L’argomentazione inizia ex abrupto in chiave di una sociologia internazionale al cui interno vale lo slogan: “globale è bello”. Si denota infatti un mescolamento fra linguaggio della filosofia e linguaggio della sociologia e della geopolitica. Il testo lascia aperta anche un’incoerenza fra il titolo, che ideologicamente svaluta sempre la “parte”, e l’argomentazione che pone il tema della mediazione fra localismo e globalismo. Il punto 235 incrocia due punti di vista eteronomi: la morale quotidiana, spicciola e pratica, e la definizione speculativa per cui il “tutto” è sempre superiore alla “parte”. Il testo lascia aperte domande logiche: le dittature sono quindi meglio delle democrazie? La maggioranza ha sempre ragione? Non si comprende infine il perché sia denigrata la metafora della “sfera”, tradizionalmente usata quale metafora di Dio e segno di equilibrio e perfezione sostituendola con l’ambigua metafora del “poliedro”. Si apre un'altra domanda: quale poliedro? Se infatti si pone un nuovo modello sociale e una sua nuova metafora occorre essere precisi se ci si tiene ad essere compresi. Cubo? Esagono? Cono? Dodecaedro? Il tema della sottomissione della parte al tutto non è tema religioso né è presente nel linguaggio vangelico dove invece troviamo la metafora della “parte eccellente, che non sarà tolta ” (Luca, 10,42) nell’episodio di Marta e Maria e né è presente nel linguaggio scritturale dove troviamo un salmo 16, “Il Signore è mia parte di eredità”, che sarà commentato da S. Agostino il quale conferma la definizione di Dio quale ”mia ottima porzione”.

Nel passo di Luca viene usato il termine greco “meris” che significa parte, porzione, assumendo quindi anche una sfumatura sia nutrizionale che sacrificale, dall’alto valore mistico in quanto termine inserito in un contesto strettamente cristologico. Un “tutto” non si può scegliere, Dio sì, perché è prima di tutto Persona, non status, non concetto o postulato. Il Dio cristiano non è un tutto indistinto e impersonale ma una Persona. L’Incarnazione stessa di Gesù Cristo è stata un fatto personale, una personale assunzione di un “hic et nunc”, di un’unità spaziotemporale. Detto questo appare incoerente voler scindere questa unità che si fonda su Gesù Cristo. Come appare incoerente mettere al centro del discorso la società o l’attività pastorale o l’azione missionaria, quando al centro appare coerente collocare la persona umana se parliamo di una religione fondata su di un Dio Persona. Il concetto di persona purtroppo non compare con precisione e importanza nel testo né a livello di soggetti evangelizzatori né a livello di destinatari. Il linguaggio sembra confondere “infinito” con “indistinto”, totalità con complessità, ampiezza con esclusivismo. Il pensiero dell’"olismo" deriva non a caso dal monismo di Spinoza.

Sembra quasi che si arrivi a questo “tuttismo” traslando irritualmente nella sfera laica e immanente il concetto mistico e metafisico di “comunione dei santi” che viene trasformato in un indistinto “tutto” a forte rischio di tirannico “stato etico”. L’argomentazione retorica a favore del quarto criterio del “tutto” che “vince sempre”, pensiero che può piacere ai network internazionali e al pensiero economico del “globalismo”, si conclude rientrando per un attimo nel diverso discorso missionario e sovrapponendo la precedente concezione politico-filosofica del “tutto” con la diversa idea di trasmettere la totalità del Vangelo. Il sottotesto può portare a questo ragionamento: siccome il Vangelo e la Redenzione sono totalizzanti allora “il tutto è superiore alla parte” (p. 239). Si mescola un pensiero filosofico, che deriva dall’a-peiron presocratico, con l’utilizzo argomentativo-persuasivo di singoli passi del Vangelo per scopi discorsivi. Così procedendo la “mistica popolare” rischia di essere fraintesa come “misticismo populista”, come pure si rischiano di confondere i piani fra dimensione divina, totale, e dimensione umana, parziale. Il linguaggio religioso appare così rischiare di restare subordinato al linguaggio ideologico, politico e filosofico oltre che rischiare di essere frainteso quale abbandono della valorizzazione della persona e dell’individuo. La celebrazione del “tutto”, entità indeterminata e acefala, infatti rischia sempre di far dimenticare che l’uomo non è un concetto ma in primo luogo una persona, una singolarità. Dio stesso non è vangelicamente una totalità che schiaccia l’individuo ma una Persona. Troviamo un’importante traslazione lessicale nel capitolo che tratta del rapporto con gli Ebrei. Forse è il passaggio più innovativo dell’Esortazione (pp. 246-247): “Uno sguardo molto speciale si rivolge al popolo ebreo la cui Alleanza con Dio non è mai stata revocata”. Si cita come prova scritturale di questa importante, nuova ed eccentrica affermazione un passo di San Paolo il quale proclama che “i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili”. (Rm11, 29). Ancora una volta la forma appare decisiva. San Paolo infatti parla di doni e di vocazioni e non di “Alleanza”. E’ San Paolo anzi che dichiara con grande chiarezza che la legge di Mosè è superata e con essi i sacrifici e le prescrizioni; è San Paolo che guida il primo Concilio di Gerusalemme evitando che venissero imposte prescrizioni ebraiche ai convertiti greci e romani, ed è San Paolo che precisa che persino il rito, che ci unisce a Dio, con l’avvento di Cristo è mutato in quanto il sacerdozio di Cristo non è più quello carnale e cruento di Levi ma quello perfetto e spirituale di Melchisedek (Atti 15,23-29, Ebrei 7,14-17, 23-24).

