Potrebbe, ad una prima superficiale impressione, apparire come un argomento da gossip, da dorato mondo stellato, nel quale stuoli di giovani del terzo millennio vogliono entrare a tutti i costi come dimostrano innumerevoli trasmissioni televisive in tutto il mondo. Un must, un fiore all’occhiello, un modo per allontanarsi dal piattume della vita quotidiana fatta di ufficio, fabbrica, obblighi familiari e via dicendo.

Il clamore che ormai da due decenni provoca il ruolo dello chef in ogni dove, il moltiplicarsi di scuole, di talent, il valore che viene attribuito all’inventiva, alla competenza e alla capacità di chi riveste questa figura, l’altrettanto importante valore della sperimentazione enogastronomica, il valore economico che il mondo che gira intorno allo chef rappresenta e, non ultimo, il piacere di provare quel che gli chef propongono, i risvolti sull’utilizzo dei prodotti naturali, delle materie prime, del modo di trattarle, sono altrettanti elementi che richiedono attenzione. Attenzione crescente in ogni angolo del mondo.

L’epidemia di Coronavirus e il suo drammatico risvolto che ha chiuso la nostra vita sociale e che la modificherà anche in futuro, ci forniscono allora l’occasione per parlare certo di chef, ma in un’ottica del tutto particolare e diversa dal solito. Quella del lavoro dello chef, del suo impegno diuturno, della pressione mediatica, della pressione del pubblico, degli estimatori e chi più ne ha più ne metta.

La domanda che sorge spontanea è allora: che cosa vuol dire realmente diventare uno chef e lavorare come chef?

Lo spunto, tutt’altro che di gossip, viene dalla scienza. E l’interrogativo al quale si vuole dare una risposta è se il lavoro dello chef è davvero stressante, al di là del successo, dei galloni, delle classifiche e del mondo dorato e stellato che si muove tutto intorno. La domanda è stata affrontata da uno studio del Cnr-Irib (Istituto per la Ricerca e l'Innovazione Biomedica del Consiglio Nazionale delle Ricerche) di Cosenza, a cui ha partecipato l’Università “Magna Graecia” di Catanzaro, pubblicato sulla rivista Frontiers Public Health.

Secondo lo studio, gli anni di servizio e il numero di ore settimanali sono tra i principali fattori scatenanti dello stress psicologico e dell’insorgenza di malattie organiche a carico dell’apparato muscolo-scheletrico e cardio-circolatorio di coloro che si dedicano a questo lavoro. Indicazione che è suffragata dai dati raccolti nel confronto con 710 cuochi italiani, promosso dalla Federazione Italiana Cuochi.

La domanda, per così dire ontologica, non è nuova, ma per il nostro Paese è il primo studio in merito. Ad occuparsi del tema era stato quasi tre anni fa, il quotidiano britannico The Guardian, con un articolo nel quale partendo dalla citazione di un’indagine qualitativa promossa dal sindacato dei cuochi britannici e irlandesi, per la prima volta si mettevano in luce gli effetti negativi dello stress sulla salute degli chef.

Ora tocca ai cuochi, pardon agli chef, italiani. Fare questa professione, allora è veramente stressante? E qual è il rapporto tra stress psicologico e la presenza di malattie professionali nell'intera popolazione di chef?

Lo studio promosso dal Cnr-Irib ha preso le mosse dalla considerazione che “il lavoro dello chef è uno di quelli più esposti a rischi per la salute dovuti allo stress, ma mai nessuno ha fornito una valutazione scientifica quantitativa dei rischi e delle sue caratteristiche”, come ha spiegato Antonio Cerasa coordinatore della ricerca. “Il nostro studio - osserva - ha definito per la prima volta, in maniera quantitativa, il legame tra stress, lavoro e salute nella categoria dei cuochi italiani, utilizzando un approccio analitico ai dati statistici risultanti dall’elaborazione del materiale messo a disposizione dalla Federazione”.

