Poche ore prima che scoccasse la primavera, la quale porge i rami di pesco fioriti qualunque sia la sciagura del momento, e oggi ne abbiamo una addosso che ci lascia interdetti, nel carcere di New Delhi sono stati impiccati i tre uomini riconosciuti colpevoli dello stupro di Jyoti Singh. I giornalisti la chiamarono Nirbhaya. Ventitré anni, studiava fisioterapia, la violentarono mentre tornava in autobus dal cinema e morì dopo diciassette giorni in un ospedale di Singapore dove l’avevano trasferita dalla capitale indiana: i medici spiegarono che le lesioni agli organi vitali erano il risultato di sevizie indescrivibili. L’amico che tentò di proteggerla fu ferito. Secondo la sua testimonianza il capo banda era l’autista Ram Singh, 34 anni, in seguito suicida nella prigione (ma alcuni sospettano l’omicidio), con lui il fratello Mukesh, 32 anni, Vinay Sharma, 26 anni, assistente istruttore di palestra, e Pawan Gupta venditore di frutta ai mercati. La sentenza di morte fu pronunciata nel 2013 e confermata dalla Corte suprema nel 2017.

Era il 12 dicembre del 2012 quando Nirbhaya fu massacrata.

Tempo dopo, si trovava da quelle parti per un progetto dell’associazione Vivere con lentezza sulle donne negli slum, Ivan Sarfatti, un fotografo con la sensazione che i maschi abbiano poco da dire. Sostiene che, viaggiando in Vietnam, in India, in Asia in generale: “Vien da pensare che la donna possa davvero cambiare il mondo.”.

“Questo calvario è durato 8 anni, ma Nirbhaya ha ottenuto giustizia – ha commentato il 20 marzo Asha Devi, la madre della studentessa - Tutte le donne e i bambini dell'India hanno ottenuto giustizia e ora l'anima di mia figlia riposerà in pace. Ho iniziato questa battaglia per lei, ma continuerò a combattere per tutti”.

Per noi è orribile pensare che la visione troglodita degli assassini penzolanti da una forca rassereni lo spirito, ma non è questo il tema che affrontiamo con Ivan Sarfatti all’indomani dell’esecuzione che chiude la vicenda: “Prendendo spunto dalla notizia tragica di Nirbhaya ho cercato di raccontare la donna indiana attraverso le attività che la potessero emancipare. Fino a conoscere la famiglia della ragazza”.

Sarfatti, milanese, ha iniziato a scattare nell’azienda di illuminazione Luceplan, è cresciuto con MSC Crociere e a un certo punto, nel 2013, ha scoperto l’agenzia Parallelo Zero è ha fatto il primo workshop con Sergio Ramazzotti. Data la frequentazione professionale con le navi si è cimentato subito da fotogiornalista raccontando per immagini il personale che lavora sei o sette anni in mare per avviare, racimolati i denari, un’attività nel paese di origine; poi ha puntato l’obbiettivo sul gioco d’azzardo nella nostra penisola e sulla guerra in lontananza delle donne ucraine che dall’Italia “combattevano” perché i loro figli combattevano lassù. È finito anche sulla copertina di Io Donna del Corriere della Sera.

Il fotogiornalismo?

Questo mestiere mi ha messo in una condizione diversa nei confronti delle persone e dei luoghi. Non avere l’ottica del turista ma essere nell’intimità dei Paesi mi piace moltissimo. Sono stato due o tre volte in Rajasthan e non ho mai visto il Taj Mahal. Mi porto l’illusione di dare una voce a chi non ce l’ha. L’illusione... Per spiegare il momento in cui facciamo le foto, cito La lista di Schindler, il film di Spielberg. Schindler prende un foglio dove ci sono i nomi degli ebrei che potranno essere salvati: il foglio ha un perimetro e al di fuori di quel perimetro c’è un altro mondo. La foto ha confini precisi e se io avessi spostato la macchina di un centimetro avrei trovato un altro mondo.

L’incontro con i genitori di Nirbhaya?

