Il sole era scomparso da pochi minuti ma la spiaggia era già deserta.

Eravamo rimasti solo in due, John ed io. John era il tipico viaggiatore inglese, alto, biondo, fisico asciutto e zaino ridotto al minimo (dentro probabilmente più libri che vestiti). Avevamo in comune tre cose: gli occhi azzurri, il naso bruciacchiato dal sole e le origini inglesi. Credo sia stato a causa di queste ultime se quella sera eravamo lì, fianco a fianco, a concludere la giornata mangiando sandwich.

Mentre osservavo la linea netta del mare, ripensavo a tutti gli amici che quel giorno erano stati con me in spiaggia. Gli stessi che al calar del sole si erano precipitati a casa a fare la doccia, per poi vestirsi in fretta e scapicollarsi giù al paese, alla conquista di un tavolo in qualche ristorante.

Mentre ammiravo le mutevoli sfumature del cielo al crepuscolo, con la coda dell’occhio non perdevo di vista John che, dopo lungo armeggiare, aveva tratto dallo zaino due pacchettini triangolari dall’inequivocabile contenuto. Nel primo c’era un sandwich con uno strato multiplo di uova sode tritate mescolate a maionese insieme a erba cipollina e fettine sottili di cetriolo crudo. Nell’altro invece, non meno intrigante, c’era salmone affumicato, aneto, yogurt e insalata fresca. Le due fette di pane, mi assicurava John, erano state entrambe imburrate.

Sarebbe stato inutile competere con un tale professionista. Ero stato colto di sorpresa. E non avevo sandwich con me, niente che mi permettesse di rispondere a tono, colpo su colpo.

Non mi restò che proporre, a mo’ di baratto, quel poco che avevo nella sacca. Davanti allo sguardo incuriosito dell’amico, tirai fuori dell’uva Pizzutella e una scheggia di pecorino stagionato ancora avvolta nella sua carta oleata. John sorrise e mi offrì generosamente il primo morso del suo sandwich alle uova. Fu una rivelazione: nell’attimo esatto in cui staccai il primo boccone sentii una corrente di pensieri attraversarmi la mente e ripensai alla leggendaria tradizione dei sandwich inglesi. E a quante volte, nel corso della vita, me li ero gustati. Le immagini presero a correre e a spaziare liberamente, morso dopo morso - a quel punto ero passato a quello con il salmone – e a mescolarsi ai ricordi, creando connessioni e risonanze gustative incredibili. Un po' come l’aneto che, in quell’istante, accordava le sue pungenti note aromatiche al profumo della macchia circostante.

Il mare di fronte a noi, nel frattempo, si era placato. L’onda produceva ora uno sciabordio lento, appena percepibile. Era il momento propizio per mangiare dei sandwich: c’era tutto il necessario, la natura, la contemplazione, il silenzio.

È sempre esistito un legame molto stretto tra il mondo dei sandwich e il godimento della natura, tra l’atto di mangiare con l’ausilio delle mani e la filosofia del momento presente. Il Tempo, con i sandwich, ha indubbiamente un’altra valenza. Con “loro” ci si ferma e non si interrompe il fluire delle ore. Chi sceglie i sandwich non conosce l’ansia di dover andare via.

Sia chiaro, chi scrive non ha mai disdegnato un buon pranzo comodamente seduto a tavola in una bella locanda, con cibo genuino, vino e piacevole contorno di amici. Ma qui si sta parlando d’altro. Una diversa dimensione dello spirito? Una provocazione? Cercate voi la risposta ponendovi qualche domanda: avete mai provato la vera esperienza dei sandwich? Siete realmente consapevoli di ciò a cui rinunciate tutte le volte che abdicate scegliendo una pizzeria rumorosa al posto di un buon tramezzino mangiato all’aria aperta?