Per realizzare la ricerca epidemiologica, è stata messa a punto un’App dove tutti gli iscritti alla Federazione, potevano collegarsi e, compilando dei moduli demografici e dei test psicologici, partecipare all’indagine scientifica”. Un interesse specifico e un’attenzione sottolineata da Rocco Pozzulo, presidente della FIC (che conta quasi 20mila iscritti in tutta Italia): “Le malattie professionali sono uno dei temi alla nostra attenzione. Lo stress in cucina è effettivamente altissimo, causato da tensioni e pressioni psicologiche dovute principalmente alla mole di lavoro, alle numerose ore trascorse in cucina in uno spazio spesso piccolo, affollato e troppo caldo, a un livello di concentrazione che deve essere sempre al massimo, al numero di dipendenti da gestire, ma soprattutto al giudizio costante del cliente a cui si è sottoposti”. Di questa “condizione” patologica per così dire - che un po’ contrasta con la visione dello chef di successo osannato e intervistato – sono stati destinatari come abbiamo detto 710 chef italiani. Le caratteristiche medie del campione sono state: 88% maschi, età 44.4 anni, media lavorativa di 24.9 anni, ore di lavoro settimanale 66.4. La ricerca ha inteso attraverso questionari appositi e i dati dell’App valutare se il rischio da stress professionale fosse correlato al tipo di lavoro e come questo potesse influire sulla salute. Il modello di analisi comprendeva caratteristiche individuali (come età, sesso o body-mass-index, ovvero indice di massa corporea) e variabili legate al lavoro come la categoria professionale (per esempio, capo, esecutivo, lavapiatti, freelance), o la durata della giornata lavorativa”.

“Per quantificare il legame causale tra le variabili in gioco - ha osservato Cerasa - è stato utilizzato un modello statistico chiamato Structural Equation Modeling (SEM), che consente di testare contemporaneamente varie ipotesi”. Dopo una prima fase di validazione dei test, il modello ha rilevato che gli unici due fattori associati significativamente con la presenza di alti livelli di stress e di malattie organiche a carico dell’apparato muscolo-scheletrico e cardio-circolatorio sono gli anni di servizio e il numero di ore di lavoro settimanali”, l’indicazione fornita a sua volta da Marco Tullio Liuzza, docente di Psicometria dell’Università “Magna Graecia”.

“Dall’elaborazione dei dati è risultato che il 47% degli chef ha riportato almeno due o più problemi di salute nella vita lavorativa, e la relazione tra le variabili lavorative e lo stato di salute è mediata dagli alti livelli di stress professionale presenti nella popolazione dei cuochi in una percentuale tra il 13.8% e il 24.9%.

Questo dato è rilevante perché gli effetti negativi delle eccessive ore di lavoro sulla salute sono già state riportate in altre categorie lavorative come chirurghi, personale d’ambulanza, colletti bianchi, poliziotti, militari. Grazie a questa ricerca si conferma quindi che anche nella categoria degli chef superare le 60 ore di lavoro a settimana è un forte fattore predittivo di malattie organiche”, la conclusione del capo ricercatore.

Una conclusione che collima con altri studi del genere, compiuti negli anni, come quello ricordato sugli chef britannici e irlandesi ma anche con uno precedente, analogo, portato avanti a riprova dell’impatto personale e sociale della professione altrimenti stellata, da atenei del calibro di Harvard e Stanford che avevano raggiunto la convinzione suffragata dai dati raccolti che il lavoro accanto ai fornelli sia tra i dieci più stressanti del mondo, al pari di quelli dei chirurghi e degli agenti di polizia. Due casi certamente indicativi del peso limite al quale gli appartenenti ai due settori sono sottoposti nell’esercizio delle loro funzioni professionali.

Ora, dunque, il cappello a sbuffo dello chef, sinora considerato elemento di allure e di successo, manifesta l’altra faccia, quella di un lavoro pesante, stressante, anche non sempre gratificante malgrado le luci della ribalta, se paragonato agli effetti fisici e psichici. Ecco allora che ci appaiono in tutt’altra luce i casi di chef che si sono tolti la vita. Ognuno poteva avere problemi di equilibrio personale certamente, ma non è peregrino ritenere che il lavoro stesso possa aver giocato un ruolo pesante nella decisione estrema. In molti stanno anche riflettendo sull’opportunità, come avviene per molte professioni ad alto livello emotivo, di identificare percorsi di supporto psicologico adeguati a percepire i segnali dello stress e a poter intervenire in aiuto di quanti non accorgendosene in tempo rischiano problematiche, come si è visto, di diversa natura non solo fisica.

Possiamo dire che, d’ora in poi, pur invidiando in qualche occasione la figura dello chef, dovremo guardarla con un altro approccio, più umano e consapevole di cosa c’è dietro i fornelli, là dentro le cucine!

Ed ancora, poiché lo studio si è concentrato soprattutto sugli chef uomini cominciare anche a rivolgere l’attenzione verso le donne chef, che sono in costante aumento, per capire se nei loro confronti si mettano in moto meccanismi simili o diversi e se l’essere donna porti con sé comportamenti differenti e dinamiche personali, nonché fisiche e mediche, specifiche!

In conclusione, l’espressione usata in un famoso programma televisivo, Hell’s Kitchen, ovvero la cucina del diavolo, si manifesta ai nostri occhi, in una luce completamente diversa, come anche gli sbruffi di vapore che vediamo uscire da pentole e padelle!