L'italia al tempo dei populismi di Carmelo Conte si distingue dalle altre pubblicazioni sul tema del fenomeno politico-sociale-culturale del "populismo" quale trattazione che coniuga equilibrio, lucidità ad ampiezza di visione. Non è un saggio per soli esperti o "addetti ai lavori" ma narrazione condivisibile e partecipabile dal grande pubblico e nel contempo ci regala ricchezza di dati, analisi, informazioni e ricostruzioni interpretative oggi quanto mai preziose e utili per cercare di comprendere i processi in atto e i temi decisivi per il nostro futuro.

Un profilo ermeneutico che attraversa differenti dimensioni e logiche: da quella linguistica e massiva agli aspetti più di cultura politica, dalle dinamiche partitiche fino alle origini storiche, lontane e più recenti di tali tendenze e alla delineazione di modelli di sviluppo per il futuro. Un libro quindi prezioso, anche in senso dialettico, in quanto arricchisce e suscita un dibattito pubblico che non deve mancare in una fase storica di grandi decisioni e trasformazioni. Senza discussione e dibattito la democrazia soffre e si svuota di sostanza. Questa urgenza interpella tutti, al di là delle personali opinioni e propensioni elettorali, tanto più in un periodo storico in cui il "tempo del web" sembra appiattire e dis-incarnare ogni percezione in una massa di pulviscolo inconsistente di chiacchere, like, emotività inconcludente e opinioni ondivaghe e camaleontiche.

La chiarezza e la precisione delle convinzioni e dei ragionamenti di Carmelo Conte e la sua capacità di offrire sempre motivazioni coerenti e ragioni alle tesi e alle analisi proposte coinvolge e responsabilizza chi ha la fortuna di leggerlo. Ma per meglio comprendere questa visione occorre dialogare direttamente con il suo autore.

Ho trovato il suo libro molto interessante, sotto differenti profili, e anche estremamente educativo e formativo in quanto assume una prospettiva storica dal 1989 ad oggi e verso il futuro, e una visione non solo italiana ma pure europea e internazionale per trattare del delicato tema dell'Italia e del populismo. O per meglio dire: "dei populismi”?

Sul futuro possibile, trovo convincente la tesi di Jacque Attali, secondo la quale nella storia sono coesistiti e coesistono tuttora, sia pure in forme diverse, tre poteri: quello religioso, che fissa il tempo della preghiera e determina l’accesso alla vita futura; quello militare (lo Stato), che organizza la difesa e la conquista; quello mercantile, che produce e commercializza i frutti del lavoro. Ognuno di questi poteri amministra il tempo dell’uomo ma, come insegna la storia, quando uno di essi prevale sugli altri due si scatenano sussulti sociale e istituzionali: ribellioni, dittature, colpi di Stato. Nel nostro tempo domina il mercato che, non essendo stato temperato e governato politicamente, ha determinato da un lato progresso e innovazione e, dall’altro, malessere e involuzioni sociali, di cui il populismo è un’espressione involutiva. In Italia ha assunto caratteristiche atipiche e più preoccupanti perché improntato all’antieuropeismo. E da qui bisogna partire per assumere le contromisure che devono essere politiche prima che economiche.

Non le sembra un termine di non facile utilizzo in quanto pare presentare rischi di ambiguità e polisemanticità? Nel suo libro propone molte interessanti definizioni, anche culturali, di questo concetto. Ispirato da lei ne aggiungo anch'io una: "processo di autoidentificazione simbolico-mediatica di una parte con l'intera società-nazione". Le piace? Può essere corretto?

