Avrebbe potuto utilizzare solo la Compagnia Transatlantica per la Navigazione a Vapore con le Americhe fosse partito alla fine dell’Ottocento, ma oggi Tiziano Zorzan preferisce il rigore di Lufthansa per fare la spola fra Milano, Monaco e New York: ha un amore vero, palpabile, per quello che funziona, per “quello che è” invece di “quello che sembra”. Ripete questa frase spesso nel corso dell’intervista, tanto che si appiccica alla discussione e mi costringe immediatamente a pensare al sottoscritto: sono io stesso, qualcosa che è?

L’intervista, due puntate fra il Savoy di Firenze di cui adora i cocktail e il suo ufficio di Milano, di cui adora ogni cosa, è un excursus gustosissimo sull’imprenditoria italiana che la sfanga all’estero, la ripetizione del mito di Colombo che va a scoprire le Americhe – solo che stavolta si presenta con una stiva di stile invece che con sacchi di spezie. Una parete dell’ufficio milanese è dedicata alle fotografie molto sorridenti con Sophia Loren, Jacqueline Bisset, Whoopy Goldberg, Sharon Stone, Liz Taylor, Mariangela Melato e uomini in completo con mascelle importanti, più americane che europee, direi. Lo sguardo di Zorzan è magnetico, severo. Lo distoglie ogni volta che fa una domanda e attende una risposta dai suoi collaboratori, come a non volerne intercettare le intenzioni, intenzionato comunque a non farsi raggirare da un approccio emozionale. Attorno alla tavolata è un brulichio di copyrighter, fotografi e programmatori: Zorzan è in questo momento alla regia di una campagna di riposizionamento di una firma importante della moda. Zorzan è una firma nel campo della comunicazione strategica, ha una lista abbastanza impressionante di strategie dietro eventi con Panerai, Four Seasons, Rai, Cartier per dirne solo alcuni – ogni volta in diversi ruolo e angolazione.

Un ruolo sempre nascosto, dietro le quinte, fino al 2012, anno in cui ha deciso di ideare uno spazio in cui vendere un concetto tanto immateriale quanto italiano come lo stile. “Una scelta quasi obbligata, dopo una vita di consulenze” specifica “su cosa fare, come, dove, quando e per quanto. È incredibile come ormai comprarsi un completo di marca sia cosa accessibile a chiunque e quanto invece lo stile stia diventando merce rarissima, praticamente introvabile. L’effetto Madonna di Montenero è dietro l’angolo per donne che hanno portafogli capienti, la sindrome del mocassino arancione fosforescente dietro l’angolo per manager che vivono una vita grigia dal lunedì al sabato mattina. Paradossalmente trovo molta ispirazione fra quelli che ce la devono ancora fare, fra coloro che poco hanno e quel poco lo devono fare sembrare a posto, di classe”.

Il motivo per cui lo intervistiamo oggi è il suo progetto di esportare lo stile italiano a New York, un piano ambizioso che vuole riconnettere l’essere umano declinato a cittadino con la natura vera, e che è strettamente legato alla marca italiana, a quello stile innato, fino a oggi indefinibile, chiamato La Bella Figura. La portata del progetto è immensa, ambiziosa, ed è in incubazione da un anno circa. Chiara nelle intenzioni di Zorzan, che allo scopo di iniettare linfa vitale nel progetto ha mobilitato giovanissimi designer e creativi in tutta Europa, questa crociata del gusto partirà dal centro di New York per toccare le mete nevralgiche, tutte, dell’Uomo Moderno. “Un investimento sul futuro”, dice, quando chiedo di specificare. “Un’idea talmente nuova che abbiamo deciso di registrane il copyright. Questo prima che qualcuna delle nullità atmosferiche che coabitano il mio mondo provi a scimmiottare anche questa iniziativa. Devo stare attento a utilizzare parole generiche, l’ultima intervista mi è costata il titolo di un brevetto”. La ricerca del luogo fisico sta animando i broker immobiliari di Tribeca, Soho e Lower East Side, giacché si cerca un luogo fisico che possa avere tre facce diverse ogni giorno, ognuna per una destinazione d’uso, ognuna per le fasi necessarie alla quotidianità di ogni essere umano: azione, pensiero, gratificazione.

Un ritrovo metropolitano, uno show tutto italiano di cui Zorzan sarà creatore, consulente e interprete. Per l’esposizione Zorzan ha disegnato un modulo ripetibile ed espandibile all’infinito che può trasformare un hangar in una piccola boutique e viceversa.