Il testo dell’Esortazione invece non fa propria la chiarezza paolina ma si involve in un discorso facilmente fraintendibile ed equivocabile per cui sembrerebbe che la prima Alleanza non sarebbe stata superata dalla Nuova Alleanza fondata sulla morte e resurrezione di Cristo e che per gli Ebrei non si applicherebbe la Redenzione cristica in quanto “Dio continua ad operare nel popolo dell’Antica Alleanza”. Esisterebbero ancora due Alleanze: la prima ininterrotta e autonoma dall’Incarnazione del Figlio di Dio, e la seconda, quella di Gesù, che può redimere tutti gli uomini ma non è utile né necessaria per gli Ebrei. Il paragrafo 249 pone in una frase subordinata l’identità cattolica mentre il periodo principale della proposizione è dedicato all’importanza di quanto unisce scritturalmente, moralmente e culturalmente cattolici ed Ebrei. Non c’è traccia nel linguaggio vangelico di pensieri simili a queste considerazioni. Il messaggio della sottotraccia del testo sembra andare nel senso della priorità data al rapporto spirituale con la Parola di Dio rispetto alla fede, al rito e ai dogmi. La psicologia del testo del punto 249 sembra volerci dire: “dispiace molto non poter rinunciare alla propria identità per essere più uniti con quella ebraica, tuttavia già molto ci unisce!”. Il valore prioritario sembra quindi porsi nel dialogo e nella fratellanza e non nella missionarietà. Sembra che la “Nuova ed eterna Alleanza” diventi così una mera “seconda Alleanza”.

Eccentrico che ciò accada all’interno di un'Esortazione alla missione cristianizzatrice. Nel trattare dei rapporti con l’Islam l’Esortazione mostra analoghi problemi di chiarezza e coerenza in tema di identità, anche se meno rilevanti a livello dottrinale. “Gli scritti sacri dell’Islam conservano parte degli insegnamenti cristiani” (p. 250). Tale affermazione apodittica sembra chiara, sembra veicolare un dato oggettivo e invece presuppone una chiarezza acquisita. Tale proposizione sembra muoversi nell’alveo di una “captatio benevolentiae”, priva però di una chiara direzione. Nessun islamico sottoscriverebbe che parte della sua religione è cristiana, quindi se c’è un intento ecumenico o sincretistico nella psicologia del testo è difficile che abbia successo. Dall’altra parte non si comprende perché si ponga questa affermazione priva di precisione e di contestualizzazione come se si comunicasse l’acquisizione di un risultato scientifico assodato. Non serve essere studiosi di religione per confrontare i testi e capire che il Gesù islamico è solo un uomo, un profeta, mentre il Gesù cristiano è il Figlio di Dio. Il testo dell’Esortazione quindi rischia di generare questioni/tensioni identitarie testualmente non risolvibili senza al contrario dire nulla di come evangelizzare verso gli islamici i quali sembrano così, insieme agli ebrei e agli atei, godere di uno status privilegiato che non permetta di riconoscerli particolarmente bisognosi di una nuova evangelizzazione, la quale in fin dei conti sembra dover riguardare soprattutto chi è già cristiano, se si vuole cercare coerenza pratica nelle parole dell’Esortazione! A questo si può concludere infatti se consideriamo il passo che esorta al rispetto e all’affetto verso gli ”immigrati dell’Islam” (p. 251) considerati appunto quali categorie socioreligiose e non in quanto persone o creature di Dio, e se consideriamo il passo dove si definiscono “alleati” gli atei di buona volontà (p. 254) con i quali la libera discussione è posta quale via di pacificazione e di risanamento mondiale. Come evangelizzare gli “alleati” e gli “accolti” non è dato capire dal testo dell’Esortazione.