Certo bisogna amarla la vita all’aria aperta, bisogna aver conosciuto il piacere di camminare in montagna, il brivido selvatico di un tuffo in un torrente, l’ozio puro di un pomeriggio trascorso su una spiaggia o sulla riva di un lago. Escludiamo la versione addomesticata dei sandwich, quella metropolitana da bar con i colleghi dell’ufficio, le birre, il tempo contato e le auto parcheggiate intorno. Concentriamoci sull’idea di contatto con la natura di cui sopra, un concetto attuale, peraltro diffuso e ben conosciuto da molti. Per esempio, da chi pratica il campeggio.

Molti di noi ancora si scandalizzano se vedono una famiglia inglese in procinto di dormire in tenda sotto la pioggia battente. Per le nostre abitudini si tratta di una scelta assurda, incomprensibile, diciamolo, folle. Se però avessimo modo di comunicare con i protagonisti, se potessimo intervistarli, riceveremmo delle risposte sorprendenti, piene di ironia e di entusiasmo. Alla descrizione del disagio causato dall’umidità, dei vestiti inzuppati e del terreno sconnesso, seguirebbero i racconti delle emozioni, dell’incanto provato ascoltando il tamburellare della pioggia sulla tenda al buio o i timori ancestrali per il vento e gli animali notturni. Potremmo quindi far risalire questo mix di immagini e suggestioni ad un’unica fonte, al concetto di “precarietà”: l’umana precarietà di fronte agli elementi naturali. Ma perché è così essenziale e determinante questo senso di precarietà? E quale sarebbe il nesso tra questo stare “dentro” la natura e i sandwich?

Una vacanza che ci riconnette con la terra e gli altri elementi della natura, ci costringe a tornare all’essenza delle cose. Ci porta a ridurre anche il bagaglio. Anche il cibo, di conseguenza, diventa semplice, a volte addirittura frugale. E guarda caso si mangia con le mani. Mangiare con le mani sotto un cielo stellato non è una pratica naif, è qualcosa di più di un pasto quotidiano. È un rito di comunione ancestrale con la natura.

Se ripenso alla mia vita, alle decine e decine di grigliate con gli amici, alle innumerevoli cene con cibo e vini raffinati, spesso in ambienti esteticamente ricercati - se aggiungo a tutto ciò i pasti consumati a casa - non ho dubbi: l’esperienza che ha lasciato un segno dentro di me non è tra queste, bensì è legata al ricordo di un’escursione in un bosco sotto la pioggia. Là, seduto su una panchina, mentre intorno si scatenava un furioso temporale, vidi il fuggi fuggi dei gitanti verso le loro automobili (e i vari ristoranti!) e divisi un sandwich con la mia compagna. Ricordo che le fronde alte degli alberi limitarono la caduta dell’acqua proteggendoci, e noi ce la godemmo, tra risate, battute e, ovviamente, i nostri ottimi sandwich allo speck, senape e foglia di insalata.

Troppo idilliaco per essere vero?

Filosofia ed ecologia della mente a parte, con i sandwich non ci si improvvisa. Quali sono dunque le regole d’oro per preparare dei sandwich degni di questo nome? Regola prima: dimentichiamoci il pane buono e fragrante del nostro panettiere, scegliamo sempre e solo pane a cassetta, confezionato. Ideale quello con il mollicone bianco ma per i salutisti esistono in commercio ottime alternative integrali, al farro, alla soia. Quanti farne a testa? Considerato il formato standard delle fette e sapendo che una volta sovrapposte vengono tagliate a metà, penso che per un breve picnic siano da prevedere sempre almeno quattro triangoli a testa. Ma cos’è questa mania di tagliare i sandwich a metà? E poi perché a triangolo? Diciamo subito che triangolari diventano più maneggevoli e sono più pratici da trasportare, per esempio, volendo, possono essere infilati comodamente nella tasca di un giaccone. Si può sfruttare questa tecnica anche quando si decide di usare diversi ingredienti o diverse farciture, così tagliandone alcuni triangolari ed altri rettangolari saranno più facilmente riconoscibili. Abbiamo detto quindi pane a cassetta di tipo industriale e spiegato le modalità di taglio. E poi?

