So bene che la città non sarebbe ugualmente in grado di sbrigare gli affari di tutti i postulanti qualunque somma di argento o di oro uno offrisse.

(Anonimo Ateniese, La democrazia come violenza)

Il capitale stesso si svia dal suo vero scopo economico, s’immobilizza in parte nelle mani di pochi invece di spandersi tutto nella circolazione, si dirige verso la produzione di oggetti superflui, di lusso, di bisogni fittizi, invece di concentrarsi nella produzione di oggetti di prima necessità per la vita, o si avventura in pericolose e spesso immorali speculazioni.

(Giuseppe Mazzini, I Doveri degli Italiani)

La recente riedizione del celebre volume La fine della storia e l’ultimo uomo di Francis Fukuyama (1992) riapre la discussione sul tema, culturale e filosofico prima che politico, del presunto trionfo della democrazia liberale e dei suoi valori e, quindi, della (quasi) fine della storia, almeno come l’abbiamo conosciuta fino ad ora. La tesi di Fukuyama appare semplice, suggestiva e a suo modo coerente. Parte da un postulato kantiano e illuminista, cioè la storia quale crescita ottimistica, lineare e progressiva verso un’Idea e un Ideale universale, per tornare ad analizzare gli ultimi due secoli, e specie il Novecento, al fine di dimostrare come solo il modello democratico-liberale ha rappresentato una tendenza storica mondiale e invincibile.

L’analisi di Fukuyama sulla debolezza e temporaneità delle dittature sudamericane e asiatiche viene posta a conferma postuma di questa tesi dogmatica. L’idea di Fukuyama appare comunque molto attuale e meritevole di una nuova discussione.

Quello che oggi sta accadendo tra guerre di dazi, Brexit, epidemie di panico a fronte di epidemie reali, crolli finanziari e bancocrazia, rappresenta una fase temporanea di crisi del Liberalismo, magari una fase di metamorfosi del medesimo pensiero-sistema, oppure ne segna un lungo e inarrestabile declino, pur in assenza di un altro modello globale alternativo? Riflettere su di una filosofia politica mondiale, globale, tanto di massa quanto elitaria, apre il ragionamento ad altre dimensioni. Nessun pensiero e nessun sistema infatti può autofondarsi. Quello che non approfondisce Fukuyama, pur accennandone, è il fatto che la matrice del Liberalismo è da invenirsi nella teologia e nella filosofia cattolica tradizionale.

Pensatori e scrittori cattolici come San Paolo, Agostino, Tommaso d’Aquino e, prima di tutti, Severino Boezio, a cui si deve la prima teorizzazione del concetto di “persona” quale “sostanza individua circoscritta” e, in quanto tale, sede di diritti e di libertà innate, crearono una cultura diffusa, che traslò in parte nel protestantesimo e nell’Illuminismo, che portò alla nascita dell’idea di un “diritto naturale” e di un “diritto delle genti”, cioè internazionale, ponendo i pilastri di quella modernità di cui il Liberalismo si fece ideologico paladino. Fukuyama onestamente riconosce che l’idea stessa di una “fine della storia” deriva dalla teologia cristiana, dall’idea di Apocalisse, che delimita il tempo dell’uomo fra un alfa e un omega. Pensiero inconcepibile nella dimensione ciclica propria del pensiero greco.

Il politologo giapponese sorvola però su una delle questioni più cruciali, cioè sul fatto che il fine, il telos, la “causa finale” aristotelica, appare inscindibilmente associata al simile tema della “fine” di un pensiero, di un’idea, di un processo storico. Emerge quindi un primo paradosso del Liberalismo quale pensiero universale invincibile nella storia: una volta “liberalizzato” tutto il mondo potrà ancora parlarsi di Liberalismo? Potrà ancora riconoscersi e distinguersi un pensiero-sistema liberale rispetto ad una mera conservazione dello status quo, dell’assetto fattuale di potere esistente? Il trionfo del Liberalismo non coinciderà con la sua conclusione definitiva? La “saturazione” liberale del mondo non esaurirà il Liberalismo quale pensiero critico e strategico? L’assenza di nemici, implosa magari anche la Cina e la Russia patriottica attuale e imploso pure l’Islam politico tra mille rivoli di fazioni rivali, non trasformerà il Liberalismo in un nuovo conservatorismo reazionario ante 1789?

