Il nome Giappone contiene in sé l’essenza della sua cultura: nippon-ascolta, è rappresentato da questi due simboli 日本, i cui significati sono sole e origine, quindi origine del sole. Infatti questo Paese è chiamato “terra del Sole nascente”, proprio per la sua posizione a Oriente rispetto alla Cina.

È un luogo dai mille misteri, dal fascino antico e dal sapore moderno, una sapiente miscela tra passato e presente.

I giapponesi, la natura e le piante sono inseparabili, ne ascoltano i ritmi, le stagioni, considerano divine le montagne e venerano ancora oggi gli alberi.

È affascinante la calma e la centratura di questo popolo che da 200.000 anni è insediato in una terra turbolenta, in continua relazione con i circa 200 vulcani, molti dei quali attivi, con i terremoti e gli tsunami, come se la serenità degli abitanti compensasse l’inquietudine del luogo.

I vulcani eruttano senza preavviso, la precarietà e la transitorietà dell’esistenza è tangibile, si respira nell’aria, così la popolazione tende a festeggiare ogni attimo di ogni singolo giorno, aspirandone il profumo, inebriandosi dell’essenza vitale in tutto ciò che riempie la vacuità, mettendosi in ascolto della terra e degli esseri viventi che la abitano.

La consapevolezza di questa evanescenza raduna migliaia di giapponesi a celebrare la fioritura dei ciliegi, a cucinare e servire con dovizia e rispetto cibi stagionali, a percepire gli elementi invisibili della Natura: chi non si lascerebbe incantare dalle danze e canti delle donne ainu, l’antica popolazione autoctona, dal loro battere le mani come ali di farfalle attorno al fuoco, dalla perdita dei confini dei corpi al ritmo del canto, fino a ignorare davvero chi canta e cosa, in una fusione armonica con il tutto?

Chi non vorrebbe partecipare alla cerimonia del tè, un rito quotidiano che ha il profumo dei millenni?

Sen no Rikyū, il monaco buddista zen che ha codificato la suddetta cerimonia alla fine del ‘500, la descrive con queste semplici parole:

Ci si dovrebbe rendere conto che la via del tè è solo bollire l'acqua, preparare il tè e berlo.

La cerimonia del tè, Cha no yu che significa “acqua calda per il tè”, è un rito sia spirituale che sociale e rappresenta una delle tradizionali arti zen. Essa si basa sullo stile wabi-cha, semplice e sobrio, strettamente connesso agli insegnamenti buddisti. Già Murata Shuko, monaco zen, ne evidenziò la semplicità in una metafora poetica: “uno splendido cavallo si manifesta meglio in un'umile capanna che in una sontuosa stalla”; il cavallo simboleggia la mente originaria mentre l’umile capanna di paglia indica l’essenzialità della stanza del tè, a richiamare l’estetica giapponese, ovvero la visione del mondo fondata sull’anitya, l’impermanenza, la transitorietà e l’imperfezione delle cose che bisogna accettare.

Ma in cosa consiste tale cerimonia per lo stesso Sen no Rikyū?

Il cuore della cerimonia del tè consiste nel preparare una deliziosa tazza di tè; disporre il carbone in modo che riscaldi l'acqua; sistemare i fiori come fossero nel giardino; in estate proporre il freddo; in inverno il caldo; fare tutto prima del tempo; preparare per la pioggia e dare a coloro con cui ti trovi ogni considerazione.

Questa cerimonia è la più pura espressione dell’estetica zen: si entra da una porta talmente bassa che costringe a piegarsi in segno di umiltà, nella stanza del tè chiamata chashitsu. Essa è piccola e poco illuminata in modo da far risaltare la forza espressiva dei pochi oggetti presenti. In un lato della stanza vi è il tokonoma, una nicchia dove è esposto un rotolo con le scritture. È presente anche un tronco di legno grezzo chiamato toko-bashira dove è appesa una composizione con i fiori di stagione chiamata chabana o fiori per il tè.

L’atto del preparare il tè viene indicato con il verbo tateru – celebrare, è un rituale sacro codificato. Dopo che gli ospiti si sono accomodati in ordine precostituito – a partire dalla persona più importante o prediletta -, il teishu, colui che prepara il tè, entra dalla porta scorrevole, si inginocchia e inizia il rito di preparazione, al suono della parola okashi - servitevi il dolce, prego. Dopodichè, il teishu pone la tazza chiamata chawan davanti al primo invitato che, scusandosi con il vicino, chiede il permesso di servirsi, quindi prende la tazza girandola per esporre lo shōmen (parte della finitura che funge da riferimento) e beve a piccoli sorsi mostrando gradimento. Poi pulisce la tazza e la pone dinanzi a sé, il teishu la lava e la cerimonia prosegue fino a quando tutti hanno bevuto. A questo punto il primo ospite chiede il permesso di analizzare gli utensili, la teiera e il cucchiaino di bambù, che verranno osservati anche dagli altri. Infine, verrà esaminata la tazza, chiedendo informazioni su chi l’ha creata e sullo stile, è possibile darle un nome poetico o recitare una poesia.