Esistono varie scuole di pensiero ma tutte concordano sulle due regole base: tutti gli ingredienti così detti “morbidi”, quali salmone affumicato, prosciutto, formaggio, fettine di roast-beef ecc. vanno combinati con ingredienti definiti, per la loro consistenza, “croccanti”. Ecco allora foglie di insalata fresca, cetrioli (freschi o in agrodolce), zucchine crude o leggermente grigliate, barbabietole, perfino bacon, quello fritto con la crostina. Perché tutto questo? Per dare al palato l’emozione e la varietà di due consistenze diverse invece di una. Il sandwich deve accendervi, deve, nella sua sobrietà, sorprendervi. E sorprendente è il contrario di prevedibile (quello che succede con i panini tradizionali).

Secondo elemento importantissimo, l’umidità. Gli inglesi l’hanno sperimentato rischiando la vita nel deserto: un buon sandwich non deve mai risultare secco o ingolfante. Come fare? Bisogna per forza chiedere aiuto alle salse? Alla maionese? Alla senape? Alla salsa tonnata? Il consiglio qui è quello di attenersi scrupolosamente alla tradizione inglese che, anche in questo caso, insegna controllo e moderazione. Ok per le salse, guai però abusarne. I rischi sono altissimi, un pane troppo umido o troppo imbibito potrebbe cedere e disfarsi nelle vostre mani. Ma c’è anche il segreto di John: il burro. Spalmato preventivamente su entrambe le fette, le isola permettendo l’utilizzo di ingredienti umidi senza che questi minino la solidità dei vostri sandwich. Farciture memorabili sono anche quelle con formaggi cremosi alle erbe, paté di olive, sedano rapa grattugiato e mescolato a maionese, guacamole, hummus...

Vedrete, una volta acquisite le basi, come sarà facile sperimentare ricette sempre diverse e più ardite. Creerete sandwich indimenticabili, irripetibili, fatti con quello che di volta in volta scoverete nel vostro frigorifero. I resti di un pollo da grigliata domenicale, sminuzzati e mescolati a capperi e maionese, daranno il “La” ai vostri sandwich più fantasiosi. Innumerevoli gli abbinamenti: peperoni, melanzane e zucchine grigliate e macerate in olio e aglio, cipolline agrodolci, uova, cetrioli.

Per John i sandwich migliori sono quelli con il polpettone freddo tagliato a fettine sottili, alternato a foglie di radicchio rosso e senape forte in grani. E anche quelli farciti con gamberetti o con sgombri in scatola frullati, un trito di prezzemolo fresco, pomodorini sott’olio, sedano...

Ma allora, quell’espressione estatica sul viso del viaggiatore inglese che mangia sandwich davanti a un paesaggio grandioso da cosa dipende? Dipende dal paesaggio grandioso o…?

Una rassicurazione per i meno atletici, i pigri o per chi ancora teme gli elementi naturali: i sandwich sono ottimi anche consumati in macchina durante una trasferta – si evitano così gli affollati e costosi autogrill - in treno, piccoli e discreti, che non si sbriciolano e invitano alla condivisione, o in traghetto, perché imbruttirsi facendo la fila al buffet quando si può cenare sul ponte maestro e godersi l’ultimo raggio di sole?!

Da non escludere, come mi confidò John prima di congedarsi, l’utilizzo dei sandwich come “arma segreta.” Incuriosito, chiesi spiegazioni. John allora, con fare sornione, mi raccontò di una bellissima ragazza conosciuta ai tempi in cui era studente a Oxford. Per settimane l’aveva corteggiata in tutti i modi ma sempre senza grande successo. Nel tardo pomeriggio di una giornata estiva la invitò a fare un giro in barca – era già successo in passato – ma quella volta, dopo gli ultimi colpi di remi e già in vista del canneto, tirò fuori due piccoli sandwich e furono loro, lui ne è certo, a cambiare le sorti del destino.