Andrew Bolton è Curatore Capo del Costume Institute del Metropolitan Museum di New York. Significa che è posto alla testa delle riflessioni, ricerche ed elaborazioni che la sezione Costume e Moda del MET dedica all'abito nelle sue manifestazioni storiche e pertinenze. Per meglio comprendere perché si fanno mostre sulla moda bisogna ragionare su cosa essa è e sui meccanismi che la inducono.

Non è imparando a far vestiti che li si fa bene (far la moda e creare la moda non è lo stesso); la moda non esiste solamente nei vestiti; la moda è nell'aria, è il vento che la porta, la si presagisce, la si respira, è in cielo e sulla strada, è dovunque, dipende dalle idee, dalle usanze, dagli avvenimenti.

(Coco Chanel)

Bolton lavora su quegli aspetti della semantica del corpo umano che la moda e il costume rappresentano e ne traccia l'esperienza trovando l'immaginifico e il concreto filologico di ognuna. Scrive su testi e con “pagine” che a differenza del cartaceo sono fatti di trame tessili e materiali addizionati per elaborare le frasi di questa espressione dell'umano sentire e li manifesta con il taglio critico, personale, che nasce da un acume che gli deriva dagli studi d'antropologia all'Università dell'East Anglia, a Norwich, e da un master in Non-Western Art.

Professionalmente muove i suoi primi passi al dipartimento dell'East Asia del Victoria & Albert Museum di Londra. Il periodo londinese lo carica di quell'interesse verso il valore simbolico delle cose e da qui il passaggio all'abito come veicolo del pensiero sociale e individuale dell'uomo.

Mi innamorai dell’idea di raccontare storie attraverso gli oggetti. Più che le differenze mi affascinavano le similitudini tra le culture.

(Andrew Bolton)

L'ambiente di King's Road, con le varianti espressive della sub-cultura giovanile, si mescolava alla forza che in Bolton assumevano l'abito e il tessuto nella valenza di portatori dei valori simbolici dell'uomo nella sua volontà rappresentativa. Volontà che ben si vedeva nei locali come “The Blitz” a Covent Garden nelle cui serate prendeva forma la rappresentazione della moda e di quell'edonismo che si esprimeva come narrazione di movenze e atteggiamenti iconici della corrente “New Romantic”: musicisti, artisti, stilisti come John Galliano, Stephen Jones si avvalevano della fisicità per esaltare la diversità e i contrasti tra il pensiero e il suo contenitore nella più totale libertà.

Dal 1993 al 1999 Andrew Bolton è curatore di moda della Cina contemporanea al Victoria & Albert Museum di Londra. Dopo aver studiato l'arte della propaganda cinese del ventesimo secolo, nel 1999 presenta la mostra Fashioning Mao, che approfondisce l'uso dell'immagine di Mao nella moda. Nello stesso anno cura un evento del ciclo Fashion in Motion: protagonisti Vivienne Tam e Jimmy Choo.

Dal 1999 al 2002 è ricercatore senior di Moda Contemporanea presso il London College of Fashion, e nel 2000 gli viene data, in questo ambito, la curatela di due mostre: The Supermodern Wardrobe e Sole Satisfaction. Nel 2002 è curatore della mostra Men in Skirts al Victoria & Albert Museum, (anche qui accreditato come ricercatore senior). È la sua prima vera esposizione in un'istituzione museale. Con questa lavoro indaga il concetto di mascolinità attraverso l'uso della gonna nelle diverse culture.

Gli abiti non hanno genere è la società a crearlo.

(Andrew Bolton)

Nel 2002, Andrew Bolton, dall'Inghilterra, si trasferisce negli Stati Uniti. In quello stesso anno è nominato curatore associato del Costume Institute del Metropolitan Museum of Art di New York. Questo ruolo gli permette di lavorare a stretto contatto con Harold Koda, Curatore Capo del Costume Institute e di succedergli nel 2005, organizzando mostre rilevanti dal punto di vista culturale e sociale. Oltre a tenere conferenze universitarie e a pubblicare articoli su riviste specializzate, Bolton scrive i testi e segue la pubblicazione dei cataloghi delle sue mostre.

