“Con quella faccia un po’ così, quell’espressione un po’ così che abbiamo noi che abbiamo visto Genova…”. A Paolo Conte siamo molto grati per quel “un po’ così” che definisce l’indefinito. Ecco: questo è un resoconto “un po’ così” di alcuni giorni americani. E’ stato scritto con le voci di Frank Sinatra e di Liza Minnelli in testa: New York New York.

Bilancia
Grazie alle indicazioni del “politicamente corretto” (il famoso politically correct della versione originale), in voga da almeno trent’anni, abbiamo finalmente smesso di insultare le minoranze e i cosiddetti “diversi” con le parole e con il pensiero. Con il pensiero, a dire il vero, non si sa. Infatti, anche se a parere degli studiosi più ottimisti l’umanità è felicemente avviata su un cammino di evoluzione perpetua spesso viene il dubbio che l’antenato in noi sia sempre pronto a saltare fuori dalla caverna e che dica omosessuale continuando a pensare finocchio, soprattutto ritenendo che il finocchio sia proprio qualche cosa che non va. E così per i neri, i gialli e per qualunque essere umano si trovi a un certo momento nella posizione sbagliata.

E’ perciò davvero spinoso affrontare una questione che, viaggiando negli Stati Uniti d’America, anche facendosi un impacco mattutino di politically correct, si presenta come irrinunciabile. Che atteggiamento assumere, dentro di sé s’intende, con gli obesi, obesissimi che s’incrociano a ogni passo? Viene un po’ da piangere per lo scempio di intere generazioni che camminano con il fiatone, un po’ da sorridere, come il bambino spietato che tormentava il compagno sovrappeso chiamandolo “cicciabomba”, un po’ si sviluppa una morbosa attrazione per le (non) forme gigantesche, quasi di montagna, dei nostri fratelli super e per le sbobbe e le pappe iper-caloriche che merenda dopo merenda si depositano sul corpo ingiuriato dall'abbondanza priva di cultura del benessere-malessere.

Se non intervenisse un inespugnabile autocontrollo si potrebbero passare ore a fissare la vicina in treno, calcolando quante nostre cosce si farebbero con una sola delle sue, o le vetrinette delle catene dei fast-food dolci e salati a veder stillare di grasso e coloranti ciambelle e simili dall’odore sospetto ma, in fondo, non troppo disgustoso. Non si può pensare, ad esempio, che gli obesissimi sono ingombranti, che indossano male i jeans e che dovrebbero mettersi a dieta. Si può pensare che è colpa della società, ricordandosi, però, che la società siamo noi e che bisognerebbe inventarsi qualcosa perché i saperi non si disperdano. Prendiamo gli italiani: ma come possono accettare l’importazione della bruttezza alimentare a catena rinunciando a una tradizione del cibo pressoché ideale? Ah, se tutti i popoli della Terra importassero dagli altri il meglio. Sarebbe globalizzazione, ma paradisiaca.

Il tovagliolo di lino
Giovanni Rana - vogliamo concederci lo sfizio della banalità giornalistica e chiamarlo il re del tortellino? - è talmente abile a farsi la pubblicità da solo, mettendoci la sua faccia rassicurante, che parlare bene di lui è inutile, anzi potrebbe guastargli la festa. Il fatto, però, è che viene proprio voglia di elogiarlo, più che altro perché risveglia l’orgoglio patrio. Questo intraprendente signore veneto, oltre a essersi inventato una macchina per fare la pasta che riproduce il movimento delle mani e rifornire da decenni di ogni sorta di raviolo tutta l’Europa, un paio di anni fa ha messo su uno stabilimento negli Stati Uniti e aperto un ristorante a New York, nel caratteristico Chelsea Market. Ebbene, è capitato che una giornalista italiana, invero non troppo impegnata a seguire le attività di Mr Rana né acquirente dei suoi prodotti, essendo invitata a cena fuori da un’amica sua, gran signora e intenditrice di sapori, si trovasse a scoprire un mondo.

