Quando ero piccolo ho avuto la fortuna di abitare, a cavallo fra gli anni ‘50 e ’70, alla periferia di Trieste, su una collina del rione di Rojano. L’appartamento della mia famiglia era al secondo di un condominio di quattro piani, bella vista sul porto e sul mare, tanti bambini del baby boom. Per un insieme di fortunate coincidenze il costruttore non aveva potuto piazzarci davanti un'altra casa, come succedeva spesso e come avrebbe voluto in tempi di speculazione edilizia, ma era rimasto un vasto giardino condominiale. In quel giardino crescevano erba, orti, fiori, rose, antichi alberi da frutta salvati dalla sega e dal cemento.

Si giocava, da ragazzi a pallone e ogni tanto quel pallone usciva dal recinto e si metteva a correre lungo la ripida discesa che portava alla piazza del rione. Ero il più grande, e guidavo la masnada di ragazzini e ragazzine che uscivano dal cancello e correvano dietro, al pallone, in discesa. Praticamente non passavano macchine e l’esercizio era sicuro. Tutte le volte che penso alla parola sostenibilità mi viene in mente un ragazzino di 7-8 anni, magro come un chiodo, che corre a capofitto in discesa dietro un pallone che scende rimbalzando fino in piazza, fa un passo dopo l’altro, i passi gli si allungano, si allungano, le gambe non lo tengono più, la discesa lo attira con la forza di gravità (che forza, la forza di gravità!) e sbambaraban! La storia finisce con il pallone in piazza, gli amichetti, quelle carogne, che ridono, e io in farmacia del paese con la mia mamma a farmi medicare (e disinfettare con l’alcool!!!) le scorzature e i graffi sulle ginocchia, sulle mani sui gomiti… non si era rotto niente. Sapevo cadere già allora o era stata fortuna? Nonna Pina abitava in piazza. Dalle finestre di casa sua aveva assistito alla scena e mi aveva prestato le prime cure. Dall’alto dei suoi 90 Kg distribuiti nel suo matronale metro e ottanta, scacciando gli sciacalli che mi prendevano in giro, commentò: “Ben te sta: te ga fato el passo più longo della gamba!”.

Eh, sì…Avevo fatto il passo più lungo della gamba.

Non c’è niente come il disprezzo della nonna e le croste di sangue sulle ginocchia che tirano la pelle e prudono, lasciando i loro segni per anni, per ricordarsi che è meglio non allungare troppo i propri passi. Essere consapevoli dei propri limiti. Come la chiocciolina simbolo del mondo slow, il cui guscio non cresce più di quello che può sopportare il suo pur forte muscolo, il piede che la fa procedere lenta ma decisa scivolando nella sua bava lubrificante.

Gli inizi

L’inizio della discussione sulla sostenibilità del nostro modello di sviluppo ha una data, 1972, un nome, Aurelio Peccei ed un luogo, Roma. Aurelio Peccei era un ingegnere, un dirigente Fiat per trent’anni, allora presidente del Forum economico della Nato. L’ingegnere riuscì a riunire, per la prima volta nel ‘72, proprio a Roma, un gruppo multidisciplinare di esperti internazionali che diede vita al Club di Roma.

Il Club commissionò e pubblicò un testo epocale, il Rapporto sui limiti dello sviluppo1. Il rapporto fu commissionato al Massachussetts Institute of Technology (MIT), fu realizzato da un gruppo di scienziati coordinato da Donella Meadows, e può essere sintetizzato nei seguenti punti:

  1. Se l'attuale tasso di crescita della popolazione, dell'industrializzazione, dell'inquinamento, della produzione di cibo e dello sfruttamento delle risorse continuerà inalterato, i limiti dello sviluppo su questo pianeta saranno raggiunti in un momento imprecisato entro i prossimi cento anni. Il risultato più probabile sarà un improvviso ed incontrollabile declino della popolazione e della capacità industriale.
  2. È possibile modificare i tassi di sviluppo e pervenire ad una condizione di stabilità ecologica ed economica sostenibile anche nel lontano futuro. Lo stato di equilibrio globale dovrebbe essere progettato in modo che le necessità di ciascuna persona sulla terra siano soddisfatte, e ciascuno abbia uguali opportunità di realizzare il proprio potenziale umano.

