Nel film La fonte meravigliosa del 1949, regia di King Vidor, uno splendido Gary Cooper interpreta un integro e incorruttibile architetto dalle idee controcorrente tanto da finire sotto processo. In una delle scene clou dice: “Io non costruisco per avere clienti: cerco clienti perché voglio costruire”. A questo punta Diego Cusumano, istrione dell’omonima azienda di famiglia e cultore di quella pellicola: «Non serve seguire le mode o il mercato, bisogna progettare consapevoli che qualunque cosa fai non è per ora, ma per sempre. Quindi non puoi farti influenzare, devi seguire la tua convinzione e poi conquistare gli altri e con gli altri costruire. Serve, in una parola, coraggio».

Audace è stato suo padre Francesco Cusumano, capostipite dell’azienda, che ha prodotto uva e vino sfuso per tutta la vita scegliendo anche terre difficili come quelle della provincia corleonese (nota per le cronache di mafia), ma puntando su una frazione dimenticata dal mondo come Ficuzza, oasi di natura e storia a 700 metri di altezza, intuendo un futuro nella viticoltura in quota: oggi qui nasce il loro “brut 700”, solo 15 mila bottiglie e un affinamento di 36 mesi. Prima, però, Cusumano senior si limitava a rivendere a terzi che imbottigliavano con le loro etichette. È nel 2000, cedute le redini ai suoi due figli – Diego, laureato in economia e Alberto, laureato in agraria – per traghettare l’azienda nel nuovo millennio, che Francesco quasi si mette a piangere di gioia vedendo la prima bottiglia marchiata Cusumano segno del nuovo corso. E sebbene l’impresa sotto la direzione dei fratelli Cusumano abbia solo 18 anni, è già amata e premiata dalle guide nazionali e internazionali e ha seminato con decisione uno stile improntato alla bellezza, al piacere e – appunto - all’audacia.

Dunque, Diego: quanti atti di coraggio sono serviti perché l’azienda diventasse maggiorenne?

Parto da un errore perché quello ci ha portato verso scelte all’apparenza più “azzardate”. Un certo vino aveva molto successo e c’era grande richiesta, che si fa? Si aumentano le quantità. E invece avremmo dovuto far crescere il desiderio di quel vino, andare contro corrente. Il coraggio è fare qualcosa che gli altri non farebbero. Per esempio: io e il mio staff abbiamo deciso di tagliare il 50 per cento della produzione per aumentare la qualità. È una scelta antieconomica, ma lo fai perché guardi alla maggiore qualità nel futuro.

Un bel lusso

Pensi che il mio sogno è liberarmi dalla “fatturopatia” e seguire progetti che possano dare al brand valore fuori dalla portata del fatturato, appunto. E mi convinco che sia la strada giusta se penso al Moscato dello Zucco: prodotto nell’Ottocento nelle terre di Henry d’Orleans duca d’Aumale, era tra i vini perduti. Lo abbiamo ripreso, piantato nei terreni di Milioto a Partinico e dopo sette-anni-sette eccolo il primo moscato tenuto in barrique per due anni e uno in bottiglia. Una gemma, tanto che è proposto nel ristorante newyorkese di Bouley: il suo sommelier francese - francese! rimarca Diego sornione - lo ha inserito in carta! Con questo Moscato in termini di fatturato ci perdiamo meravigliosamente, ma non ci rinunceremo. Un tempo queste erano scelte normali perché il mondo andava più lento. Oggi invece si ragiona in base ai follower, ma io penso che l’approccio debba essere filosofico, in particolare su certi vini. La tecnologia, al contrario, deve andare avanti veloce, innovare. Vedi il tappo di vetro.

Parliamone: è diventato un vostro segno distintivo

Lo usiamo sui vini affinati in acciaio, non sui Cru, ma è stato un bel cambiamento avviato nel 2005. Ero in viaggio in Austria e lì vidi per la prima volta una bottiglia con quella chiusura. Oh, Alberto (il fratello, direttore della produzione ndr) ho visto una cosa fantastica! Gli dissi al telefono. Ero impaziente, entusiasta. Alberto è stato un grande pilota poi si è allontanato dal rombo dei motori, ha scelto la campagna e il silenzio e in quel silenzio mette in moto la sua testa da cui spunta sempre una soluzione. Così, insieme con il preziosissimo Mario Ronco, ci abbiamo lavorato cinque anni adeguando il collo delle bottiglie a questi tappi in vetro che sono naturali, inodore.