Riguardo l’ampia categoria generale dei “non cristiani” il testo afferma che essi possono egualmente godere della grazia santificante di Dio, e quindi il testo può alludere al fatto che la differenza fra cristiani e non cristiani è data solo dal mancato accesso dei secondi ai Sacramenti di cui godono i primi, differenza formale quindi. Il testo infatti appare assai ambiguo in quanto sembra accostare i sacramenti cattolici, indicati con la s maiuscola, ad altri “segni, riti, espressioni sacre” che possono essere “canali che lo stesso Spirito suscita…” (p. 252). Al di là del fatto che non si capisce di che cosa si stia trattando va notato comunque che in sostanza si descrivono quelle altre ritualità, non cristiane, in modo molto simile a come si insegna la dottrina dei sacramenti cattolici: segno, rito, presenza dello Spirito Santo (anche se si parla di Spirito e non di “Spirito Santo”). La “dimensione sacramentale” della grazia santificante, che sarebbe attiva anche verso i non cristiani, porterebbe quindi ad una “creatività sacramentale e rituale” da cui c’è da imparare. Il testo anche qui non sembra aiutare la missionarietà cristiana in quanto sembra moltiplicare i “maestri” e gli “alleati” con cui confrontarsi per sostanziare la propria identità e crescita all’interno dell’evangelizzazione.

Sembra ritornare il tema ricorrente che possiamo definire dell’"elogio della molteplicità", come se la moltiplicazione delle forme fosse un valore autofondante, mentre la sostanza per definizione sarebbe un unicum invariabile. Nella nota n°44 a p. 68 dell’Esortazione troviamo un tentativo di giustificazione metafisica della bellezza delle diversità all’interno della medesima Chiesa. Compare in tal senso un nuovo tipo di ambiguità comunicativa derivante dalla traslazione di un linguaggio metafisico-teologico in un altro ambito irrelato e incompatibile con il primo. Nel riconoscere l’esistenza dentro la Chiesa di diversi pensieri teologici, filosofici, e pastorali, fatto eccentrico che viene però immotivatamente posto quale segno positivo di vitalità, si improvvisa quasi una “teoria delle diversità”, relegando nel ghetto degli utopisti coloro che si ostinano a credere che la Dottrina cattolica sia unica ed omogenea. Sembra di assistere ad un inversione radicale di prospettiva: dall’essenza alla contingenza, dalla verticalità all’orizzontalità, dal dogma all’idealismo, dall’unità alla frantumazione. La corretta concezione tomistica della giustificazione creaturale della molteplicità viene traslata con questa nota nel campo delle argomentazioni pratiche per fungere da prova della correttezza dell’opinione che “molteplice e diverso è bello”. Assistiamo ad una deformazione del contesto e del linguaggio. Il rapporto d’essere fra Dio e le creature sembra metaforizzato e strumentalizzato per far apparire normale che ci siano differenti concezioni dentro l’unica Fede, come se le opinioni e i pensieri umani fossero creature.

Il tema della dottrina appare così relativizzato e l’unità della Dottrina appare allontanarsi dalla verità dei Dogmi verso un fantasma futuro a cui tendere senza fine e il tutto si ottiene ipostatizzando le espressioni del pensiero umano. Il testo apre ai fraintendimenti nei termini di un illimitato idealismo. Il linguaggio dell’entusiasmo si colora sempre di toni poetici e infatti notiamo un moltiplicarsi delle “mistiche”. Dopo la “mistica popolare” e del “vivere insieme” compare nel testo la “mistica di avvicinarci agli altri con l’intento di cercare il loro bene” (p. 269) e tale qualificazione non a caso compare nella stessa pagina che contiene l’indicazione, molto ottimistica) (ai limiti dell’utopia) del vivere ”senza glossa”, dell’applicazione del Vangelo senza mediazioni e senza interpretazioni. Il testo può portare con le sue implicazioni e allusioni ad una marginalizzazione del ruolo catechetico, del ruolo di governo ecclesiale, e della stessa Dottrina, sostituita dal rapporto diretto con le Sacre Scritture. Queste riflessioni appaiono anch’esse fortemente innovative a livello di linguaggio e di argomentazioni in quanto il linguaggio vangelico al contrario mette in guardia sui pericoli della “lettera che uccide e lo Spirito che vivifica” (2 Cor 3,6). Forse il testo allude al fatto che lo “spirito” del Vangelo in tema di comportamenti sociali sia quella “mistica” che abbiamo citato. Notiamo un'altra incoerenza testuale: come sia possibile privilegiare “la sostanza” e nel contempo la “lettera” del Vangelo, che è sempre forma, e tutto ciò senza valorizzare e predicare lo “Spirito” che Paolo pone al primo posto. Le indicazioni del paragrafo 271 sono indicazioni vangeliche in merito allo stile quotidiano di comportamento, all’etica ordinaria, ma appaiono scarne come indicazioni orientative delle attività missionarie, evangelizzatrici in quanto i passi citati appaiono incentrati sull’esercizio delle virtù indipendentemente dall’aspetto specificatamente missionario, apostolico, evangelizzatore. L’esaltazione della differenza contingente quale valore intrinseco, la valorizzazione del fenomenismo e il gusto della vitalità anche scomposta e caotica sembrano creare il clima psicologico generale che connota il linguaggio dell’Esortazione. Il testo talvolta presenta incoerenze logiche ed espressive anche in questo tema.

