Una verità forse controintuitiva: come mi spiega la professoressa Manuela Ciani Scarnicci, docente di Economia presso l’Università eCampus: “L’agricoltura è una delle attività economiche più impattanti sull’ambiente: da essa derivano più del 30% dei gas serra”. Lo conferma uno studio dell’anno scorso condotto dall'esperto di cambiamenti climatici presso la Fao, Francesco Tubiello, che si unisce a molte altre ricerche simili sull’impatto della nostra filiera alimentare sul Pianeta.

Lo studio calcola che nel 2015 le emissioni riconducibili ai sistemi alimentari, compresi i cambiamenti nella destinazione d'uso dei terreni, tutto ciò che circonda la produzione agricola, l'imballaggio e la gestione dei rifiuti, abbiano raggiunto un volume pari a 18 miliardi di tonnellate di biossido di carbonio equivalente. Sul podio, per volume di emissioni, figurano, nell’ordine, Cina, Indonesia, Stati Uniti, Brasile, Unione Europea e India.

Secondo il rapporto Farming for the Future dell’organizzazione Friends of the Earth, oltre alle emissioni di gas serra, all’agricoltura industriale sono legati fenomeni come il rapido esaurimento o inquinamento delle risorse idriche, la degradazione del suolo e la perdita di biodiversità animale e vegetale. Non solo agricoltura in senso stretto, ma anche tutto ciò che riguarda l’allevamento e la nostra filiera alimentare sono legati a doppia mandata con il cambiamento climatico.

Da un lato, infatti, il surriscaldamento globale influisce sulla quantità e qualità delle coltivazioni, riduce la disponibilità di risorse idriche, compromette la crescita e la produttività degli animali e favorisce l’insorgere e la riproduzione di malattie. Dall’altro lato, emissioni di gas serra provengono da tutta la filiera, causate anche dalla produzione dei mangimi per il bestiame, dalla fase di digestione, dallo spargimento del letame, dal mantenimento e dal trasporto degli animali.

Basti pensare che le più grandi aziende di carne e prodotti lattiero-caseari emettono nell’atmosfera più gas serra delle maggiori compagnie petrolifere.

L’impatto ambientale della filiera alimentare, però, va ben oltre: perdite e sprechi alimentari coinvolgono ogni anello della catena. Si tratta di fenomeni apparentemente contraddittori con alcuni fatti noti: l’agricoltura produce già cibo sufficiente a sfamare 10 miliardi di persone, ma allo stesso tempo nel 2019 quasi 690 milioni di persone nel mondo hanno sofferto la fame. L’IPCC prevede che entro il 2050 altri 183 milioni di persone si trovino a rischio fame. Il tutto mentre un terzo del cibo prodotto a livello mondiale non raggiunge nemmeno le nostre tavole.

“Tutto ciò che si perde nel tragitto, cioè dal campo alla vendita al dettaglio, rientra nel concetto di perdita alimentare”, spiega Ciani Scarnicci, “ed è dato da problemi di trasporto, dalla catena del freddo, da una bassa valorizzazione degli elementi, da una cattiva gestione dei magazzini, da un cattivo collegamento tra il luogo di produzione e il luogo di consumo. Sono fattori su cui si può lavorare, spingendo ogni nazione a far entrare nelle sue priorità la lotta alla perdita alimentare e informare tutta la catena che va dal campo alla distribuzione per evitare che questo succeda”.

La perdita alimentare ha origine fin dalla fase di produzione. “Un esempio per tutti: l’oliva si trasforma in olio solo per il 20%. Tutto il resto si butta. Nonostante i quattro cicli di produzione (in ordine di purezza: olio extravergine di oliva, olio di oliva, olio di sansa di oliva, olio a uso industriale), l’80% delle olive finisce in rifiuto”.