Giovanni Rana in persona era a tavola e concedeva autografi ad avventori emozionati. Potenza degli spot, della società dell’immagine, del consumismo, del quarto d’ora di celebrità per tutti profetizzato da Andy Warhol? Sì, certo, eppure Mr Rana si merita il trattamento da star. Il locale è autentico, sano: non la rappresentazione stantia dell’Italia pastasciuttara, ma un luogo di stile, dove si mangiano ottimi piatti e, dettaglio non trascurabile, i tovaglioli sono di lino. Un’immagine simpatica della stessa serata: disinvolta, in abitino schiuso sul florido petto mediterraneo e decolleté rigate dal tacco alto, una delle donne di casa Rana, dato che le commesse avevano finito il turno, ha venduto la pasta fresca a un cliente ritardatario. Un’elasticità che negli Stati Uniti è infrequente, succede che a un ricevimento il cameriere che fino a un momento prima ti aveva solleticato ogni minuto con bocconcini golosi non ti si fili più se ti sposti di poco dal suo circuito mentale, magari sedendoti. Difficile da giudicare: non si può dire che manchi l’iniziativa. Forse, nello svolgimento dei compiti assegnati, difetta la visione d’insieme.

Dove le cose accadono
Qualcuno la visione d’insieme ce l’ha eccome. Nonostante “il declino dell’impero americano” sia annunciatissimo e magari vero, a New York si ha ancora la netta impressione di essere nel posto dove le cose accadono. Dove gli spunti piccoli e grandi trovano una sintesi e diventano una cosa nuova, vibrante. Al 110 della venticinquesima strada, fra Park Avenue e Lexington, c’è NeueHouse, uno spazio che decreta la fine del “tempo libero”, quello che sottolinea come il tempo del lavoro sia una vita a parte da passare con il fiato sospeso, in attesa della pausa.

NeueHouse è un ufficio collettivo, un ufficio al servizio della cinematografia, del design, della moda, dell’editoria, della tecnologia, dove la vita ritorna a essere una a disposizione di chi la vuol vivere: libera anche quando è occupata. Un ufficio, al quale bisogna essere iscritti, come a un circolo, che offre sale conferenze, soggiorni, studio di registrazione radio e tv, biblioteche, cucina, divanetti in una piccola alcova, cuscinoni in un’area che sembra un teatro greco. Un ambiente professionale per creativi completamente ripensato dichiara il manifesto fondativo e talmente d’ispirazione che ti viene voglia di farne parte. L’arredamento è quello sapiente di chi riesce a porgerti tutta l’America del passato, dal Sud delle piantagioni di cotone agli anni Cinquanta, insieme con quella vicina, in una contemporaneità naturale che suscita una nostalgia struggente, un desiderio struggente di futuro e, soprattutto, una grande consapevolezza del presente.

La “mousse lesson”
La sonorità delle quattro esse della “mousse lesson” suggerisce la schiumosità delle chiare d’uovo montate a neve che rendono un impasto di cioccolata una spuma, la mousse au chocolat. Le quattro esse rimandano anche alle virgole dei frullini che montano gli albumi. La “mousse lesson” (lezione di mousse) è l’invenzione d’autunno dell’alta società italiana a New York: la padrona di casa riceve in cucina, con un bel grembiule di tela spessa, e prepara il dolce davanti ai suoi amici stretti. Senza panna non perché è più snello (ben venga), ma perché è più buono, meno stucchevole: solo cioccolato fondente di qualità somma, uova di campagna da comprare al mercato contadino di Union Square, e un pizzico di sale.

Non sembri una futilità da sfaccendati: la “mousse lesson” si incunea fra un lavoro e l’altro, si tiene a ore insolite, e ha lo scopo di diffondere una preparazione ben curata, di ribadire l’importanza e la gioia del ricevere, al di là della fatica. Insomma, è una forma di resistenza contro il cibo spazzatura perché, nonostante le calorie, la mousse au chocolat è dietetica, a modo suo. Il modo della cultura.