All’inizio della sezione III, Dal cuore del Vangelo, del primo capitolo La Trasformazione missionaria della Chiesa, troviamo dei passi che sembrano rappresentare un punto chiave, e forse l’unico espresso veramente in modo chiaro, nella comunicazione della nuova strategia pastorale-missionaria posta dall’Esortazione. La premessa appare chiara: se ci vuole trasformare tutto nell’organizzazione ecclesiale in funzione del potenziamento della missione allora si deve trasformare anche la modalità di comunicazione. Ne segue un accenno ai nuovi media che tendono a banalizzare, mutilare e semplificare il messaggio cristiano. Un dato di facile esperienza, anche in considerazione della grande velocità e sintesi imposta alla comunicazione da mezzi come facebook e twitter. Il testo sembrerebbe argomentare sulla comunicazione ad un livello tecnico-organizzativo. Accade invece alla riga 8 di p. 63 un cambio sottile di logica e di ragionamento. Si afferma infatti con una petizione di principio che la comunicazione delle questioni morali rischia di subire un processo di maggiore deformazione da parte dei media rispetto ad altri contenuti cristiani. La motivazione viene individuata dal fatto che il racconto dei temi morali resta sempre decontestualizzato, cioè nella comunicazione si perde sempre il contesto di riferimento. L’Esortazione non spiega come e perché questo fenomeno accada. Il testo non chiarisce come mai questa strutturale de-contestualizzazione comunicativa non accada nella comunicazione dei temi mistici e squisitamente teologici. Il sillogismo si conclude con la presunta constatazione del riduzionismo del messaggio cristiano a singoli aspetti morali, fatto presentato quale deprecabile. Il testo sembrerebbe voler spiegare che la morale cristiana senza la metafisica cristiana non è attraente né comprensibile. La psicologia del testo tradisce un forte pessimismo in tema di comunicabilità della Dottrina cattolica, dato eccentrico in quanto condiziona in controtendenza un testo che vorrebbe inneggiare all’ottimismo dell’evangelizzazione, facilitandolo.

Il linguaggio appare fraintendibile in quanto sembra introdurre una scissione fra “cuore del Vangelo” e morale cristiana, come se questa non appartenesse al primo nucleo vangelico ma ne fosse una sovrastruttura secondaria e successiva. Ripercorriamo il sillogismo per capirne di più la portata: 1) i mass media selezionano il messaggio cristiano 2) i contenuti morali vangelici si comprendono solo se inseriti in un contesto più ampio 3) i contenuti morali non sono il cuore del messaggio vangelico, cristiano 4) i contenuti morali cristiani difficilmente possono essere capiti una volta passati per il filtro dei media. Il testo appare ambiguo perché non considera i seguenti aspetti: a) la selezione semplificante dei mass media riguarda qualsiasi contenuto cristiano e non solo quelli morali b) l’esigenza di un contesto maggiore è propria di qualsiasi approfondimento di contenuto ma la struttura stessa dei media rende difficile ogni approfondimento c) è difficile scindere fra Vangelo della fede e Vangelo della morale e pure non è facile indicare quale sia il “cuore del Vangelo” che sia adatto ad essere comunicato tramite ai media.

Il linguaggio è ambiguo in quanto incrocia in modo disordinato due movimenti: 1. adattarsi alla semplificazione dei media semplificando i contenuti vangelici, riconoscendo così ai media un ruolo performativo dominante sia verso la missionarietà della Chiesa che verso i suoi testi sacri 2. Autoselezionare il messaggio cristiano pre-valutando che la morale non è essenziale al messaggio cristiano, quindi può non essere comunicata. Questo discorso si conclude nel porre l’esigenza di una comunicazione missionaria che sia di massa, raggiungendo tutti, esattamente come i mass media. Il testo non chiarisce come si possa “semplificare” il messaggio cristiano né come possa essere efficace un messaggio che subisce una doppia semplificazione: a monte da parte del suo mittente cristiano, e a valle da parte dei mass media, senza considerare la terza semplificazione, quella operata dai destinatari della comunicazione dei mass media. Il testo non considera che l’effetto della semplificazione potrebbe essere una maggior debolezza nella percezione del messaggio stesso. Il punto 35 recita: “Una pastorale in chiave missionaria non è ossessionata dalla trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine che si tenta di imporre a forza di insistere”.