E tolgono l’assillo dal famoso sentore di tappo

Dici niente! Un sughero col fungo (l’armillaria mellea, ndr) può mandare all’aria tutto! Uno concentra gli sforzi e il pathos – il pathos ragazzi! - nella scelta dei terreni, nelle colture, nella semina e poi nella vendemmia che è uno stress, un arrovellamento su quando raccogliere l’uva: quel tal giorno ma non è pronta o dopo cinque giorni anche se sai che pioverà? Se la raccogliamo prima otteniamo il livello medio, se aspettiamo la pioggia potremmo perdere tutto. Il nostro socio di maggioranza è il Padre eterno, noi dipendiamo da “chiddu chi vole u padre eterno”. E con il Santissimo il lavoro diventa di un fascino senza pari perché nulla è certo. Io sono un temerario ma non scellerato e però ho scelto quasi sempre di affrontare il rischio perché se la pioggia non ci danneggia e la maturazione interna dell’uva sarà perfetta allora avrò un prodotto finale di qualità più alta. I produttori di vino sanno di cosa parlo. Il coraggio sta nello scegliere quello che altri al tuo posto non farebbero, l’ho già detto? Sì, e lo ripeto. Se ci credi devi giocartela fino in fondo. E quindi se dopo ‘sto mescolio di suspence, travaglio, amore, in tavola arriva una bottiglia col tappo di sughero col fungo… be’ addio! Benedetta sia quindi questa innovazione!

Lei racconta la vendemmia come un’impresa agonistica

Il vino è il prodotto dell’opera umana, di mani, muscoli, testa. Sa quante ore di lavoro di uomini e donne s’impiegano nell’intera filiera produttiva? Un giorno mi sono messo lì e ho fatto il conto: da tre a quattro mila ore. Ecco perché bere il vino deve tornare a essere quello che è: un piacere e un lusso. Il piacere di assaporare il frutto della fatica. Il lusso di una voluttà non necessaria.

Quindi un privilegio per pochi?

L’acqua è un bene primario, il vino no. Senza acqua muori, senza vino no. Il vino deve essere trattato come un bene di lusso perché è un premio. Secondo me questa è anche la chiave per intrigare i giovani, sia consumatori sia potenziali viticoltori. Serve trasferirgli “lo wow” che sta dietro al gesto. E a chi sceglie di diventare artigiano della vigna bisogna chiedere grande preparazione, ché in agricoltura non s’improvvisa, ma anche offrire compensi importanti proprio in virtù di quel gesto che ha valore e dà piacere grazie alle fatiche umane, le ricchezze della natura, la conservazione di paesaggi e tradizioni secolari.

E un secolo ha il vigneto di Altamora sulle pendici dell’Etna dov’è tutto «di un lento profondo, meditativo» racconta Gaspare Daria, responsabile dei vigneti Cusumano, e ancora, mentre mostra gli appezzamenti di Ficuzza che a tratti paiono un ricamo, a tratti un mosaico «questa disposizione serve per i venti e per il tipo di terra», spiega e ne parla con una delicatezza commovente come fossero - decidete voi - figli o fidanzate: «qui facciamo l’Angimbé un vino musicale e con l’insolia il Cubìa di rara aderenza territoriale; oltre il laghetto ci sono delle oasi di vigneti dismessi e poi lo Chardonnay e il Pinot nero rosato», seguono nomi dolci e potenti come la terra che ci sta davanti: lo Jalé, sinuoso, l’aggraziato Ramusa e poi Sàgana e Disueri dal nero d’Avola della tenuta San Giacomo, calata in un paesaggio che «pare un torrone bianco, tanto la luce abbacina la terra» dice Gaspare citando quel che gli sussurrò un giorno un contadino. Si avvicina a noi Diego e, buttando l’occhio verso le colline ricamate, sciorina la sua filosofia: «Perché la bellezza è bella quando la forma e la sostanza s’incardinano. La bellezza è oggettiva, la vedono tutti: il broccolo romano è bello, la melanzana siciliana è bella e anche sensuale perché è rotonda come la Gioconda e Sophia Loren da giovane. Ed è questa bellezza che mettiamo nel nostro lavoro». La definisce un regalo della Provvidenza che, ironia della sorte, è anche il nome di sua madre, donna «semplicissima, ma capace di sacrificarsi pur di portare a compimento la fioritura. Come fa la vigna».