. Si era così creata una massa di braccianti disoccupati o sottoccupati in perenne balia di “caporali” senza scrupoli e parallelamente un clima di malcontento e di fermento politico che preoccupava anche le autorità locali e nazionali.

L’AGOBR era dunque una necessità, ma la sua grande novità fu che si trattava della prima vera associazione cooperativa, perché si assunse, sotto la spinta dei suoi fondatori-ideatori Armando Armuzzi e Nullo Baldini, il compito di “assumere per conto proprio tutti i lavori di scavo e sterro che verranno deliberati all’asta del nostro comune” e a questo scopo si costituiva un fondo sociale a cui l’Associazione poteva attingere per partecipare agli appalti stessi. Si sottolineava, inoltre, che la cooperativa aveva come “scopo esclusivo di cercare nell’indipendenza del nostro lavoro un sollievo alla vita di stenti delle nostre famiglie, noi ci manterremo assolutamente estranei ad ogni altra questione e soprattutto non ci lasceremo distrarre da preoccupazioni politiche…”.

I fondatori, pur di estrazione prevalentemente socialista, avevano dunque scelto la via di un riformismo empirico che teneva conto, sia del fatto che, storicamente, l’associazionismo mazziniano e il partito repubblicano avevano largo seguito nel ravennate e quindi sarebbe stato controproducente un atteggiamento massimalista, sia dell’esigenza di offrire un lavoro immediato, che non avrebbe potuto facilmente ottenersi senza la collaborazione con le istituzioni e i privati.

È chiaro che in questo contesto sorsero i primi contrasti ideologici perché l’ala “rivoluzionaria” del partito socialista, almeno in linea teorica, mai avrebbe potuto accettare una linea socialdemocratica di questo genere, e qui intervenne tutta la saggezza e la capacità mediatoria di Andrea Costa, nume tutelare di tutta l’operazione e, soprattutto, della successiva impresa dell’Agro Romano. Forte del suo passato anarchico e del suo prestigio morale e politico, riuscì a tessere una serie di rapporti ed eroici compromessi (ottenne l’appoggio anche dal primo ministro Depretis) che riuscirono, almeno in parte, ad evitare uno scontro ideologico dirompente.

Il plauso delle autorità e di una parte dei privati, soddisfatti del fatto che le nuove fonti di occupazione avrebbero allentato le tensioni sociali e le derive “estremiste”, ebbe la sua scenografica rappresentazione al momento della partenza, nel novembre 1884, per la grande opera di bonifica dei terreni paludosi laziali, come era stato deciso dall’Associazione, consapevole che si avvicinava una stagione invernale poco propizia ai lavori agricoli e che non si erano ancora raccolti i capitali per partecipare fruttuosamente agli appalti.

Una folla festante accompagnò, lungo i viali della stazione, i 400 braccianti, che “a passo di marcia soldatesco, tutti armati di due o tre paletti, tutti in buon arnese, con provviste di cibarie e di vestiario” si avviavano a salire sulle loro “lussuose” carrozze di terza classe (ottenute al posto dei carri merci solitamente riservati ai gruppi di “campagnoli”) e nel piazzale erano ad attenderli e salutarli prefetto, sindaco, la giunta al completo, due bande musicali e, naturalmente, l’on. Andrea Costa.