La cerimonia si conclude con il teishu che si alza in piedi, si inchina sincronicamente agli ospiti e va via richiudendo la porta.

È suggestivo anche il contesto in cui il rito si svolge: si tratta di piccole costruzioni di legno situate in giardini ricchi di acqua e rocce, basterebbe anche solo il luogo per riportare l’uomo verso la dimensione della presenza.

Bisogna tener presente, inoltre, che, in Giappone, come del resto anche in Cina, la bevanda comune durante i pasti è proprio il tè, ma mentre i pasti sono accompagnati dai tè comuni quali il Bancha normale o tostato, nel corso della cerimonia si usa il prezioso tè verde Matcha, prodotto nella città di Nishio ed è l’unico tè preparato con le foglie di tè polverizzate. E lo stesso processo di lavorazione del tè è un vero rito: per rendere più morbide le foglie e poterle arrotolare più facilmente, il tè viene cotto a vapore, per un periodo molto breve e ad altissime temperature. Questo consente di bloccare il processo di ossidazione mantenendo così il colore verde brillante originario. E anche nelle piantagioni, prima di effettuare il raccolto dei germogli, le piante vengono ombreggiate coprendole con dei teli per almeno tre settimane prima di cogliere solo le prime foglioline giovani perché sono le più ricche di aromi. Per questo vengono raccolte a primavera e questo le rende particolarmente pregiate. Infatti, nel rito non si ottiene l’infusione, ma si mescola la polvere con l’acqua calda, quindi la bevanda che si ottiene è una sospensione con un metodo appreso dai monaci che assumevano la bevanda allo scopo di restare svegli nel corso dei periodi di meditazione. E così si ingerisce l’intera foglia che contiene tutte le sostanze nutrienti. Il Matcha è, infatti, un tè verde estremamente energetico, ricco di vitamine e minerali ma anche di teina.

La cerimonia completa ha la durata di circa quattro ore comprendendo anche la prima parte dove si assume un pasto leggero. Vi sono delle varianti complesse di questa cerimonia, l’aspetto affascinante è la dimensione spirituale che impregna ogni atto, ogni gesto.

La stanza stessa finisce per essere sia uno spazio fisico che spirituale, dove si sospende il brusio della mente, si è condotti nella dimensione dell’adesso e tutto il resto diventa evanescente. Si ascoltano i suoni degli oggetti, i respiri degli altri, si percepiscono le vibrazioni di ogni singolo atto rituale. Il vuoto della stanza rappresenta anche il vuoto mentale, una sorta di setaccio che separa le preoccupazioni e gli attaccamenti dall’essenziale, il momento presente. Ancora più in profondità, il tutto risulta essere solo vacuità e il nulla solo silenzio vuoto.

Questa cerimonia ci induce a fare alcune riflessioni, a chiederci:

In che modo guardiamo le cose?
Siamo presenti in ogni azione o gesto che compiamo quotidianamente? Quando giriamo il cucchiaino nel caffè dove siamo con noi stessi?
Quanti atti compiamo nell’inconsapevolezza?

Siamo nell’adesso, nell’eterno presente in cui passato e futuro coesistono nella simultaneità, in un flusso che contiene tutte le direzioni. Riportare nel qui e ora la consapevolezza è un atto rivoluzionario, ha un potere silenzioso che destabilizza quello della mente lineare proiettata al futuro o rivolta al passato. Lo stesso Sen no Rikyū dovette ricorrere al seppuku, il suicidio rituale esclusivo dei samurai, una silenziosa ma assordante protesta verso la tirannia di Toyotomi che si sentì minacciato dal cerimoniale del tè che rendeva tutti uguali, disarmati e inginocchiati. Questo grande monaco buddista zen ha impresso nella cerimonia i quattro principi dei suoi insegnamenti: armonia, rispetto, purezza e tranquillità.

L’armonia è nella relazione tra i partecipanti, gli oggetti e il cibo, nel ritmico ciclo della vita e delle cose, che pur rimanendo uguali sono soggetti al mutamento, all’effimero che diventa l’unica realtà.

Il rispetto risiede nel riconoscimento della dignità insita in ogni uomo e in ogni semplice oggetto, la consapevolezza di essere in comunione col tutto.

La purezza contiene sia il puro che l’impuro come parti della realtà, si riferisce all’accoglienza del bello che si attua nella pulizia della stanza del tè così come dentro se stessi, spazzando via ciò che impedisce al bello di esser visto.

La tranquillità è stare in un luogo lontano dal frastuono del mondo, in ascolto del ritmo naturale, libero dai condizionamenti e vincoli, percependo la serenità e la sacralità dell’esperienza solitaria o condivisa con gli altri.

Mi piace osservare come, in questi tempi drammatici dove la libertà di movimento è stata ridotta, i lunghi periodi da trascorrere dentro le proprie abitazioni potrebbero essere utili per farci ritrovare la magia del tempo, spingerci a compiere veri e propri riti per ristabilire il nostro equilibrio interiore, a gustare il cibo e le bevande senza fretta, nella piena presenza di noi stessi.

Vivere una vita in umiltà ed in armonia con la natura e le persone, nel pieno rispetto della cultura Zen, semplicemente, ora.