Come Curatore Capo allestisce al MET alcune delle retrospettive sul costume di maggior successo della storia dell'istituzione museale:

  • Alexander McQueen: Savage Beauty, mostra sullo stilista inglese avvenuta nel 2011, un anno dopo il suo suicidio.
  • Schiaparelli and Prada: Impossible Conversations, del 2012: dove mette in relazione due grandi italiane della moda Elsa Schiaparelli e Miuccia Prada.
  • PUNK: Chaos to Couture del 2013: dove gli elementi più rivoluzionari e rappresentativi di questo movimento di origine anglosassone vengono letti nelle creazioni della moda contemporanea.
  • Charles James: Beyond Fashion, del 2014. Mostra sul primo couturier americano della storia.
    China: Through the Looking Glass del 2015, analizza le influenze dell'Estremo Oriente e della cultura cinese nella moda.
  • Manus x Machina: Fashion in an Age of Technology, del 2016, sonda l'espressione della tecnologia nella moda.
  • Rei Kawakubo/Comme des Garçons: Art of the In-Between, del 2017. Con questa esposizione Bolton mette in scena, per la seconda volta nella storia del MET, una retrospettiva monografica su un creatore di moda vivente: la nipponica Rei Kawakubo di Comme des Garçons (la prima fu nel 1982, protagonista Yves Saint Laurent, curata da Diana Vreeland).
  • Heavenly Bodies: Fashion and the Catholic Imagination, del 2018: mostra che pone in evidenza l'influenza della religione, e in specifico quella cattolica, sulla moda e il costume e che vede la collaborazione diretta del Vaticano.

Ad ogni mostra curata da Bolton il MET ha raggiunto nuovi e ineguagliati obiettivi d'interesse internazionale e affluenza di pubblico, da MacQueen alla religione si è parlato di record battuti e queste analisi si sono rapidamente trasformate in influenti bacini di pensiero che sono divenuti parte del quotidiano lessico della moda e sua interpretazione.

Per il 2019 Andrew Bolton sta preparando Camp: Notes on Fashion, dove sonda l'iperbole espressiva di un edonismo portato all'eccesso. Il termine “Camp” apparve per la prima volta nel 1909. Lo stile camp intende l’uso deliberato e sfrenato del kitsch nell’arte o nel costume e dobbiamo la sua definizione e codificazione, all’intellettuale Susan Sontag nel saggio “Notes on Camp”, che trattava l'impatto del termine nella cultura popolare del 1964. La Sontag mette in relazione il camp con la liberalizzazione sessuale e soprattutto omosessuale, per arrivare a definire il termine “una sensibilità”.

Una sensibilità (in quanto si distingue da un’idea) è una cosa di cui è estremamente difficile parlare, ma ci sono anche ragioni speciali che hanno sinora impedito che ci si occupasse di Camp. Esso non è un tipo di sensibilità naturale, ammesso che una sensibilità naturale possa esistere. Anzi, l'essenza di Camp è il suo amore per l’innaturale, per l’artificio, per l’eccesso.

(Susan Sontag 1964)

E ancora...

Camp è una forma particolare di estetismo. È un modo di vedere il mondo come fenomeno estetico. Questo modo, il modo di Camp, non si misura sulla bellezza ma sul grado d’artificio e di stilizzazione.

(Susan Sontag 1964)

Il camp consiste nell'amore per ciò che è innaturale ed esagerato. Si tratta di una predilezione per l’estroso, l'eccessivo, il giocoso, tutto il contrario di ciò che appartiene alla vita quotidiana e alla cosiddetta “normalità”.

Camp è il trionfo dello stile ermafrodita. (La convertibilità tra “uomo” e “donna”, tra “persona” e “cosa”). Ma lo stile, cioè l'artificio, in fondo è sempre ermafrodita. La vita non ha stile. E neanche la natura.

(Susan Sontag 1964)

Bolton apre un nuovo capitolo di riflessione sulle incognite dell'esistenza e si candida a cantore dell'ibridazione di genere in favore di una continuità di ricerca sulle tracce delle esigenze del sociale. La moda e i suoi meccanismi lasciano aperte le porte a questo grande esorcista delle palizzate e dei partiti presi, a favore del flusso spontaneo e libero dell'identità. Che l'esorcismo passi attraverso “Heavenly bodies” per la proliferazione del “Camp”? Lo capiremo dal 9 maggio in poi...