La città di Ferrara è un insieme di bellezza estetica e intensità della storia che qui ha sedimentato innumerevoli eventi, memorie e destini; è socialità, ambiente e qualità della vita; è equilibrio e armonia; è anche buon gusto e buona tavola, eredità non secondaria di quel periodo storico straordinario, di gran prestigio e di grande sviluppo che fu il Rinascimento, che in questa città ebbe uno dei suoi momenti di migliore espressione.

Durante il Rinascimento, i diversi blasoni organizzavano di continuo convivi e pranzi che potevano coinvolgere anche centinaia di persone e durare più giorni. Dato che erano caratterizzati da una straordinaria abbondanza di vivande, quando possibile, erano preceduti e seguiti da periodi di vero e proprio digiuno. I cibi erano consumati in più riprese tra balli, rappresentazioni teatrali, tornei e giochi vari. Sovente, tra un intrattenimento e l’altro si stabilivano accordi, combinavano matrimoni, definivano strategie e formavano alleanze semmai ai danni di chi non era stato invitato. Gli incontri servivano anche per dimostrare agli ospiti la propria potenza e capacità economica e mettevano in gioco il prestigio stesso dei padroni di casa: di fatto non mancarono anche alti lignaggi che finirono in rovina nel tentativo di tenere testa a quel ritmo vorticoso economicamente molto impegnativo.

Un rischio che non toccava gli Estensi di Ferrara che potevano contare su robuste ricchezze e su un territorio molto ampio dal quale attingere numerose materie prime di qualità. La loro, in più, fu una delle prime corti a istituire la figura del Maestro di cerimonia, ciò di colui che aveva il delicato compito di sovrintendere e garantire la realizzazione ottimale dei festini. Una esorbitante responsabilità che era ripagata con fama, ricchezza e potere ma che imponeva grandi abilità e perizia. Per esempio in un banchetto non dovevano mai mancare ingredienti particolari, cibi ricercati e coreografie nuove, come non dovevano sfuggire dettagli fondamentali nella sistemazione a tavola, secondo l’importanza o la convenienza, degli invitati, cui corrispondevano anche trattamenti e servizi differenziati. Fa così il suo ingresso nella disposizione delle stoviglie, nella preparazione dei cibi, nella presentazione delle portate, attentamente studiate per suscitare stupore e meraviglia, un fondamentale tocco artistico e i banchetti diventano veri e propri eventi esclusivi, riservati alle classi nobili.

Messer Messisbugo, nacque a Ferrara sul finire del Quattrocento, e, a coronamento di una brillante quanto rapida carriera, fu presto nominato Maestro di corte, ruolo che interpretò nel miglior modo possibile, tanto che decise, quando ognuno tendenzialmente celava gelosamente i propri segreti, di divulgare le sue mansioni in un testo che intitolò Banchetti, composizioni di vivande et apparecchio generale.

L’opera è, di fatto, un manuale, una vera miniera di notizie utili e di suggerimenti pratici da applicare tra la dispensa, la cucina e la sala da pranzo. Per esempio, evidenzia quali tagli applicare alle diverse carni, elemento affatto trascurabile dato che una capacità tra le più apprezzate di quei tempi era quella di saper “sconvolgere” l’animale, cioè di riuscire a presentarlo, dopo la cottura, in modo che diventasse irriconoscibile o si potesse addirittura confondere con un altro.

Nella sezione dedicata alle ricette, invece, fanno la loro comparsa gli abbondanti menù dei pranzi che comprendevano alcuni piatti d’alta cucina realizzati con carni bianche, pesci e frutti di mare; preparazioni decisamente ricche di condimenti; pasticci; salse; erbe aromatiche e spezie; cibi esotici; abbinamenti anche temerarie e alcune rielaborazioni con ingredienti locali di ricette di derivazione francese e tedesca.