Qui il linguaggio assume un eccentrico tono polemico/allusivo. Non si comprende però chi siano i destinatari di questa critica. Le omelie di vecchi parroci? Certi movimenti che si battono con dinamismo su temi bioetici? Sembra una polemica precisa: si criticano sia i modi fanatici che le forme disordinate di queste anonime forze che si battono a favore della morale cristiana. Così anonime che non compaiono per nulla nei mass media! Questo passo appare incoerente con la parte finale dell’Esortazione che allude invece all’insistenza quale motore efficace del proselitismo. Nella critica alla missionarietà in tema di morale, eccentrica all’interno di una Esortazione missionaria, si coglie nel testo anche una critica al concetto di “dottrina”. Mentre l’Esortazione privilegia la molteplicità delle forme, sembra invece implicitamente detestare la molteplicità di dottrine, cogliendo la pluralità quale obiezione naturale contro la verità della Dottrina vangelica. Il testo non spiega come possano però esistere molteplici dottrine in tema di morale cristiana. Probabilmente il testo confonde il concetto di “dottrina” con quello di “argomentazione”. Nella parte conclusiva dell’Esortazione, che appare più ricca di citazioni scritturali, come la parte iniziale, al paragrafo L’azione misteriosa del Risorto e del suo Spirito si tratta il tema dell’efficacia dell’evangelizzazione. L’argomentazione eccentricamente non tratta la questione degli ostacoli e delle difficoltà. O meglio, li tratta ma solo all’interno di una logica pragmatistica dove l’esaltazione della resurrezione di Gesù non viene accompagnata da un discorso sull’esperienza della croce. Il discorso rischia di adattarsi ad un concetto di propaganda, di tecnica di proselitismo, dove chi non si arrende prima o poi vince sempre, piuttosto che restare all’interno del concetto dell’evangelizzazione cattolica.

“Perché mi dovrei privare delle mie comodità e piaceri se non vedo nessun risultato importante?” La posizione dialettico-retorica della “domanda tipo” del convertendo, seppure sia una domanda che resta in un ambito di egoismo, non trova come risposta il tema della croce o ragioni afferenti alla prospettiva ultima soteriologica ed escatologica, ma trova come reazione semplicemente l’invito “tecnico” ad una maggiore consapevolezza e convinzione missionaria in uno scenario dato come ideologicamente e aprioristicamente ottimistico. Il sottotesto sembra dire: “se lotti non puoi non vincere”. Il rischio a livello di ambiguità è insito nel fatto che non ci si fonda sul linguaggio scritturale-religioso per suffragare questa convinzione ma su una petizione di principio basata sull’equivalenza automatica: Resurrezione di Gesù/successo empirico del cristiano evangelizzatore. Ma come si misura l’efficacia della missione? Non è pericoloso affidarsi ad una mentalità pragmatica fuoriuscendo da una logica e da una forma spirituale? L’esaltazione del dinamismo organizzato quale motore del proselitismo non rischia di generare aspettative fragili in assenza di una pedagogia della croce quale antidoto al dolore della delusione? Se dobbiamo tentare una sintesi sul linguaggio dei passi considerati possiamo affermare che emerge un incoerenza di fondo fra l’intenzione di creare un clima di entusiasmo, ottimismo e dinamismo, a tutto favore di un rinnovato slancio missionario, e l’autolimitazione dichiarata sui modi e sui contenuti di questa nuova impellente istanza di evangelizzazione. Dai testi considerati infatti emerge che la nuova evangelizzazione debba svilupparsi diminuita, semplificata, selettiva (in quanto non deve riguardare i temi morali), e ridotta fortemente in merito ai propri destinatari in quanto in rapporto all’Islam, all’ebraismo, all’ateismo, alla religiosità non cristiana e alle grandi metropoli multiculturali viene proposto e promosso un annuncio vangelico che deve assumere le forme del dialogo, dell’ascolto, dell’osservazione.