WSI: Esportare lo stile significa essere convinti di possederlo, o, quanto meno, di saperlo individuare. Chi sono, intanto, le sue icone di stile, negli anni zero.
TZ: Gli italiani che non urlano. Si riconoscono immediatamente senza che aprano bocca, da lontano, magari mentre vanno in bicicletta o portano le borse della spesa. Abbiamo qualcosa, che diventa ancora più evidente non appena non si vive più in Italia e si incontra qualche conterraneo. Ma non ci riconosciamo solo fra di noi, è proprio un tratto caratteristico. La mia missione è estrapolare quel gene e impiantarlo, come uno scienziato, in determinati e ben disposti ambienti. L’italianità, quando non becera, quando non è improvvisazione, è un valore assoluto.

WSI: Qualche nome?
TZ: Laura Morante. Non ricordo mai cosa veste e nemmeno cosa dice di preciso, perché passo il tempo a guardarle la faccia, la grazia con cui si muove. Rita Levi Montalcini, composta, intelligente. Marina Cicogna. Massimo Cacciari. Beppe Modenese (Presidente Onorario della Camera Nazionale della Moda Italiana ndr). Mastroianni, è inevitabile.

WSI: Il riferimento a Cacciari è politico?
TZ: Assolutamente no, e non mi esprimo per principio sulla politica, anche se è difficile non notare una fase di coma estetico, che percepiamo dagli slogan che usano, dalle macchine che guidano, dalla vita che vivono. Ecco, forse mi ha dato un buon termine di paragone: il mio progetto va nella direzione opposta del governo italiano degli ultimi trent’anni.

WSI: Lasciamo perdere la politica allora. In cosa consiste il suo lavoro di oggi?
TZ: Riposizionare, cambiare, rivestire un brand, una marca, e di conseguenza la società, la produzione che ci sta dietro. È un concerto portato in fondo con fatica, che comporta una serie di rischi notevoli. È un processo che si può paragonare a una gravidanza o, forse ancora meglio, a un’operazione per l’allungamento degli arti: qualcosa che è completamente artificiale, ma che se non viene supportato dalla natura stessa si trasforma in un rigetto doloroso. È come un grande spettacolo: si fanno le prove fino a che si raggiunge un livello di performance paragonabile alla perfezione: luci, camera, azione.

WSI: Come misura il suo successo o anche il suo fallimento, che immagino non siano palpabili solo mediante una variazione economica positiva o negativa.
TZ: Si tratta di individuare la chiave migliore per fare un’inversione di marcia con accelerata al punto giusto, al momento giusto, per non perdere, ma anzi sfruttare, tutta l’inerzia del tragitto precedente. Non si può fermare la macchina, capisci, né sollevarla in aria e girarla di centottanta gradi per poi rimetterla giù: bisogna essere incisivi, un po’ spericolati, e avere una visione netta della strada mai battuta, quella che costituisce un nuovo futuro di quell’azienda – o forse il futuro che si meritava dall’inizio. Il successo non è inizialmente legato a un aumento della redditività, ma lo diventa per certo nel medio e lungo termine. Un cambio strategico di immagine, un’azienda lo fa quando il suo cuore creativo non può più aspettare per diventare quello che era destinato a essere. Càpitano una serie di vicende nella vita di un’azienda: qualcuna di queste non era né programmabile né programmata, ma finisce per mutare definitivamente la struttura del dna dell’azienda stessa. Il mio compito è interpretare quella madeleine proustiana e aiutare l’azienda a ricordare se stessa. In qualche caso ho dovuto portare una piccola produzione a diventare produzione industriale, ma altre volte ho dovuto mutare una fabbrica in una bottega artigiana, se mi permette il paragone. In entrambi i casi ho potuto tastare evidente soddisfazione, pura gioia, da parte di chi mi ha assunto. Un’altra parte del mio lavoro è concepire atmosfere, creare eventi, ma io non la vedo slegata dall’altra: è sempre il solito processo di interpretazione e modifica.

WSI: Qual è la madeleine che ha scatenato il suo progetto newyorkese, allora?
TZ: Nel mio caso è un processo iniziato molti anni fa, che arriva a compimento questo prossimo anno: ho analizzato e modificato più di cinquanta aziende, ho per loro creato eventi memorabili, ho pensato per loro e con loro. Inevitabilmente ho preso elementi, ho trovato spunti continui per la mia azienda, per me stesso, che a un certo punto si sono collegati tutti assieme. Non ho posto un tempo o un limite al compimento di questo progetto che, semplicemente, si è costituito da solo. L’unica scelta vera è stata quella del luogo di elezione, che è New York: in nessun altro posto al mondo ho trovato un’atmosfera del genere, un’energia che è talmente forte da farmi domandare quale sia il segreto di questo luogo, di queste persone, che pur essendo al centro del mondo riescono ancora a mantenere in vita dentro di sé il bambino che vuole avere successo, che ci crede, che non si piega nemmeno a un attentato. New York non è disposta a scendere a compromessi quando si parla del suo futuro: è in un posto così che mi voglio misurare, trovare e creare.

