L'Italia è un paese composito, dove geografia, storia, culture diverse s'incontrano o si scontrano; anche nell'ambito della gastronomia, il panorama è estremamente variegato, si va dai piatti di sapore mediterraneo come la pasta con sarde e pinoli, a quelli di ascendenza nordica come la “cassoeula” milanese o i canederli trentini.

Una regione che sembra contemperare ambienti e tradizioni diverse è la Romagna, che per la sua morfologia che la colloca tra Appennini, pianure e mare, offre una straordinaria e celebrata ricchezza di piatti di cereali, carne e pesce. Due tra i più riconosciuti gastronomi romagnoli, Angela Schiavina e Graziano Pozzetto, ci accompagnano nella scoperta delle vere eccellenze di questa rinomata tradizione culinaria, dandoci qualche indicazione per i menu delle feste e ci mettono in guardia dagli stereotipi più comuni, o “patacche” come si dice nel dialetto locale.

Angela Schiavina, la “sacerdotessa del buon gusto”, ha apparecchiato per principi e sovrani ed è stata capace di trasferire, a livello di banqueting e catering, i sapori e le fragranze delle ricette casalinghe, a volte anche reinterpretate con un tocco personale. Oggi, lasciati i più gravosi impegni organizzativi, si dedica prevalentemente ai corsi e alle lezioni di cucina, portando in giro per il mondo il verbo del buon gusto a tavola. La sua “didattica” parte da considerazioni antropologiche e di genere, come la differenza tra una cucina al maschile e una al femminile, quella di oggi è soprattutto al maschile, costituita da piatti preconfezionati, di utilizzo immediato, con largo uso di surgelati, oppure spadellati e cucinati velocemente.

La cucina femminile, invece, è quella tradizionale, lenta, con ricette che richiedevano una preparazione elaborata e dove le donne potevano e dovevano stare ai fornelli per ore e ore. Stare in cucina era anche un momento d'incontro e convivialità, le “arzdore” - così si chiamano le donne di casa romagnole - potevano farsi confidenze, raccontarsi storie, lamentarsi degli uomini … Il fuoco era sempre acceso e le donne vivevano in cucina e quindi c'era il tempo per condividere esperienze ed emozioni. E uno dei momenti in cui la cuoca romagnola esprimeva la sua particolarità era il periodo delle feste di fine anno, quando ogni famiglia, anche la più umile, metteva in tavola il suo ceto, o la sua voglia di esorcizzare i fantasmi della povertà: ecco il menu classico di una famiglia benestante: passatelli in brodo di cappone, timballo di cappelletti o tagliatelle in crosta dolce, faraona al forno con crostini di fegatini, torta al cioccolato o amaretti, ricotta di mandorle.

Ma il cibo - sottolinea la gastronoma ravennate - non è solo nutrimento, perché è come un mediatore che mette in comunicazione la parte interna con l'esterno e contiene una grande valenza affettiva. In questo terreno “scivoloso”, in cui il mangiare può essere usato come sostituto degli affetti, può rientrare anche il problema dei disturbi alimentari e Angela conferma: “Anoressia e bulimia imperversano, ma non possono essere curate solo con la dieta, è indispensabile l'attività fisica e, soprattutto, una terapia psicologica d'appoggio. Il piacere del cibo è fondamentale perché arricchisce anche la mente, tutto sta nel saperlo padroneggiare e non farne una patologica ragione di vita". D'altronde, la tavola ha anche a che fare con l'eros, il famoso detto “prendere per la gola” è una delle armi vincenti nel campo della seduzione: in una cena ci si predispone all'incontro, il cibo può diventare un messaggio affettivo, viene spontaneo prepararlo quando si aspetta una persona a cui si tiene, è un atto d'amore coinvolgere un altro nella propria intimità, farsi conoscere in una delle dimensioni più personali.

