Le aree montuose del Jebel Demmer, nel sud desertico della Tunisia, sono abitate da tempi immemori da popolazioni che noi genericamente chiamiamo “Berberi”. A partire dal X-XI° secolo, per sfuggire all’invasione delle tribù arabe beduine dei Banu Hilal, i Berberi si dovettero ritirare nelle montagne con una forte trasformazione culturale e conseguente conversione dalla pastorizia transumante all’agricoltura sedentaria. Nonostante ciò usi e costumi di antica memoria sono stati mantenuti e tramandati e costituiscono quell’“essenza Berbera” che aveva affascinato uno dei più importanti storici del mondo arabo, Ibn Khaldoun, padre della sociologia moderna, vissuto tra il XIV e il XV secolo.

Una delle eredità più importanti che ci hanno lasciato gli antichi Berberi è rappresentata dalle loro architetture fortificate tra cui gli ksour, plurale della parola araba ksar, che significa cittadella fortificata. Strane strutture ad alveare in terra e pietra, con il tetto a volta, circondate da alte e spesse mura perimetrali al cui centro si apriva una corte: castelli con la funzione di granai. La parte del villaggio difesa militarmente dalla comunità era proprio il granaio, una sorta di bunker, dove si custodivano le riserve alimentari, i metalli preziosi, le armi e la polvere da sparo. Venivano edificati su alture inaccessibili, spesso sovrastanti il villaggio e quasi intagliati nella roccia (Ksour di montagna), oppure, se edificati in pianura, venivano protetti nel cuore dell'abitato (Ksour di pianura). 

Ogni famiglia possedeva, e la pratica era in vigore fino a pochi anni fa, il suo ghorfa. Un ghorfa è una celletta di stoccaggio chiusa da una porta di legno che dà sulla corte interna, dove venivano riposte prevalentemente le giare contenenti l’olio d’oliva e i cereali. Ogni ksar era composto da centinaia di ghorfa organizzati su più livelli, con scalette in terra cruda per salire alle cellette poste ai piani superiori. Alla corte interna si accedeva solo dall'ingresso principale, che era preservato da un pesante portone in legno di palma, assicurato da un possente chiavistello. Un guardiano scelto per elezione dal villaggio custodiva il granaio, giorno e notte, vivendo dentro di esso. Non di rado classici simboli apotropaici della cultura berbera adornavano archi e volte delle gorfa: la mano aperta, il pesce, l’occhio, la fibula.

Questi granai collettivi non rispondevano soltanto all’esigenza di protezione durante gli assedi dei predoni, il loro compito era anche di preservare i magri raccolti che le avverse condizioni climatiche non sempre potevano garantire. In quest’area infatti le piogge sono molto scarse e i terreni coltivabili sono rari. Questi vengono tuttora faticosamente ricavati dal terrazzamento delle scarpate sassose grazie a ingegnose opere idrauliche, chiamate jessour, che controllano le poche, ma torrenziali piogge e allo stesso tempo trattengono il sedimento che poi viene utilizzato come terreno da coltivare. La miscela tra nomadismo, agricoltura e sedenterizzazione è il vero fondamento su cui si basava la creazione degli ksour. Alcuni di questi granai fortificati, come Ksar Ouled Sultane e Ksar Haddada, possono essere considerati veri e propri capolavori architettonici, e se ne era già accorto George Lucas che scelse questi ksour per ambientare alcune famose scene del pianeta Tatooine (nome derivato dal villaggio di Tataouine) della saga di Star Wars.

Ksar Metameur, Ksar Hallouf, Ksar Haddada, Ksar Mrabtine, Ksar El Ferch, Ksar Gattoufa, Ksar Kedim, Ksar Ouled Debab, Ksar Ouled Sultane..., come una litania di santi ogni spuntone roccioso o avamposto di pianura conserva uno ksar o i ruderi di quello che un tempo lo era. Ne esistono più di 150, molti avvolti solo dal silenzio dell’abbandono, ma tutti degni di uno sguardo che però il tempo non può assicurare. Troppi, per poterli salvare tutti. Nonostante molti ksour siano facilmente raggiungibili e i paesaggi siano evocativi ed emozionanti, il turismo di massa da queste parti non è mai arrivato e le primavere arabe hanno contribuito ad accentuare l’isolamento di questa regione. 

In piena bufera della rivoluzione dei gelsomini è partito il progetto TITAN (Tataouine Italie Tourisme Agriculture Network) per aiutare i giovani a sviluppare nuove attività creando reti di relazioni con operatori italiani ed europei sia nel settore turistico che in quello agricolo. Il contesto è molto difficile per l'assenza di servizi e di competenze adeguate, ma il patrimonio materiale e immateriale e la regione sono talmente belli e promettenti che l'Università di Bologna e la Fondazione Alma Mater hanno accettato la richiesta delle istituzioni locali di aiutare i giovani a sviluppare dei progetti sostenibili sia nel turismo alternativo che nella produzione biologica. L’attrazione degli antichi ksour può giocare un ruolo fondamentale da questo punto di vista. I primi risultati sono molto incoraggianti, ma il processo richiede tempo perché c'è bisogno di continui sforzi per superare l'isolamento, le barriere culturali e l'arretratezza burocratica e amministrativa.

Negli ultimi anni alcuni ksour sono stati restaurati, a volte con l’utilizzo di materiali impropri, se non salvati in tempo molti potrebbero andare persi per sempre perché deperiscono in fretta a causa delle condizioni climatiche estreme e dei materiali poveri con cui sono costruiti. Per questo motivo si deve correre contro il tempo e un progetto è già partito grazie all’interesse di alcuni italiani tra cui l’architetto Giovanni Perotti, lo Studio ODB&Partners e ricercatori dell’Università di Reggio Calabria. Insieme all’associazione tunisina ADEPT-ST è stata preparata una proposta per inserire gli Ksour della regione di Medenine-Tataouine nella lista dei Siti Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO. Al fine di valutarne la fattibilità, lo scorso 22 marzo il ministro tunisino della cultura, Mourad Sakli, insieme al suo entourage, ha visitato il villaggio berbero di Chenini, il più bell’esempio di ksar di montagna, tra l’altro splendidamente conservato. 

Costruito nel XII secolo a cavallo di due creste montuose, lo Ksar di Chenini sovrasta un agglomerato troglodita, fatto di caverne e anfratti scavati nei versanti della montagna, dove tuttora abitano circa 60 famiglie. Assieme a Douiret e Guermessa, Chenini è l’ultimo villaggio dove l’antica lingua berbera, ormai completamente perduta nel resto della Tunisia, è ancora parlata da un gruppo di anziani. Tra loro c’è Mariem, una donna di età indefinibile con il volto segnato da una ragnatela di rughe, il mento e la fronte tatuati come nella migliore tradizione berbera. Camminando insieme a Mariem tra le bizzarre rovine dell’antica cittadella, tra muri cadenti e grovigli di vecchie pietre, si è dominati dalla singolare attrazione che esercitano le vestigia di un mondo scomparso, eppure vivente. La speranza che questo mondo perduto possa essere recuperato e salvaguardato ci richiama alla realtà fino a convincerci che forse la sua realizzazione non è un sogno.