“Ecco il finocchietto selvatico, quello che si mette sulle orecchiette!”. Ne sfreghiamo qualche ramo secco e lo portiamo al naso. Scoviamo un fico d’india e ci mangiamo un cucuncio, il frutto della pianta del cappero. Non siamo in Sicilia, né in Puglia, né in Calabria. Siamo in Piemonte, in Val Chisone, una delle valli valdesi della regione: crocevia, assieme alla Val Pellice e alla Valle Germanasca, di popoli diversi. Siamo precisamente a Pomaretto, in una vigna a quasi 700 metri d’altezza, forti escursioni termiche e pendenza che rasenta l’estremità: fino al 90%. Infatti, dove ci troviamo, una cremagliera si insinua nella natura, affiancando i terrazzamenti scanditi dai muretti a secco: supporto importante in momento di vendemmia.

Tante farfalline colorate ci scappano allo sguardo e le scarpe si sporcano di polline. Una vigna così è rara, è vegeta, è bella. Le piante sono in salute, non mentono: dalle foglie, ancora di colore verde vivo, ai tralci, compatti e ben tenaci. E tra i filari e i ceppi: erba, necessaria per evitare il dilavamento del terreno, poiché la pendenza è elevata. Siamo nella vigna di Daniele Coutandin. Un vigneron dalle mani attente, forte senso critico e grande capacità di interpretazione sistemica dell’ambiente. Dopo un passato professionale trascorso a fare qualcosa che aveva capito non facesse per lui, Daniele ritorna alla natura: decide di occuparsi della vigna e produrre vino; attività che già suo padre, operaio in pensione, aveva avviato alcuni anni prima.

Molti nella Val Chisone si sono estraniati dal contesto naturale, l’industria fino a qualche decennio fa era decisamente presente in diversi settori, da quello tessile a quello meccanico. Ora la situazione è cambiata, diversi stabilimenti hanno chiuso e “la gente che è restata a casa non è capace a far niente” – ci dice Daniele. Lui, invece, è ora convinto di quello che fa, trae quotidianamente con fatica una felicità sincera. Sa bene come comportarsi con la natura, non le chiede più di quello che può dare. Massimo rispetto per le piante e l’ambiente, nessun tipo di concime chimico, né diserbante, niente letame. I trattamenti in vigna sono esclusivamente rame e zolfo, dati con parsimonia e attenzione. Sono prodotti naturali, sì, ma la pianta, di alti dosaggi, non se ne fa niente. I vigneti, che si estendono frammentati per poco meno di un ettaro, sono per lo più ad alberello, belli e vegeti. Si fondono con la natura selvaggia, boschi tutt’attorno popolati da volpi (ahimè golose d’uva), tassi e molti altri animali.

I suoi vitigni sono tutti autoctoni, principalmente Avanà, Avarengo, Bequet, Barbera, spesso mischiati tra di loro in vigna. Daniele li vinifica per fare il Ramìe, vino che nel 1996 ha ottenuto la Denominazione d’origine Pinerolese. La vendemmia viene fatta a scalare poiché le uve, di varietà diversa, non maturano tutte assieme. Anche in cantina, si fa l’essenziale. Niente solforosa e nessun lievito aggiunto. Infatti per avviare la fermentazione alcolica crea una sorta di “madre” di lievito: raccoglie 7-8 chili di uva, la pressa un poco e la lascia in un recipiente con l’ammostatore di legno contaminato dai lieviti di un vino già prodotto.

I tempi sono lunghi per il Ramìe. L’uva, diraspata e pigiata, viene messa a fermentare e, dopo la fermentazione malolattica, in acciaio, rimane due inverni a riposare. Niente filtrazione, né chiarificazione. Il risultato è comunque un vino pulito, dal colore molto intenso, fresco, profumato e leggermente minerale. Buono, nient’altro. Se tutti i vigneron fossero Daniele Coutandin, sono sicura che non cercheremmo nessuno di diverso. Non avremmo noia, solo piacere.