Altro personaggio “incontenibile”, dell' enogastronomia romagnola è Graziano Pozzetto, il suo aspetto monumentale di frate gaudente non tradisca, perché accanto alla quasi sacrale dedizione ai piaceri del palato, c'è una calvinistica lotta a tutte le eresie e le falsificazioni che riducono una cucina così rinomata a puro fenomeno da supermercato. Dall'alto delle sue decine di pubblicazioni, Graziano ci tiene innanzi tutto a precisare che non esiste una sola cucina romagnola fatta della solita piadina e dei soliti cappelletti: “Prima di parlare di varianti geografiche, è indispensabile ricordare che fino a qualche decennio fa esisteva una cucina di “classe”. I mangiari dei contadini braccianti, dei pescatori, dei vallaroli differivano profondamente, non solo, ovviamente, dalla cucina aristocratica, ma anche da quella borghese che comincia ad affermarsi nell' '800.

Da un punto di vista ambientale, c'era e in parte c'è ancora, una cucina “di valle”, fatta di cacciagione limicola, di pesci di palude, di rane e di vino di bosco; una cucina di “marineria” fatta di pesce povero, quello azzurro, che veniva grigliato in spiedini verticali che col loro grasso colante lo insaporivano e di brodetto, cucinato pure con pesce spinoso e, quindi, di poco valore. Più apparentemente ricca la cucina “della pineta”: fino a qualche tempo fa, qui i nullatenenti raccoglievano pinoli, radici, erbe aromatiche e frutti del sottobosco, poi, col diffondersi della consuetudine borghese della caccia, chi poteva permetterselo, disponeva dei cosiddetti capanni , dove si cucinavano anatre, fagiani, lepri con grande raffinatezza. La gastronomia della pianura si basava, invece, sulla cucina contadina: animali da cortile, uova e maiale, quindi mangiari grassi e sostanziosi, adatti alle fatiche contadine e innaffiati con vini poveri come trebbiano e “uva dora”. Infine la collina, con la sua più varia e preziosa cucina, ricca di carni rosse, funghi e vini pregiati: sangiovese e albana. Quindi, peccato mortale sarebbe ridurre, come si sta facendo nella maggior parte della ristorazione - ma anche nella cucina casalinga - questo multiforme patrimonio gastronomico e culturale a poche, abusate, ricette: i soliti cappelletti al sugo (mentre dovrebbero essere in brodo, come i passatelli), la solita piadina industriale, la solita grigliata di carni difficilmente compatibili.”

Per le festività, Graziano consiglia di rivisitare i menu poveri tradizionali, celebrando la bontà e la generosità del maiale, ad esempio, niente di più economico che recuperare le ossa del suino, per un “pranzo con ossa bollite dello schienale e degli zampetti, da assaporare quando la carne si stacca, con sale grosso a pioggia e accompagnamento di radicchio di campo, pane insipido e vino rosso nuovo, oppure salame fresco sforacchiato, avvolto in carta gialla grossa, messo sotto cenere con braci a sudare, sgrassarsi, cuocere lentamente, da godere caldo appena aperto e spellato, una “gastrolibidine” che un tempo veniva accompagnata con patate avvolte in stagnola, cotte sotto la stessa cenere e buon vino rosso, in onore del porco, animale pulito, generoso, migliore di tanti uomini... ”.

Pozzetto, con il suo temperamento vulcanico, si accalora nel caldeggiare piatti colpevolmente dimenticati e dietro questa “memoria” c'è, come ha riportato anche nella sua ultima fatica libraria, Le cucine di Romagna, tutta una filosofia gastronomica basata sul ricordo, perché nell'intimo della predilezione per un piatto o un gusto particolari c'è spesso un'esperienza emotiva particolare che viene da lontano. Come ha scritto Tonino Guerra, noi continuiamo a “mangiare l'infanzia”; il ricordo di certi profumi, sapori e colori, con la complicità dell'amorevole inganno della memoria che ne esalta gli aspetti più piacevoli, è stato anche per Pozzetto uno degli stimoli più forti, consci o inconsci, per portare avanti il suo lavoro di ricerca e conservazione della tradizione enogastronomica e per farcene condividere sofferenze e piaceri.