Sì, il populismo è un fenomeno ambiguo, non definibile una volta per tutte. Esprime il no al sistema democratico ed è una componente essenziale di quelli autoritari, perché, come sostiene Hegel, il popolo senza un capo è un nulla. Nega l’Io in nome del “noi”, salvo a privare il popolo dell’intersoggettività per intestarne la rappresentanza a un capo (Salvini) o a un algoritmo (la piattaforma Rousseau). Il termine ha origini storiche lontane ed ha assunto, volta a volta, significati diversi: nell’antica Atene, nella Romanità, nelle dittature come la Germania nazista, l’Italia fascista, la Russia stalinista e nelle democrazie evolute, come Usa e Ue. Pretende, in ogni dove, di fare del popolo, di tutto il popolo, il proprio polo. Per molti versi quello in atto ha caratteri internazionali e somiglia, alla lontana, al ’68. Come quello fu mondiale e liberatorio tanto questo è mondiale e reazionario, di cui è interprete esemplare Trump che, non a caso, molti definiscono il primo presidente bianco degli Usa.

Ho apprezzato anche lo spazio da lei riservato all'importanza decisiva della comunicazione e dei linguaggi di massa nella società politica ed economica. Lei parla del rischio che i fatti siano sostituiti dalle immagini.

La semplificazione della comunicazione è connessa alla velocità impressa dalla modernità a decidere e a scegliere in tempo reale. È funzionale a rendere vero e interessante, a prescindere dalla realtà, un racconto per la massa, non della massa, e di fare apparire uno scontro di idee quello che è solo uno scontro di storie più o meno vere. In tal modo diventano fatti, senza repliche contestuali, le contestazioni mosse agli avversari/nemici. La prevalenza della realtà mediatica sulla realtà è particolarmente preoccupante in Italia, perché predominante ed egemone: le forze populiste sono al Governo e all’opposizione, in RAI e in Mediaset e su Internet, con diramazioni e influenze provenienti dall’occidente democratico e dall’Est e dall’oriente.

I pericoli che lei analizza in profondità emergono sempre in maggiore evidenza ma non le sembra che tali rischi di semplificazione propagandistica e di debolezza dei programmi e dei progetti politici siano in parte endemici, fisiologici (purtroppo) all'interno di una società di massa sempre più globale, veloce, tecnologica e digitale?

Non vi è dubbio che il sistema dell’informazione proceda per archetipi (la parola, l’immagine, il comunicatore), e ciò gli consente di usare gli stessi mezzi tecnologici e di comunicazione del mercato ovvero di oscurare i contenuti ed esaltare l’apparenza. Sarebbe questo il primo compito che dovrebbe svolgere la politica, intesa come arte di governare, ovvero elaborare e imporre progetti rigorosi e qualificati. Una capacità che ha perduto non solo per responsabilità delle classi dirigenti, ma anche dei cittadini che, a fronte della crisi dei partiti, hanno protestato al vento, dando inconsapevolmente campo libero ai potentati finanziari. È stato un grave errore confondere, a cominciare dall’alba degli anni Novanta, i partiti con la partitocrazia e la loro degenerazione. Bisogna, perciò, trovare nuove forme di organizzazione della società civile, professare un nuovo credo, il credo dei territori, dei bisogni e dei meriti: non quello dell’anonimato della folla né quello delle multinazionali. Queste ultime vanno rispettate per il ruolo che svolgono in economia e non subite come mantra globali che digitano e archiviano, a velocità istantanea, il sociale come un prodotto di basso consumo. Il nodo dirimente non sta, comunque, nei mezzi usati ma nel rendere residuale la ricaduta sociale della globalizzazione.

Gli attuali populismi sembrano oggi assumere connotazioni più specifiche che nel recente passato. Penso da una parte al peso sempre più intenso della geopolitica e dall'altro l'uso spregiudicato dei social e il commento politico quasi quotidiano a fatti di cronaca, che rischiano di dare informazioni caotiche, dispersive, e sempre più conflittuali.