Manca infine nel testo la posizione di un'“immagine di ritorno” rispetto all’esaltazione della metafora dell’"uscir fuori" missionario. Come ritornare? Come ritornano i fedeli? Come entrano i neofiti ? Il linguaggio dei simboli e delle immagini è molto esigente e non lascia scampo in quanto segue una propria logica che è metarazionale ma non per questo meno coerente e rigorosa della logica discorsiva. Uno dei principi chiave di questo linguaggio è quello della simmetria, del bilanciamento. Se sposto il baricentro linguistico verso le immagini e verso “l’allontanarsi” del movimento missionario quale simbolicizzazione della sua fisicità concreta automaticamente inizio a svalutare il punto di partenza: la Chiesa quale luogo fisico/simbolico di ispirazione, aggregazione, formazione. Se i missionari partono devono pure ritornare, come l’immagine degli apostoli e dei testimoni nei Vangeli e il loro ritorno è il momento della conferma, del riconoscimento, della rivelazione (Luca, 10,17-20). Mancando nel testo questo polo di visualizzazione simbolica sia per gli evangelizzatori che per gli evangelizzati, seppure evocato e implicato dalla prima immagine, si apre un problema di comprensione, di comunicazione, di identità. La logica conseguenza di questo deficit linguistico è il pensare che i destinatari del movimento di evangelizzazione “assorbano” gli evangelizzatori, in quanto la loro immagine archetipale resta invece stabile e non dinamicizzata.

Un'altra incoerenza generale del testo riguarda il rapporto fra motivazione ed organizzazione. L’Esortazione vorrebbe porsi quale vademecum di orientamento delle attività pastorali per potenziarne la missionarietà ma dalla struttura stessa del testo e dalle sue partizioni emerge una narrazione che si occupa più di intensificare la motivazione psicologica dei singoli operatori o di descrivere l’esistente al fine di rafforzare la consapevolezza, piuttosto che indirizzare a livello di organizzazione e di filosofia dell’organizzazione. L’efficacia della narrazione sembra incontrare infine ulteriori problemi dalla disorganicità dello sguardo e dell’approccio. Se ripercorriamo la strutturazione dell’Esortazione è facile rendersene conto. La parte introduttiva tratta della “teologia della predicazione”, il capitolo primo si occupa di una filosofia e tecnica della missionarietà rimanendo però su indicazioni generalissime in gran parte autocritiche e delegando agli organismi episcopali la continuazione di questa strategia appena accennata nella logica di una radicale “decentralizzazione” (p. 47) non assistita però da previe chiare e forti linee guida che il testo sembra annunciare ma non esplicita. Il testo non spiega perché la decentralizzazione sia una scelta di valore certa e prioritaria. Il capitolo terzo alterna una “filosofia/poetica/mistica delle motivazioni” dell’evangelizzazione apparendo di una certa concretezza solo nel tema della preparazione dell’omelia. Il capitolo quarto assume una dimensione prevalente di tipo sociologico-filosofico e un tono dominante di osservazione e celebrazione dell’esistente in uno scenario di sfondo di tipo macropolitico. Si resta ai livelli dei “massimi sistemi” e il testo è assente di esemplificazioni realizzative o realizzande.

Il capitolo quinto ritorna all’iniziale teologia della predicazione. Gli ambiti di intervento appaiono disorganici, non riaggregati in uno scenario unitario programmatorio o di indirizzo. A fronte di una carenza testuale di operatività organizzativa si può notare anche una carenza di base scritturale in quanto il testo non presenta citazioni scritturali cristiche o paoline in merito allo stile e alle modalità di evangelizzazione. Il paragrafo 271 presenta alcune indicazioni vangeliche ma appaiono citazioni strutturalmente monche, parziali, decontestualizzate, estremamente selettive. La grande maggioranza dei testi citati (Rm.12,18,21; Gal.6,9, Fil 2,3; At, 2,47 e 4,21-33) riguarda indicazioni sullo stile quotidiano di vita cristiana e non specificamente la missione dell’evangelizzazione, ma al massimo il tema della fedeltà o della conversione. Eccentricamente non si citano i passi di San Paolo sulla predicazione evangelizzatrice. I rinvii al concetto di popolo appaiono decontestualizzati in quanto si tratta di descrizioni del favore del popolo che accompagnava gli apostoli ma in momenti in cui avvenivano miracoli o nel momento della preghiera e della predicazione nel Tempio. Si tratta di situazioni particolari che non appaiono approfondite e illustrate ma vengono estrapolate quali lacerti di testo per giustificare quale regola generale l’avvicinamento del concetto di missione con quello di consenso popolare e di “vita in mezzo al popolo”. Un’associazione di concetti che storicamente e vangelicamente non trova riscontri in senso generale in quanto omette la considerazione del tema della persecuzione che fin dal’inizio connotò le prime comunità cristiane e, periodicamente, tutta la storia del Cristianesimo.

