Qualcuno ci ha definiti eroi, ma noi siamo precari che lavorano per tre euro a consegna e senza malattia.

(Tommaso Falchi di Riders per i Diritti)

A Trieste è una sera freddissima, le temperature si sono abbassate improvvisamente e c’è vento di Bora.
Al bordo di una piazza vedo un gruppo di ragazzi che cercano riparo dalle raffiche di vento contro un muro, attorniati da scatoloni di colori fluorescenti e biciclette appoggiate alle panchine.
Sono evidentemente intirizziti, dalle sciarpe tirate sopra il naso sbucano sguardi fissi sugli smart phones, occhi scuri illuminati dalla luce azzurrognola riflessa dagli schermi. Sono tutti molto giovani, ma sembrano avere corpi da vecchi.
È un gruppo di rider, i ciclo-fattorini delle piattaforme digitali, che aspettano una chiamata per la prossima consegna.

Rientro a casa, finalmente al caldo. Fuori la temperatura continua a scendere e il vento ad aumentare e non riesco a smettere di pensare a quei ragazzi che affrontano una notte gelida, che per poter lavorare per pochi euro all’ora sono costretti a giocare ad una lotteria dove non puoi fare altro che attendere che esca il tuo numero.

Pochi giorni fa, il 15 gennaio, sulla sua rubrica su La Stampa Antonella Boralevi ha raccontato la storia di un ex commercialista che “invece di chiedere il reddito di cittadinanza, si è messo a lavorare” diventando un Rider Felice, che guadagnava 2000 fino a 4000 euro al mese. La notizia si è rivelata sostanzialmente falsa, ma ha permesso all’autrice di parlare di “una storia non di colore, ma di speranza. E anche di dignità. Non saprei in quale sequenza collocare queste due parole: alla pari, direi. La “speranza” ha a che fare con la capacità di rendersi conto della realtà e di prenderne atto (senza lasciarsi imbrogliare dalla propaganda)”.

Sproloquiare sulla capacità di rendersi conto della realtà mentre non ci si piglia nemmeno la briga di verificare una notizia prima di scriverla e commentarla è perlomeno fuori luogo, ma la retorica di chi ha un lavoro privilegiato e ritiene che chi non lo ha o chi lo ha perso debba rimboccassi le maniche, farsi sfruttare e pedalare per 100 km al giorno, (con dignità,) mi fa rivoltare lo stomaco.

I trentamila rider in Italia continuano a rimanere figure invisibili, ma c’è stato un momento a novembre in cui i rider sono scesi dai sellini di bici e scooters dando vita a proteste che da Milano si sono estese a tutto il Paese conquistando una improvvisa visibilità.
Manifestavano contro un contratto collettivo entrato in vigore il 3 novembre che definivano “pirata” e denunciavano una realtà fino ad allora scarsamente conosciuta fatta di sfruttamento, lavoro a cottimo.

Ma se i lavoratori non solo rifiutavano ma denunciavano questo contratto, da chi era stato firmato?
Qui la cosa diventa un po’ complicata e molto sospetta: era stato firmato da Assodelivery e il sindacato di destra UGL.

Fondata nel 2018 Assodelivery definisce così il suo ruolo: “Desideriamo assicurare alle piattaforme tecnologiche che operano nell’ambito del food delivery un’organizzazione rappresentativa unitaria.” È “la prima e unica associazione dell’industria del food delivery italiana” e vi aderiscono diverse multinazionali del settore: Deliveroo (Regno Unito), Glovo (Spagna), Just Eat (Danese, sede a Londra), la californiana Uber Eats e una società italiana con sede a Palermo, la Socialfood.

Quindi nella firma del contratto le aziende vengono rappresentate da Assodelivery e i lavoratori da UGL, un sindacato che si propone “il superamento definitivo della concezione politica di classe sociale e delle sue conseguenze ideologiche”. Tanto per la cronaca: Emanuele Zappalà, il Fattorino Felice di Deliveroo di cui ha scritto la Boralevi nel suo articolo, ha fatto parte della delegazione di UGL.

Ma se i lavoratori non si ritenevano rappresentati da questo sindacato, com’è possibile che UGL abbia potuto firmare un accordo?

Chi lavorava per diverse delle aziende rappresentate da Assodelivery ha ricevuto un’e-mail che stabiliva che la firma del nuovo contratto fosse l’unica unica possibilità per poter lavorare: accettare o venire licenziati.

Ma a quel punto Just Eat è uscito dalla cordata annunciando di voler regolarizzare tramite un contratto di lavoro dipendente i suoi rider, e finalmente a metà novembre il Ministero del Lavoro ha stabilito con una circolare che le compagnie di food delivery non possono pagare i fattorini a consegna (cioè non retribuendo i lavoratori nei tempi di attesa tra una consegna e quella successiva) e dichiarando inoltre che una sola organizzazione sindacale non maggioritaria “non è idonea a derogare alla disciplina di legge”.

Un successivo spiraglio si è aperto quando a fine novembre una sentenza del Tribunale di Palermo ha imposto a Glovo di assumere a tempo pieno e indeterminato, con stipendio orario (quindi non più a cottimo) un rider che aveva iniziato a lavorare per la piattaforma nel 2018, anche per dieci ore al giorno, ma venendo pagato solamente a consegna.

E quindi ora che succede?
Non si sa.
Ma mentre aspettiamo sperando che venga firmato un nuovo contratto in cui una minima parte del profitto (enorme) delle multinazionali delle consegne venga distribuita in modo equo a chi tali consegne le effettua, possiamo fare qualcosa. Noi, tutti, privati cittadini abbiamo la possibilità di fare parecchio: la prossima volta che facciamo un ordine possiamo scegliere le piattaforme che hanno assunto i propri lavoratori, e possiamo dare la mancia a chi ha pedalato per noi. Anche una piccola mancia è un segno di solidarietà e gratitudine.
E fino a quando non arriverà la primavera, aspettiamo i rider tenendo pronti un sorriso ed una tazza di tè caldo.

Di rider ‘felici’ nelle strade, soprattutto dopo la firma del contratto capestro ad opera di UGL e Assodelivery, non ne vediamo dal momento che i compensi dal 3 novembre 2020 (entrata in vigore del nuovo contratto) sono stati tagliati dal 50% al 30% su ogni singola corsa, in tutto il settore.

(Riders Union Bologna)