Una delle esperienze più intense che abbia mai vissuto. Non è stato facile raggiungerli nell’allucinante situazione che vivono. Alla periferia di Delhi, in slum ora bonificati, hanno edificato palazzi. L’indirizzo è fatto di lettere e numeri: settore A palazzo C30, non c’è altro da aggiungere, no? Un ingressino, un piccolo soggiorno di due metri per tre, la stanza loro, la stanza di Nirbhaya e del fratello e una mini cucina. Io sono entrato nella stanza di lei, come l’aveva lasciata. Vedevo nei loro occhi quanto la vita fosse finita. La ragazza aveva la missione di emancipare la famiglia. Con la sua morte è crollato tutto.

Come sono?

Ospitali, avevano appena registrato un video per la CCN o un’altra emittente degli Stati Uniti. Gentili, accoglienti. Hanno detto qualche cosa su quello che faceva la figlia. L’incontro non è stato particolarmente lungo: sono persone schive, introverse, ma trovavano una catarsi nel raccontare e un megafono per parlare l’ingiustizia che hanno subito. Una possibilità in più per testimoniare la loro terribile vicenda.

Sei severo con gli uomini dell’Asia, forse con gli uomini tout court.

Non voglio fare di ogni erba un fascio, ma trovo le donne più belle degli uomini interiormente. Sono una fonte di energia propositiva: molto attive, molto presenti, concentrate su quello che si può fare. Lo racconta, in modo estremo, la foto con l’agente che dorme. Per certi versi non siamo lontani da come è ancora oggi in alcune regioni italiane. La ragazza è un’operatrice sociale, quello è poliziotto e il diverso impegno ti fa capire il rapporto uomo e donna in India. La ragazza musulmana si è lasciata fotografare a patto che non si vedesse il volto. Un’ora prima stava per ammazzarsi, ed è stata dissuasa dalla chiamata di un’amica. Era incinta dell’amante quindi respinta sia dalla famiglia di origine che da quella della relazione non ufficiale.

Nel reportage indiano, che hai intitolato Women Empowerment, spicca la foto di un’arma.

Sì, la pistola è l’emblema della storia che ho voluto narrare. Ha un’ergonomia diversa, un peso leggermente diverso. Progettata per essere impugnata da una mano femminile, è stata chiamata con il nome della ragazza uccisa. Ho incontrato e fotografato Binalakshmi Nepram, 39 anni, fondatrice del The Manipur Women Gun Survivors Network, una donna incredibile che lotta contro le armi in India ed è furibonda per questa roba della pistola ‘di genere’.

Altre tue foto che sintetizzano la condizione femminile indiana?

Quella delle donne incinte durante l’ecografia. Il risultato dell’esame viene tenuto segreto, perché se il feto fosse una femmina, molto probabilmente la madre verrebbe costretta ad abortire.

Significativa anche la foto degli allenamenti alla Jain Balika Girls School di Udaipur dove le ragazze, seppure con qualche timidezza, imparano le arti marziali. Il Rajasthan è il primo stato indiano ad aver introdotto le arti marziali come difesa ed emancipazione della donna.

Questa immagine è arrivata fra le prime trenta, su 750 in lizza, al festival di fotografia etica di Lodi nel 2019. Un evento di fotogiornalismo che, a dieci anni dalla fondazione, incomincia ad avere un suo peso.

E quella sull’autobus. Una situazione da terrore.

Parliamo ancora dell’illusione di essere utile scattando foto.

Lo faccio con una citazione. All’indomani di un servizio fotogiornalistico in Afghanistan, nella zona di spaccio della droga a Kabul, Sergio Ramazzotti ha dichiarato: ‘Ho fatto questo reportage. Cambia il mondo? Non credo, poi però, magari c’è andato qualcun altro e qualcun altro e alla fine...’.

Sarfatti è un cognome che rimanda alla critica d’arte Margherita. Parenti?

Cesare Sarfatti, il marito di Margherita, aveva un fratello che era il papà di mio nonno. Prima della storia con il duce, Margherita aveva portato le Avanguardie artistiche in Italia. Di famiglia ebrea, poi è dovuta scappare in Argentina per le leggi razziali...