Con il crescere della popolazione della Terra le risorse che il pianeta può mettere a disposizione della specie umana e delle altre specie viventi nella biosfera vengono a diminuire, e con il crescere della popolazione fino ad un certo punto il nutrimento pro capite aumenta, ma poi subisce una brusca frenata e tende a scendere velocemente mentre nel contempo aumenta il tasso di inquinamento ambientale. Tutto ciò è previsto nella prima metà degli anni 2000.

L’ONU e l’OMS: il Rapporto Brundtland

Chi ha il compito di monitorare l’andamento di questi fenomeni è l’ONU, che ha votato nel 1987 una risoluzione redatta da una propria sottocommissione, la Commissione Mondiale su Ambiente e Sviluppo, presieduta dall’allora primo ministro norvegese, Gro Harlem Brundtland, medico. Il Rapporto Brundtland è il primo testo internazionale che ha cercato di definire motivi, definizione ed azioni per garantire sostenibilità al Pianeta2.

Il rapporto comincia con le seguenti parole:

Quando è iniziato il ‘900 né gli esseri umani né la tecnologia avevano il potere di alterare radicalmente i sistemi del pianeta. Verso la fine del secolo le popolazioni umane in rapida crescita e le loro attività hanno questo potere ed hanno di fronte dei cambiamenti maggiori non voluti dell’atmosfera, del suolo, dell’acqua, fra gli animali, le piante e delle loro relazioni.

La Commissione Mondiale su Ambiente e Sviluppo si è riunita per la prima volta nell’ottobre 1984 ed ha pubblicato il suo primo rapporto 900 giorni più tardi, nell’aprile 1987. In questi pochi giorni:

  • la crisi ambientale e di sviluppo scatenata dalla siccità in Africa ha raggiunto il suo picco, ha messo a rischio le vite di 15 milioni di persone e ne ha uccise circa un milione;
  • una perdita da una fabbrica di pesticidi a Bhopal, in India ha ucciso più di 2.000 persone e ne ha ustionate, ferite o fatte ammalare più di 200.000;
  • a Città del Messico sono esplosi dei depositi di gas liquido, uccidendo 1.000 persone e lasciandone migliaia senza tetto;
  • il reattore nucleare di Chernobyl è esploso ed ha inviato in tutta l’Europa un fallout radioattivo, aumentando il rischio futuro di cancro;
  • prodotti chimici per l’agricoltura, solventi e mercurio sono finiti nel Reno a causa di un incendio in un deposito in Svizzera, uccidendo milioni di pesci e mettendo in pericolo la potabilità dell’acqua in Germania ed in Olanda;
  • circa 60 milioni di persone sono morte per malattie diarroiche dovute alla malnutrizione ed alla scarsa sicurezza delle acque potabili, gran parte di loro sono bambini.

L’umanità ha la capacità di rendere sostenibile lo sviluppo per garantire che soddisfi ai bisogni del presente senza compromettere l’abilità delle future generazioni di soddisfare i propri. Il concetto di sviluppo sostenibile implica limiti non assoluti imposti dallo stato presente dell’organizzazione sociale e tecnologica sulle risorse ambientali e dall’abilità della biosfera di assorbire gli effetti delle attività umane.

La tecnologia e le organizzazioni sociali possono però essere sia gestite che migliorate per far post ad una nuova era di crescita economica. La commissione ritiene che una povertà diffusa non è più inevitabile. La povertà non è solo un male di per sé, ma lo sviluppo sostenibile richiede soddisfare i bisogni di base di tutti ed estendere a tutti l’opportunità di soddisfare le proprie aspirazioni per una vita migliore. Un mondo in cui la povertà è endemica sarà sempre destinato a catastrofi ecologiche e di altro tipo.

Dal 1987 ad oggi nuovi disastri si sono aggiunti a quelli elencati dalla Commissione, ultima la pandemia di Sars-Covid-19, che fra le sue cause annovera proprio l’invasione degli ecosistemi da parte degli esseri umani.