Non mancano, però, le iniziative volte a risolvere, nel piccolo, le debolezze del sistema. Riporta Ciani Scarnicci: “Diversi centri di ricerca hanno ideato progetti per sfruttare tutto il ciclo di produzione dell’olio e creare un’economia circolare chiusa. La sansa (sottoprodotto del processo di estrazione dell'olio di oliva composto dalle bucce, dai residui della polpa e dai frammenti di nocciolino, ndr) ha infatti un potere energetico molto alto: può bruciare e creare calore, senza considerare i principi attivi (polifenoli, antiossidanti) che contiene”.

Ulteriori falle vengono alla luce se si fa un altro passo indietro nella filiera alimentare e si indaga l’effettivo utilizzo di terreno coltivabile per la produzione di cibo. Si scopre così che molte terre vengono invece sfruttate per la coltivazione di piante energetiche, “come la colza che fa l’olio carburante”; terre che sono quindi tolte alle coltivazioni locali di sussistenza. Ecco allora che gli esperimenti che utilizzano gli scarti della produzione di olio d’oliva a scopi energetici assumono una rilevanza fondamentale: implementandoli su larga scala, sarebbe possibile ridimensionare ampiamente la coltivazione strettamente legata ai fini energetici.

“C’è poi lo spreco alimentare”, prosegue Ciani Scarnicci, “che riguarda la vendita al dettaglio, la ristorazione e il consumo privato. Trovare cibi scaduti nel frigo, per esempio, è spreco alimentare. Anche il cibo buttato dai ristoranti a fine giornata è spreco alimentare”. Il problema ci tocca da vicino: secondo una recente indagine Coldiretti/Ixè, nel 2020 ogni famiglia italiana ha gettato nella spazzatura cibo per un valore di 4,91 euro la settimana per un totale di 6,5 miliardi.

Lo spreco alimentare, stima l’indagine, è responsabile di 4,4 miliardi di tonnellate di gas serra emessi nell’atmosfera e di un consumo di acqua pari a 170 miliardi di metri cubi. Le giga-tonnellate di anidride carbonica prodotte come conseguenza dello spreco di cibo globale rappresentano l’8% delle emissioni totale dei gas serra di origine antropica: produrre troppo cibo inquina quasi quanto inquinano i trasporti via terra di tutto il mondo.

Il problema non è dato solo dai prodotti in scadenza dimenticati in frigo. Per esempio, “c’è un grande problema legato all’estetica, di scarto dei prodotti “non belli”: se un prodotto viene esteticamente compromesso in fase di produzione, viene buttato, perché il cliente non lo vuole comprare”. Le eccezioni, che limitano i danni del sistema, sono, per esempio, l’applicazione Too Good To Go, al momento non ancora utilizzata diffusamente (e correttamente) come in altri Paesi, o le “associazioni che fanno la raccolta dei prodotti in scadenza per darli ai più bisognosi o alle mense dei poveri”.

Tra le soluzioni per ridurre lo spreco di cibo sono state individuate, come riporta Lifegate, “la condivisione dei dati per intercettare i punti della filiera alimentare in cui si registrano le perdite maggiori, l‘innovazione applicata, come le piattaforme di e-commerce, incentivi per rafforzare l’azione del settore privato, investimenti in formazione, tecnologia e innovazione anche per i piccoli produttori, il miglioramento delle performance dei packaging e un allentamento delle normative e degli standard sui requisiti estetici per frutta e verdura, la ridistribuzione delle eccedenze alimentari, la promozione delle filiere corte, investimenti su infrastrutture e logistica per migliorare le catene del freddo e la sostenibilità delle tecnologie di raffreddamento”.

Un ultimo, recente tentativo di arginare il problema è l’upcycled food, vale a dire tutti quei prodotti alimentari che, utilizzando ingredienti di scarto, contribuiscono a prevenire lo spreco alimentare. Lo scorso 13 gennaio la Upcycled Food Association (Denver, USA) ha a questo proposito annunciato l’adozione di uno standard internazionale per la certificazione dei prodotti e degli ingredienti upcycled.

Se il primo passo è la coscienza del problema, il secondo è senza dubbio il coinvolgimento della classe politica, per un’azione su larga scala, mirata ed efficace. L’augurio è che venga implementata il prima possibile.