Il populismo prende sempre forme diverse, a seconda dei tempi e dei luoghi in cui si manifesta. In questa fase si connota con riferimento alle tendenze globali che contesta, in linea di principio, ma subisce se non accetta, in punto di fatto. Vale a dire che anziché studiarne la portata, intercettarle e tentare di governarle, l’avversa, alzando la bandiera del popolo, del territorio, di una lingua, di un’appartenenza, del noi contro di loro. Strumentalizzando il motto di Abraham Lincoln “il sentimento pubblico è tutto”, trasforma il dibattito politico in cronaca, appelli, denunzie, slogan rivendicativi, conflittuali o razzisti. Una deriva in cui si confondono e contraddicono tre forme di populismo: quello sociale che sostiene l’equa distribuzione dei risultati del progresso; quello identitario che pone il problema delle frontiere, dell’emigrazione e della razza; quello sovranista che postula l’autoritarismo centrale.

Come invertire la tendenza a livello di progettualità politica? E perché ritiene il Mezzogiorno un asse strategico, anche a livello europeo?

La modernità sembra accreditare il trionfo dell’individualismo e del denaro sulle ideologie, la cultura, l’ambiente e l’economia reale, che appare inesorabile perché gli si contrappongono solo alleanze di Stati, religioni, territori, sovranismi, che sono rimedi peggiori del male. Per costruire la democrazia “dopo la democrazia”, bisognerebbe, invece, rifuggire dal populismo facendo emergere valori di altruismo e di solidarietà, ovvero un nuovo “infinito” di libertà. In questa prospettiva è determinante la funzione che possono svolgere le grandi potenze continentali, e tra queste l’Europa che potrebbe recitare un ruolo storico se, dopo l’espansione verso l’Est, si completasse a Ovest, nell’area del Mediterraneo, luogo di incrocio ancora attuale dello sviluppo internazionale. Scelta che renderebbe centrale il Mezzogiorno d’Italia che, anziché inseguirne il modello del Nord nel segno della cosiddetta “quasità”, potrebbe recitare un ruolo di traino dell’Italia del nuovo secolo.

Un altro scenario fondamentale è da lei individuato e più volte sottolineato lo si trova nei grandi temi della ricerca, dell'istruzione e degli investimenti pubblici di sviluppo.

La tecnologia, un tempo dominata dalla filosofia, ha, oggi, una preminenza strutturale e possibilità di crescita inimmaginabili e comunque tali da poterne prevedere l’applicazione non solo al sistema produttivo e delle comunicazioni, ma anche alla conoscenza: per farne una “mente unica” oltre l’umano, in cui pulsino e vivano tutte le possibilità scientifiche e di governo del mondo. Quindi è sulla conoscenza, intesa come “un nuovo dio dell’universo”, che bisogna investire, unificando e insieme diversificando studi, didattica, ricerca e sperimentazione. A partire dai primi livelli di apprendimento fino agli estremi della sperimentazione umana, in cui il nodo è il collegamento tra l’intelligenza biologica e l’intelligenza artificiale. La conoscenza è un’impresa che produce conoscenza ovvero nuova vita.

Nel suo libro si citano anche situazioni mondiali ed europee che stanno all'origine di un malessere e di un disagio sociale, culturale ed economico in relazione al quale i populismi tentano di proporsi quali soluzioni. Mi sembra un tema centrale ed essenziale, da altri poco o male trattato. Ci può sintetizzare questo importante aspetto processuale e causale?

I populismi sono una malattia della democrazia, quindi non una soluzione ma il problema, una derivazione degenerata della globalizzazione ovvero la sua ricaduta velenosa sul versante sociale. Non sono fatti di sognatori e di ideatori di società egualitarie, ma di portatori di rancore sociale, indifferenti se non avversi rispetto alla struttura del potere istituzione quanto servizievoli verso potenti del mondo come Trump e Putin. Pretendono di declinare la società, i territori e le istituzioni dal punto di vista del popolo come massa informe ovvero globale, mentre occorre fare esattamente il contrario. La globalizzazione si deve fronteggiare e integrare dal punto di vista locale dando luogo a una sintesi: il glocale. Anche perché le nuove tecnologie consentono di disporre dello spazio e del tempo senza i limiti del passato.