Un'altra eccentricità linguistica la si può ricavare dalla lettura dei paragrafi 268 e 270. Appare dominante il concetto di popolo che viene introdotto in modo innovativo quale “piacere”, “gusto”. Compare quindi un nuovo stile di comunicazione connotato dalla sensorialità e dalla fisicizzazione. La Redenzione viene illustrata in senso collettivo, corale, e il contesto della narrazione si muove in una logica e in uno scenario sociale. L’identità è quella del popolo, il destinatario della salvezza è il popolo, l’alleato di Gesù e dell’evangelizzatore è il popolo. “Così riscopriamo che Lui vuole servirsi di noi per arrivare sempre più vicino al suo popolo amato”. Lo spostamento del baricentro di valore sul termine “popolo” svaluta e decentra il ruolo del singolo e la figura del’individuo. Il testo citato si apre all’ambiguità di una lettura che vede il singolo “usato” nella sua sottoposizione al “popolo” prima che a Gesù, in quanto è il concetto di popolo che assume un ruolo di mediazione generale. Scompare così dalla narrazione evangelizzatrice il tema tipico del linguaggio religioso: la singola anima, con i temi derivati della “salvezza delle anime”, e della “cura e direzione delle anime”. Si può notare infine un’innovazione forte nell’uso linguistico del termine “passione”. “La missione è una passione per Gesù ma la tempo stesso è una passione per il suo popolo” (p. 266) Come appare evidente qui il termine “passione” viene utilizzato nel suo senso comune, laico, umano, (sinonimo di: piacere, affetto, desiderio, inclinazione) mentre nel linguaggio religioso il termine equivalente è solo la “Passione” di Gesù, quale Sua sofferenza redentiva e non “una passione”, che presuppone che possano esservene altre.

Gesù e il “suo popolo” vengono posti linguisticamente sullo stesso piano nel trovarsi accomunati dalla medesima umana “passione”: quella per la missione. Il rischio del testo è ovviamente quello di portare il messaggio ad essere frainteso e percepito più debolmente in quanto la missione evangelizzatrice sembra portata ad un livello di inclinazione personale, di soddisfazione istintiva. Il paragrafo 270 introduce anch’esso una rilevante innovazione nella formulazione della visione e della percezione religiosa e questa volta accade in rapporto al tema del dolore, quasi mai presente nell’Esortazione. “Ma Gesù vuole che tocchiamo la miseria umana, che tocchiamo la carne sofferente degli altri”. Si tratta di un altro esempio testuale dove sembra trovare espressione una formulazione fisicizzante della vicinanza al dolore tale da produrre una narrazione quasi filmica e mitopoietica. Il testo elude il tema tipico del linguaggio religioso sulla metabolizzazione e sublimazione del dolore tramite la sua interiorizzazione-spiritualizzazione propria del ruolo della croce per limitarsi alla celebrazione dello “spettacolo del dolore” a cui non dobbiamo sottrarci in modo da condividerlo con gli altri. La narrazione mette sullo stesso piano in modo intercambiabile “le piaghe del Signore” con la miseria e sofferenza umana, omettendo il discorso sull’ascesi e sulla santificazione e pure il tema della contemplazione e mimesi in rapporto alle “piaghe del Signore” quale modello vivente e redentivo.

Qui il tema dominante è “il contatto”, il non sottrarsi al gorgo interpersonale, al mescolamento sociale, alla promiscuità collettiva, come se la visione del dramma umano possedesse in se stessa una forza evangelizzante e risolutiva. Alla base del discorso emerge un ottimismo di principio secondo il quale l’"entrare in contatto con l’esistenza concreta degli altri" garantisca la conoscenza “della forza della tenerezza” oltre che produrre effetti spettacolari e paradossali del tipo: “la vita ci si complica sempre meravigliosamente”. Il fine ultimo resta lo stesso scopo di percezione collettiva: diventare popolo, sentirsi popolo. Il testo non aiuta a capire se si tratta di percorsi utili alla conversione personale o all’evangelizzazione. Probabilmente queste ultime eccentricità derivano dalla volontà di creare un clima di sentimento e di esaltazione congiunto ad una comunicazione semplificata e selezionata rispetto ai testi vangelici nel presupposto che l’insieme di queste due tecniche persuasive favorisca il successo dell’evangelizzazione. E’ sfuggito infatti il grande valore di programmazione politica proprio dell’Evangelii gaudium. Sebbene il testo non contenga un chiaro orientamento organizzativo, anche a causa del continuo ondeggiare e variare dello stile e del linguaggio (compreso un assai eccentrico inserto di linguaggio penalistico al punto 44), esso pone delle posizioni nuove, apre scenari di innovazione, risolve a monte in modo autoritario questioni ancora aperte, incerte. Questo aspetto unito alla generale indeterminatezza e decontestualizzazione delle affermazioni fa sì che dopo questa Esortazione nulla sia più come prima a livello si riforma ecclesiale. L’Esortazione rappresenta come una “delega in bianco” agli organismi episcopali e ai vescovi al fine della riorganizzazione generale e complessiva della vita di fede, senza però delle linee guida di contenimento.