La scienza della sostenibilità

Secondo Gianfranco Bologna3, grande studioso della sostenibilità nei sistemi ecologici, il termine “Sustainability Science” indica:

Una convergenza transdisciplinare di riflessioni e ricerche derivanti da discipline diverse, che cercano di analizzare le interazioni dinamiche tra i sistemi naturali, sociali ed economici e di comprendere i modi migliori per “gestirle”.

La sua forza innovativa risiede in un cambiamento radicale della visione del mondo: da un lato promuovere forme di conoscenza compatibili con un’irriducibile incertezza; dall’altro individuare nuovi principi, metodologie e strumenti per intervenire concretamente nei sistemi complessi senza comprometterne il delicato equilibrio. (…) Le discipline che costituiscono la base necessaria per questo approccio sono quelle delle scienze ecologiche (ma anche fisiche e naturali in senso più ampio come, ad esempio, la fisica dei sistemi complessi), delle scienze economiche e delle scienze sociali In particolare si fa riferimento alla biologia della conservazione (Conservation Biology), all’economia ecologica (Ecological Economics), all’ecologia del paesaggio (Landscape Ecology), all’ecologia del ripristino (Restoration Ecology) e all’ecologia industriale (Industrial Ecology). Anche i progressi nelle scienze sociali relativi all’apprendimento (Learning) e all’adattamento (Adaptive Management) rientrano efficacemente in questo campo.

Conclusioni

Dopo questi inizi, innumerevoli sono state le iniziative personali, nazionali e internazionali per indurre il cambio necessario di comportamenti sociali e personali in grado di salvare il pianeta e i suoi esseri viventi dagli effetti dell’invasione della specie umana, della sua industria inquinante e dagli effetti della sua tecnologia pervasiva, priva di etica, cominciati agli inizi del ‘900 e oggi sempre più evidenti.

La pandemia di Covid-19, gli incendi dolosi di ingenti parti del nostro patrimonio naturale, l’inquinamento dei mari con la plastica ed i cambiamenti climatici non sono ormai più emergenze, ma gravi situazioni patologiche croniche mortali, che affliggono i nostri beni comuni, l’acqua, l’aria, il suolo, le risorse del pianeta. Queste patologie croniche del Pianeta vanno affrontate assieme alle loro conseguenze più gravi la crisi economica globale, quella alimentare, quella sociale, le migrazioni, sempre più frequenti e dolorose, le guerre, in cui chi muore sono sempre più i civili.

Queste ultime non si risolvono se non si affrontano le prime e tutte insieme4.

Ci vuole un grande cambio di percezione e di comportamenti da parte di noi tutti, da oggi. Da ieri. Che cos’è che stiamo facendo adesso, di insostenibile per noi come persone, comunità, organizzazione, Paese, esseri umani, che possiamo cambiare per garantire che il nostro Pianeta non soccomba alla pressione umana che lo consuma, sostenuta dalla grande speculazione finanziaria ed economica che fa profitti sullo spreco alimentare, di materie prime, di materiale lavorato, di scarti materiali, animali e umani? Che cos’è che io, tu, noi, voi stiamo facendo adesso per rubare il futuro alle generazioni future? Come ce ne assumiamo la responsabilità e che cosa facciamo dopo che ho scritto e avete letto questo articolo?

Quali sono i passi più lunghi delle nostre gambe che stiamo facendo, qui, ora?

Note

1 Donella H. Meadows, Dennis L. Meadows, Jorgen Randers, William W. Behrens III. The Limits to Growth. New York, Universe Books, 1972. (Trad. it.: I limiti dello sviluppo, Milano, Mondadori, 1972.
2 Development and international economic co-operation: environment. Report of the world commission on environment and development. Note by the Secretary General, and allegate Our common future, General Assembly United Nations, New York, 4 agosto 1987.
3 Bologna G. Manuale della sostenibilità, Edizioni Ambiente, 2008.
4 Petrini C. Terrafutura. Dialoghi con Papa Francesco. Edizioni Slow Food, 2020.