WSI: In cosa consiste, esattamente, questo progetto.
TZ: È facile: un luogo dove acquistare cose o stile. Lo stile si può veicolare mediante cose, ma è anche un concetto a sè: io sarò in prima linea, presente, come consulente e guardiano. La farà da padrone il ritorno al Verde, uno spazio dove natura e design si comporranno all'unisono per diventare oggetti del desiderio. La struttura modulare dell’ambiente che abbiamo creato permette anche di mutarne l’aspetto durante il giorno, di modificare la sua destinazione d’uso preservandone il contenuto. Ci siamo ispirati al mondo animale, anche, e alla perfezione dell’alveare: una macchina perfetta.

WSI: Qual è la differenza con un concept store, o un negozio e il suo spazio?
TZ:La differenza è sostanziale e netta: io vendo emozioni. Concept store è, ormai, un termine che ha perso completamente il suo significato. Se concept store è un luogo dove qualcuno vende jeans o cappelli, allora il concept è chiaro: si chiama mercato con i camerini. Il negozio, parola che mi piace già di più, visto che è la parola latina da cui più direttamente facciamo derivare il termine moderno “business”, è un posto dove si può o non si vuole acquistare qualcosa. Nel mio caso parliamo di tempo, di atmosfera, di stile. Non necessariamente questo luogo che stiamo realizzando dove contenere cose. L’importante è che sia a misura d’uomo, che sia adatto a contenere persone e a modificarne in maniera positiva la percezione della realtà quotidiana, che sia una piazza di scambio generosa e contemporanea.

WSI: La sua collaboratrice continua a portarle dei campioni di pelle: sta lavorando con un brand?
TZ: Mi hanno affidato la direzione strategica di un’azienda italiana che produce borse ed è un nome importante nel mondo, allo scopo di ampliarne la comunicazione e virarne, ampliarne l’oggetto. Un lavoro che per me è un salto nella storia dell’artigianato del lusso italiano, e che sta appassionando tutto il mio gruppo di lavoro. Passiamo ore nel vecchio laboratorio che è splendido, antico, sapiente: una sensazione e una missione unici.

WSI: Come si diventa un Turn Around Manager?
TZ: Questa è una storia davvero lunga, ma possiamo provare a riassumerla in pochi concetti e parole chiave. La capacità di sparire dietro un brand in una fase iniziale è fondamentale per un lavoro come questo. Bisogna diventare quel brand per un periodo iniziale molto intenso, fatto di ascolto, integrarsi perdendosi dentro il suo intento creativo, comprendendone perfettamente meccanismi e tic. Quando si è diventati una cosa sola con l’azienda, e solo allora, si può iniziare il processo di distacco, di analisi dall’esterno. Osservando l’azienda al microscopio come entomologi, finché non è scomposta in poche, fortissime e pesantissime molecole, si giunge all’ultimo processo, quello di previsione del futuro, che si basa sulle precedenti due, ma compie uno scatto visionario verso un dopodomani di successo, in cui si è osato fare la cosa giusta. È chiaro che i rischi, la visione, il successo, risiedono nella terza parte del progetto, ma anche che senza le prime due non si arriva da nessuna parte.

WSI: Cosa direbbe a ragazzi che vogliano fare un lavoro simile al suo, o perlomeno nel suo ambito di azione?
TZ: L’importante è quello che loro dicono a me, non quello che io dico a loro. Vede, i ragazzi sanno tutto prima di conoscerlo: devono solo mettersi in carreggiata con il loro senso delle cose, il loro intuito, e imparare a credere che tutto è possibile con grandi determinazione e onestà. Un ragazzo, una ragazza, consci del loro potenziale e del tempo che hanno a disposizione per realizzare i propri piani, sono una forza inestinguibile, un fuoco che illumina e inspira. L’inizio della carriera lavorativa, per quanto difficile e frustrante, è il momento in cui si decide che tipo di professionisti saremo da grandi.

WSI: Percepisce la crisi nel suo lavoro? I suoi clienti, anche i più importanti, hanno preso contromisure difensive per contrastare questo ciclo negativo dell’economia mondiale?
TZ: Guardi, le dico un segreto: è un periodo straordinario per investimenti e creatività. Si vanno a perdere l’improvvisazione e le aziende che io chiamo “sottovuoto”, quelle cresciute sulle tendenze momentanee, mentre si vanno a fortificare i brand generosi, credibili, capaci di comunicare il sogno – e di mettergli il prezzo giusto.

Tiziano Zorzan fa parte del mondo dello spettacolo da quando aveva sedici anni e ha lavorato con Sharon Stone, Whoopie Goldberg, Elizabeth Taylor e David Foster, tra gli altri. Spesso descritto come guru della comunicazione e del marketing per le aziende, ha operato consulenze per clienti del timbro di Cartier, Rolex, Tom Ford, Louis Vuitton, Piaget, Lindt e Panerai, in diverse vesti.