Due esempi sembrano eccellenti: il punto 45 e il punto 47. Il punto 45 rappresenta un esempio fulgido di illogicità linguistica. Inizia ricordando che l’evangelizzazione incontra limiti e condizionamenti (non si precisano quali) fra cui il linguaggio (che sia un limite però vale in realtà solo per le esperienze mistiche) per poi affermare che l’evangelizzazione si impegna a trasmettere verità, bene e luce “quando la perfezione non è possibile”. Detto questo si ricorda che il cuore missionario è “debole con i deboli, tutto per tutti” citando San Paolo (1Cor. 9,22). La contorta narrazione procede infine per altri convulsi salti di scenario affermando che il cuore missionario non si chiude in “rigidità autodifensive” (termine quasi tecnico, da linguaggio psicologico), ma cresce nei sentieri dello Spirito (non “Santo”?), tuttavia non rinuncia al fare il bene, anche se deve “sporcarsi le mani”. Abbiamo purtroppo un testo molto confuso in quanto procede per continui aggiustamenti e cambiamenti di linguaggio e ambiti di riferimento.

Se dobbiamo schematizzare il senso di questi passaggi che dovrebbero chiarire come è il “cuore missionario” dovremmo redarre questo elenco: 1.) se la perfezione non è possibile poco male perché si può lo stesso comunicare verità, bene e luce 2.) anche dentro i limiti e i condizionamenti si può essere “tutto con tutti”, in pratica come Dio. 3.) per fare il bene bisogna rischiare di sporcarsi con il fango. Qui la maggior eccentricità è data proprio dal porre come iniziale lo scenario massimo e finale del percorso di conversione: il farsi “tutto con tutti”, definizione che San Paolo predica in analogia con la manifestazione piena di Dio alla fine dei tempi. Il testo quindi rischia di veicolare un elevato grado di velleitarismo ed utopismo, descrivendo come una situazione già in atto quello che dovrebbe al massimo porsi quale ideale a cui tendere, e senza indicare i gradi di percorso. Il punto 47 rivoluziona la dottrina dei sacramenti liberalizzando in modo radicale e ideologico l’accesso agli stessi, fino a semplificare anche la dottrina eucaristica in quanto l’Eucarestia non è più segno vivo di gloria e di irradiamento, realtà regale nella sua divinità, ma viene ridotta ad un ruolo puramente terapeutico e strumentale: “L’Eucarestia, sebbene sia la pienezza della vita sacramentale, non è un premio per i perfetti a un generoso rimedio e un alimento per i deboli”. Anche qui la Dottrina appare decentrata nel carattere subordinato della prima proposizione mentre affermazioni generiche e apodittiche aprono ad un nuovo scenario.

Dopo il punto 47 appare inutile ogni discussione sulla limitazione della ricezione dell’Eucarestia da parte di qualsiasi categoria di credenti. Né il testo accenna al sacramento del pentimento quale sacramento propedeutico rispetto a quello eucaristico. Il testo in conclusione non dà pochissimo spazio al ruolo dei sacramenti nell’evangelizzazione. Probabilmente perché ci si colloca in uno scenario nel quale si postula il solo battesimo, come già dichiarato in una omelia papale in Santa Marta dove si citava il caso del Giappone rimasto due secoli senza sacerdoti ma non senza Chiesa, immagine che ricorda quella sul battesimo visualizzata da Lutero: se nel deserto basta il battesimo impartito da un laico perché mantenere il battesimo sacerdotale? Certamente possiamo concludere evidenziando come l'Evangelii gaudium sia un documento eccentrico a livello di impostazione linguistica in quanto sembra focalizzarsi sul dinamismo di motivazione, di partenza, di processualità proprio della missionarietà quale status ma elude di trattare le questioni organizzative, le modalità di approccio, la strategia di sviluppo e di costruzione, né si occupa delle polarità di resistenza o delle questioni connesse ai destinatari dell’evangelizzazione né della questione della croce e della persecuzione, come pure sembra ignorare le dimensioni connesse con l’evangelizzazione e ad esse presupposte cioè le dimensioni proprie di ogni vita spirituale: la preghiera, la vita sacramentale, l’interiorizzazione, l’ascesi, la santificazione, la dottrina, la formazione.

Leggi anche la Prima parte: http://wsimag.com/it/economy-and-politics/8855-il-linguaggio-nellevangelii-gaudium-parte-prima