Questo ragionamento svela la natura ideologica e intellettuale del Liberalismo il quale se viene privato del suo finalismo moralistico si riduce ad una mera gestione situazionista della politica tramite l’economia. E qui emerge un altro paradosso e limite del Liberalismo stesso, dato dal suo sostanziale materialismo. Similmente al marxismo, ma privo di un reale e simile spirito critico, il Liberalismo può essere apprezzato quale forma di messianismo laico, di utopismo razionalistico, fondato sul primato di una ragione desacralizzata, tecnocratica e sul primato dell’economia su tutte le altre dimensioni esistenziali e sociali. È anche per questo che tale pensiero non riesce e non può autotrascendersi e, quindi, conquistato il mondo, si trova in una condizione di naturale suicidio.

Mentre il marxismo, anch’esso utopismo totalizzante, conservava una forma ideale ulteriore data dalla realizzazione di ideali di giustizia e di armonica autogestione, il liberalismo apparendo del tutto concentrato sul mito del benessere materiale e della libera concorrenza, appare un pensiero alla “Sisifo” cioè stagnante, fermo sempre “agli inizi”, cioè non in grado di superare la “meccanica del desiderio” su cui di fonda. Un pensiero adolescenziale, perché limitato sempre ad una dimensione aurorale, come tutti i pensieri utopistici. Perché regga la società liberale occorre che sia socialmente diffuso il desiderio di guadagno, di riscatto sociale, di crescita nella scala dei livelli economici. Tutti obiettivi intrinsecamente non progredibili all’infinito, né partecipabili oltre un certo limite. Emerge allora un terzo paradosso e un terzo lato oscuro di tale pensiero: oggi il nostro modello democratico occidentale non riesce più a garantire né la crescita dei diritti o almeno la loro difesa, né il benessere materiale. Forse proprio per questo tale modello appare oggi sbilanciato sul consumo e sull’intrattenimento di massa, quale ultima e unica forma di democrazia possibile.

Questo approccio permette di comprendere il Liberalismo quale forma di kantismo estremo, privo di ogni reale spiritualità, privo delle forme di “trascendenza immanente” proprie del pensiero di Hegel. “L’aver un fine” che non superi la storia economica si rivela autoimposizione di uno stile di potere, mera cifra egemonica. Il “fine” presuppone una meta-storia, una dimensione metafisica, spirituale, verticale, che è proprio però l’orizzonte che il Liberalismo si prefisse e si prefigge di annullare e far dimenticare. L’autoidentificazione di un potere con un’idea astratta e assolutizzante di libertà e di umanità quale singolarità individuale; ecco un'altra modalità neutra e tecnica di riconoscibilità di ogni forma di ideologia liberale.

Carmelo Conte condivide con me la mia definizione di “populismo” quale “autoidentificazione demagogica di una parte con il tutto”. Ma è appunto questo il problema: il conflitto tra l’anima elitaria e l’anima massiva del Liberalismo. Fukuyama non si muove dalla definizione formale ed elettorale del sistema demoliberale ma anche in questo contesto non possiamo negare un altro sguardo, dato dal valutare il mito assoluto della “libera concorrenza” socio-politico-economica, dogma liberale, quale forma di controllo sociale tramite il mantenere una costante conflittualità sociale. Giuseppe Mazzini nel 1860, ancora in pieno Risorgimento, in un Risorgimento in corso, ancora non completato, scrisse un testo attualissimo e formidabile: I Doveri degli Italiani. Testo non a caso fatto dimenticare, imbarazzante. Mazzini si accorse del tradimento etico e sociale perpetuato dall’élite borghese italiana rispetto agli ideali del Risorgimento. Il profeta dell’Italia unita e libera, della sovranità popolare, comprese, prima e meglio di altri, come l’anima elitaria e capitalista del Liberalismo aveva bypassato ogni visione etica e sociale per lasciare l’Italia in balìa di nuovi particolarismi ed egoismi settari ed economici. Aveva già capito che l’Idea della libertà e dell’individualismo era un’idea suicida e dissolutiva di ogni comunità senza un’etica dei doveri, dell’autodisciplina e degli ideali.

Ma l’essenza del Liberalismo è proprio la dissoluzione di ogni etica, di ogni vincolo che condizioni l’assoluta libertà del singolo e delle dinamiche economiche. L’anima del Liberalismo è stirneriana, è “l’unico” di Stirner che ha come assoluto solo se stesso e i propri impulsi immediati. Non sono le stesse elezioni una sorta di “guerra civile controllata”?