Ecco un esempio di un menù, decisamente ricco e abbondante, le cui portate, si ricorda, dovevano giungere in tavola contemporaneamente e alla giusta temperatura: involtini di polpa di cappone fritti e ricoperti di zucchero; orate alla griglia con prezzemolo guarnite con cipolline speziate soffritte nel burro; pasticcini di pasta reale imbottiti di uova, formaggio e zucchero; fagiani in agro dolce arrostiti con arance spaccate al miele; quarti di vitello marinati alle amarene.

I dolci meriterebbero un capitolo a parte.

Alcune delle ricette elaborate in quel periodo, sono riuscite a superare l’esame dei secoli, sono giunte fino a noi e rappresentano un’interessante testimonianza, non solo gastronomica, dell’epoca rinascimentale. Eccole:

Marinata ottenuta utilizzando abbondanti quantità di vini rossi bruschi serviva, quando il ghiaccio era una rarità, a conservare i tagli di carne e la selvaggina già preparati e in attesa di essere cucinati e a mascherare gli inevitabili gusti e odori forti.

Agrodolce l’aggiunta di zucchero o miele e di qualche spezia a una base di aceto o di succo d’uva acerbo, serviva invece a dolcificare e addensare il condimento di base, rendendolo adatto ad accompagnare alcuni cibi.

Coppie ferraresi, inconfondibile forma di pane intrecciato, realizzato con un impasto caratteristico, da consumarsi fresca o, dopo alcuni giorni, come pan biscotto.

Tortello di zucca, vera specialità, contesa a Mantova e alte località della bassa padana, realizzata farcendo la pasta all’uovo con una purea di zucca cotta al forno, aromatizzata con noce moscata e rinforzata con parmigiano reggiano; una variante più raffinata prevede l’aggiunta di un pizzico di zucchero, di sesamo e di bucce candite di arancia.

Pasticcio alla ferrarese, si presenta come un involucro di forma piramidale da gratinare al forno, realizzato con pasta frolla o, a seconda del gusto, con pasta sfoglia, addolcito con zucchero e farcito di maccheroncini conditi con un ragù bianco di carne mista, besciamella e parmigiano.

Salama da sugo, una vera attrazione gastronomica locale, un insaccato di carni di suino aromatizzate con vino rosso, dalla forma sferica del peso di circa un chilo, da cuocere al vapore per almeno quattro ore, da servire caldo e consumare a cucchiaio con abbondante purea di patate.

Carrè di cinghiale, da accompagnare con una riduzione di fondo di cottura aromatizzato con spezie, datteri, uvetta, nocciole e mandorle.

Anguilla marinata, tocchetti di anguilla impanati con farina e pane grattugiato, fritti in abbondante olio e messi a marinare aggiungendo chicchi di uvetta.

Torta tagliatella, base di pasta frolla e impasto morbido di mandorle spruzzate con amaretto; la particolare decorazione di superficie, ottenuta con tagliolini all’uovo, s’ispira ai capelli dorati di Lucrezia Borgia.

Panpepato, un dolce mozzafiato con un interno morbido di cioccolato aromatizzato con spezie, mandorle e scorze d’arancio, glassato e ricoperto di cioccolato.

Mandorlini del Ponte, accattivanti dolcetti rotondi e croccanti, confezionati con mandorle tostate, chiara d’uovo, zucchero e farina.

Nell’elenco, però, c’è ancora da inserire un elemento. Non tanto una ricetta quanto una tradizione nata proprio in quel periodo sfarzoso, quella del pranzo importante e abbondante che, ancora oggi, ogni tanto, per divertimento e ricorrenze religiose o private, in barba alle correnti regole di alimentazione, ci concediamo e che, per una mezza giornata, trasforma la nostra cucina in una fumante fucina di profumi e di sapori e vede noi, impegnati a realizzare le nostre ricette preferite e a imbandire, come dei veri cerimonieri, la nostra tavola per allietare i nostri ospiti.