"Benvenuti a Moynaq". Nodir, la nostra guida, suggerisce la traduzione, ma si poteva anche intuire nonostante l’Uzbeko non sia una lingua familiare. La scritta campeggia ben visibile su uno strano monumento metallico, di forma triangolare, apparso all’improvviso dal nulla che da tre ore accompagna il nostro lungo viaggio nella Repubblica Autonoma del Karakalpakstan, Uzbekistan nordoccidentale.

Al centro del monumento fa bella mostra di sé l’immagine di un pesce che guizza dalle azzurre acque. Siamo arrivati a Moynaq, un tempo uno dei più grandi porti fluviali dell’Asia Centrale. Fino alla fine degli anni ‘70 la città era situata sulla sponda meridionale del lago d'Aral e ospitava una comunità di pescatori che commerciavano quotidianamente 160 tonnellate di pesce catturato dalle acque di quello che un tempo era il quarto lago del pianeta, chiamato anche Mare d’Aral.

Situato nella depressione di Turan, il lago d’Aral è sempre stato un’oasi nel deserto grazie alle copiose acque che i suoi due affluenti, l’Amu Daria e il Sir Daria, hanno garantito per millenni. Poi, negli anni ‘60, il regime socialista decise che questa zona dovesse essere riconvertita alla produzione del cotone per sviluppare l’industria tessile dell’Unione Sovietica. Si iniziò uno straordinario programma di diversione del sistema idrico; le acque dei due fiumi e dei loro affluenti furono catturate e convogliate nei campi di cotone per irrigarli.

Nel giro di 20 anni il prelievo delle acque, e la popolazione residente attorno al lago raddoppiarono. Una miscela esplosiva che è stata alla base del più grande disastro ecologico che l’uomo abbia mai innescato. Nel 1960, tra 20 e 60 chilometri cubici di acqua furono deviati dal loro corso naturale verso il lago. Dal 1961 al 1970 il livello scese a una media di 20 centimetri all'anno per poi triplicare a 50-60 centimetri all'anno, e dal 1980 ha proseguito con una media di 80-90 centimetri. Nel 2007, il Lago d’Aral si è ridotto al 10% delle sue dimensioni originali. La salinità si è alzata a 50 grammi per litro superando di gran lunga le acque degli oceani (35 grammi/litro). L’abnorme utilizzo di additivi chimici, fertilizzanti e antiparassitari ha gravemente inquinato la falda freatica.

Moynak, l’antico porto, che un tempo vantava il 10% della produzione di caviale dell’Unione Sovietica, oggi è distante quasi 100 chilometri dalle acque del lago. Il principale affluente, l’Amu Darya, il leggendario Oxus degli antichi, è lontano quasi 400 chilometri. Nel IV secolo a.C. l’esercito di Alessandro impiegò cinque giorni e cinque notti per attraversarlo, oggi sarebbe solo un guado come tanti. Le zone umide del suo delta sono scomparse, e resta solo un deserto di sabbia: le specie ittiche del lago sono ridotte al 20%. Le navi che una volta galleggiavano nelle acque ora arrugginiscono al sole. Dal 1982 la pesca professionale è finita, i cantieri sono falliti, la disoccupazione e la povertà hanno preso il sopravvento. Lunghi inverni ed estati torride, frequentemente infestate da tempeste di sabbia ricche di pesticidi velenosi, si aggiungono alla piaga della contaminazione delle acque e causano gravi malattie respiratorie ai pochi residenti che hanno scelto di restare in quest’area.

Il Karakalpakstan è uno dei paesi con il più alto tasso di mortalità infantile. Moynaq è una città fantasma. Arrugginite scritte in cirillico e case disabitate contribuiscono ad un'atmosfera da “The Day After”. Qui arrivano pochissimi dei turisti diretti a Samarkanda e Bukara, gli abitanti appaiono apatici e poco contenti della presenza di stranieri che potrebbero fare domande e riaprire vecchie e nuove ferite. Un peschereccio arenato in uno spiazzo pietroso è il monumento al ricordo di un tempo passato, ma non trascorso.

L’aspetto più inquietante è però la visita a un piccolo promontorio che si trova a Nord della città e che un tempo dava sul mare. Una piattaforma di cemento, dove forse avrebbe fatto la sua figura un bar o un ristorante vista-lago oggi guarda il nulla. Una specie di stele in cemento eretta al ricordo di ciò che fu, appare come il simbolo di un mausoleo. Una scalinata di cemento porta direttamente al cimitero delle Navi. Carcasse arrugginite di vecchi pescherecci sono depositate sulla sabbia che un tempo era il fondo del lago. I bambini le utilizzano come case di fantasmi per i loro giochi a costo zero. Le prore puntano in lontananza quasi come a invocare una speranza, che l’acqua ritorni.

Mi viene in mente la nave con cui Fitzcarraldo pensava di attraversare l’Amazzonia, ma quella era solo l’idea visionaria di un film di Werner Herzog. Questa invece è la realtà, e non è facile accettare che può essere anche più surreale di un film. Tornando indietro ripassiamo davanti al monumento con l’immagine del pesce sguazzante e felice. L’Uzbeko mi sembra meno comprensibile ora. La nostra guida Nodir non dice niente. Immagino una traduzione più calzante: “Benvenuti all’Inferno”.