Mazzini già vedeva la nuova Italia distrutta dalle partigianerie politiche, dal lobbismo economico. Non a caso rivaluta l’idea dell’associazionismo operaio, in una sorta di versione laica del corporativismo tradizionale. Non a caso rilancia un’etica della produzione, una gradualità della crescita e l’idea della società quale comunità organica. Tutte dimensioni spazzate via dal Liberalismo del secondo Novecento, specie dopo il 1989, che rappresenta l’emergere dell’illusione occidentalista della sparizione definitiva di ogni pensiero critico e alternativo. Più che dell’apparente trionfo del Liberalismo Fukuyama si fa inconsapevole profeta dell’omologazione del pensiero, dell’annullamento di ogni limite critico e di ogni forza di bilanciamento del puro potere elitario. In una società di massa infatti quale forza sociale può competere con il sistema di distribuzione dell’informazione e del denaro circolante?

Essendo questi due poteri di assetto elitario (banche e mass media) come può il singolo, in una società di singoli solitari, avere la forza di poter criticare scelte di potere di cui non sa quasi nulla e che spesso ignora? Il Liberalismo quale “ultima dialettica” tende allora ad annullare ogni altra dialettica, rivelando un volto tirannico e paradossalmente illiberale! Nella società del consumo e dello scambio restano solo i diritti, apparenti e spesso inutili, al consumo e al “muoversi”. Il Liberalismo allora per sua natura non può che produrre conflittualità permanente tra chi non ha ancora raggiunto un alto grado di benessere materiale. Se poi gli unici valori sono valori di consumo e di fluidità allora la massificazione non può che facilitare un processo di decadimento morale sempre più incontrollabile. La tensione allora sarà solo fra la base e il vertice della piramide sociale. Verso il basso dominerà un processo di tribalizzazione e verso l’alto un processo opposto e complementare di elitarizzazione.

La libera concorrenza quale dogma globale porta alla società emotiva e irrazionale di massa, pericolosa per lo stesso vertice liberale, porta alla desertificazione sociale. L’assenza di visione spirituale propria di tale mentalità sociale induce a non comprendere i bisogni più profondi dell’umanità, facilita il credere nell’illusione di “liberalizzare” tutto tutti, all’aberrazione di vedere in ogni spessore culturale e identità spirituale un pericoloso nemico, favorendo così un processo devastante di involuzione antropologica che tra breve rischia di divenire incrollabile. Una massa di ignoranti ignorerà infatti anche i dogmi del Liberalismo stesso e lo seppellirà. Senza una reale partecipazione valoriale e politica, allontanati i miraggi di guadagno economico, indebolito il tessuto sociale, il sistema rischia di implodere, per “eccesso di libertà” inutili e carenza di etica e di spiritualità. Come si può superare tutto restando se stessi?

Senza più nemici il Liberalismo ha ora come nemico se stesso e l’astrattezza dei suoi irrealizzabili falsi miti e illusioni. Un ultimo paradosso-limite lo indebolisce e ne impedisce una crescita coerente: l’aver reciso la sua matrice cristiana d’origine. La natura “buona”, cioè ottimistica, democratica e progressiva, del Liberalismo presuppone una connessione con la tradizione cristiana. Possiamo dire che il Liberalismo non può avere slancio ideale senza la linfa cristiana, ponendosi come una laicizzazione massiva di idee e ideali di origine cristiana, pur teorizzati storicamente tramite un filtro di natura protestante. Il Liberalismo attuale invece conduce una battaglia massmediale e politica tale da voler superare il ricordo stesso di ogni filosofia cristiana. Resisterà la democrazia liberale alla recisione delle sue radici cristiane?

Oggi la realtà stessa nega uno dei dogmi fondamentali del Liberalismo: l’assenza di frontiere. Epidemie e conseguente panico mediatico, pesanti dazi commerciali, nuove tensioni militari, emergenti nazionalismi, il fenomeno “Brexit”, tutto oggi sembra concorrere a sconfessare nei fatti qualsiasi idealità condivisibile socialmente, mito dell’assenza di frontiere inclusa. Mito già debole in se stesso in quanto, come ricorda Aristotele, “nessun corpo è infinito” e quindi “l’assenza di confini” produce un’illusoria assenza di coscienza e di stimolo etico. Senza un corpo sociale può esserci una coscienza?

Difficile condividere ancora l’ingenuo ottimismo di Fukuyama, allora, nel 1992, motivato dal crollo dell’Urss. Certamente è ancora interessante oggi questa sua celebre pubblicazione ma in un senso differente, cioè quale occasione per chiedersi quale finalità abbia l’attuale modello democratico e se esista ancora una visione valoriale d’insieme che regga le attuali società. Come appare interessante chiedersi se sia solo la paura e una certa forza d’inerzia a mantenere questo sistema sociale, così fragile che bastano poche centinaia di contagiati per desertificare e militarizzare l’esistenza.

Duemilacinquecento anni fa un colto ateniese che rimase anonimo, probabilmente filospartano, scrisse un testo che smascherava la natura ideologica e tirannica dell’idea democratica, capendo molte cose del denaro similmente alle intuizioni di Mazzini. Certo la democrazia di Pericle era riservata solo a una piccola parte della popolazione e non era una democrazia moderna ma il ragionamento dell’antico ateniese appare oggi sorprendentemente attuale. Si parla di una democrazia che si rivela in sostanza demagogia, cioè mera abilità nel muovere la massa per farla assecondare interessi elitari. Una “democrazia quale violenza” che ricorda l’aforisma di Oscar Wilde. Una democrazia quale “tirannia del denaro”. Non è un caso che la critica anticapitalistica dell’antico ateniese e di Mazzini sia simile anche nel mettere al centro il tema decisivo del denaro quale nuova religione, quale tecnica principale di controllo sociale e di gestione del potere. Un fattore che né Kant e né Marx capirono fino in fondo, né potevano prevedere al loro tempo, quando la crescita della produzione e del commercio sembrava essere la prossima panacea mondiale. Il denaro quale unico “assoluto democratico” che residua. Un assoluto che relativizza tutto il resto, che erode ogni altro finalismo. E siccome il denaro è una “funzione vuota” che possiede la potenza del numero e della replicabilità, la “forma” della relazione, se tale funzione di relazione viene assunta quale luogo centrale di incontro e di legittimazione allora tutto il resto verrà ridotto alla “forma merce”.

Ma l’antico ateniese aveva colto una grande perenne verità: che neppure una massa infinita di denaro potrebbe risolvere tutti i problemi individuali e organizzativi propri di una società evoluta e complessa. Sparta, infatti, con la sua povertà vinse contro la ricca ma corrotta Atene. L’erosione di ogni altra etica al di fuori di se stesso rende il Liberalismo debole nella propria intimità, permeabile ad una corruzione interna che può destabilizzare tutto il sistema. Un altro aspetto che Fukuyama ha sottovalutato. Lo stesso politologo infatti considera i vari fascismi e comunismi forme e tentativi di “democrazie sostanziali”, alternative alle democrazie formali, liberali, ma non comprende il lato oscuro di questa considerazione. Fukuyama la utilizza infatti per dimostrare la superiorità dell’idea di democrazia, se persino gli autoritarismi devono rifarsi all’idea di popolo, ma il ragionamento può essere condotto al contrario: come distinguere allora fra democrazia e “non democrazia” se ogni regime sociale è un’apparente forma di democrazia? E ancora: come possiamo essere sicuri che la versione demoliberale sia l’unica e la migliore forma di democrazia rispetto ad una democrazia diretta corporativa o nazionalistica o neototalitaria o a nuove forme di rappresentanza che potrebbero essere sperimentate?

Fukuyama infine sottovaluta l’importanza dell’identità e della qualità del sistema politico, sopravalutando l’aspetto procedurale e formale, lo stesso fattore cioè che permise a Hitler e a Mussolini di prendere il potere, rivelando la degenerazione antipopolare asociale del primo liberalismo. Questo è uno dei punti più deboli dell’analisi di Fukuyama; il sottovalutare l’erosione valoriale data dal ritenere sufficiente l’aspetto formale e procedurale delle democrazie liberali. Può conciliarsi il principio gerarchico e valoriale con il principio democratico? È possibile risolvere questa scissione e questo dissidio tra l’essenza quantitativa della democrazia e l’essenza meritocratica del liberalismo? La forma democratica quale incubazione anarchica o neodittatoriale del superamento del Liberalismo. Ma può ridursi la democrazia ad una maschera metamorfica? Un vero paradosso. La dottrina di Fukuyama assomiglia nell’errore al marxismo nel ritenere un determinato assetto di potere come corrispondente ad una presunta Legge universale della storia. Un medesimo determinismo evolutivo ed ideologico assimila il liberismo estremo di Fukuyama al peggior marxismo.

La differenza, peggiorativa per il Fukuyama-pensiero, sta nel fatto che il marxismo si pone in senso critico al mondo, quale coscienza sociale critica, mentre l’Iperliberismo post 1989, oggi ancora dominante, si presenta quale cinica legittimazione dell’esistente. Una volta che il mondo sarà tutto liberale non rischieranno le tensioni psicosociali ed economiche di canalizzarsi in un’unica guerra civile mondiale fra la base della piramide e il vertice liberista? Oggi il Liberismo appare incapace di dottrina e di pensiero, se non ritornare appunto a Fukuyama e a quello spietato mix di Hobbes e Francesco Bacone che connota la sua dottrina pragmatista. Un liberalismo solo tecnocratico, avaloriale, che non può che limitarsi ad esaltare un consumo cieco fatto di mille dipendenze, fino, al massimo, a celebrare un mix di neotribalismo pseudo-ambientalista e ipertecnologismo solitario. Un liberismo ridotto a retorica da marketing e autoprivatosi del suo presupposto fondamentale: il concetto di persona e di diritti innati. Ora che il Mercato è l’unico idolo mondiale a cosa serve più l’individualismo dei diritti e delle libertà? Non basta la retorica della e per la massa?

L’attuale Iperliberismo mondiale si regge su di un’estrema somma di contraddizioni: abbiamo infatti un capitalismo senza lavoro, un capitale autogeno e senza scopo, libertà secondarie che erodono libertà fondamentali, la dissoluzione di ogni senso di comunità e di identità, e, quindi, di coscienza critica. Come diceva Carmelo Bene il creativo e il critico stanno e cadono insieme. Oggi il Liberismo consiste nella gestione del suo fallimento ideale ed economico, nella gestione del post liberismo. Non era mai accaduto nella storia che chi produce una crisi si trovi a gestirne le conseguenze. In questo sembriamo alla fine del tempo; nell’assenza di un pensiero e di un modello alternativo al post liberismo.

Fukuyama dà indirettamente ragione al miglior Marx anche nella sua cinica e inaccettabile giustificazione della guerra quale fattore utile di modernizzazione. Ascoltiamolo: “La guerra conferisce al bisogno di modernizzazione sociale un carattere particolarmente acuto e fornisce un test inequivocabile della sua riuscita”. Nessun problema morale per Fukuyama né scrupolo umano di fronte alla guerra. Siamo già nel 1992 alla teorizzazione della “guerra umanitaria”. Non è possibile vivere una democrazia che non produca guerre e imperialismi? Non viene il dubbio invece che ad ogni guerra, pur vinta dalle “democrazie” l’umanità si imbarbarisca sempre di più e al progresso scientifico si accompagni un pericoloso decadimento morale generale? Fukuyama invece ritiene con ideologismo radicale che sia proprio il progresso scientifico a rappresentare l’avanguardia di un progresso generale dell’umanità e a conferire senso direzionale alla storia.

Ma siamo qui di fronte ad un altro paradosso inquietante: può la scienza autolegittimarsi? Può la scienza essere dimensione autonoma dall’etica e dalla politica? Sarebbe ancora scienza? L’Iperliberismo riduce invece la scienza a pura tecnica avaloriale, a puro mezzo di egemonia sulla massa. La scienza è guidata dal potere, non viceversa. Solo la politica e una sua etica, qualsiasi sia, può dare quella strategia, quelle priorità, quelle regole, quel controllo e indirizzo che la scienza stessa richiede per avanzare oltre un caotico sperimentalismo dispersivo. Fukuyama non si rende conto che il suo pensiero giustifica invece una scienza prostituita, una scienza quale “religione del potere” che non può produrre che aberrazioni e conflitti.

Un ultimo motivo reale che rende obsoleta ed erronea la dottrina iperliberista di Fukuyama è dato dal suo non aver previsto le tendenze globali alla deindustrializzazione oggi dominanti nel mondo occidentale. Fukuyama scrive quando la finanziarizzazione dell’economia è agli inizi (1992) mentre appare ancora dominante l’apparato industriale. Oggi invece lo strapotere della Finanza, congiunto con un utilizzo elitario delle migliori tecnologie, potrebbe fare a meno della stessa massa, dei popoli, del lavoro produttivo. La stessa scienza potrebbe essere asservita ad una visione da incubo con la maggior parte del mondo abbandonata alla miseria e all’autodistruzione mentre poche piccole isole felici super protette potrebbero perseguire l’ideale di una nuova “età dell’oro”. Raggiuto infatti il controllo di nuove energie e di nuove tecnologie cosa servono più alle élite i diritti delle masse e il concetto di persona? Si apre terribile via elitaria al superamento dell’umanità conosciuta.