Villa Medici: Sailard e Swinton come Balthus e Setsuko.

Un pittore e la sua musa, un curatore e la sua ispirazione in residenza d'artista.

In questo luogo carico di storia si è sprigionata l'intuizione di dare corpo al vuoto generato tra tempo e azione artistica, tra forma e suo sentimento, attraverso l'eco che l'arte genera e l'artigianato come suo veicolo sostanziale.

Non siamo nel sedicesimo secolo o nel '900, ma nell'oggi di una Roma che omaggia l'alto manufatto delle sue grandi maison, tra costume, cinema e moda: dall'Accademia di Francia, all'Ara Pacis, sino al Mattatoio.

Clara Tosi Pamphili, unita alla figura della sindaca Virginia Raggi e Zétema Progetto Cultura, hanno dato voce alle visioni di questi due interpreti delle emozioni sociali ed umane tra autorialità ed attorialità.

Attraverso la personificazione del valore che la scena del corpo possiede, tra la sua nudità e l'allestimento della medesima, hanno unito l'esposizione dei percorsi ideativi dell'abito nella Settima Arte.

Lo stile, servito dal potenziale costruttivo del processo artigianale, delle maison romane, è la base del connubio tra il cinema e Roma Capitale. Il progetto Romaison ha mappato questa esperienza.

Il costume di scena è il lessico caratteriale di una storia che passa il testimone ai fatti dei fili, delle porzioni dei medesimi e loro cromie, sapientemente distribuite, in giochi chiaroscurali. Verticalizzazioni e processi terreni che competono alla lirica del costumista e scenografo Danilo Donati in singolar tenzone con il Pasolini regista e le sartorie che hanno permesso queste realizzazioni.

In Embodying Pasolini, il corpo allestito è protagonista: Tilda Swinton è la Musa e Sailard si fa Caronte. Il curatore e l'attrice lo attraversano e lo traghettano nel nostro tempo per rifletterci l'espressione e la posa che gli appartiene.

Swinton è colei che dall'atto esegue la professione e con il gesto ammutolisce il suono producendo corporeità. Percorre il verbo di trama e ordito che adegua l'uomo al ruolo ma non ne fa la sostanza pur di essa vestito.

Negli spazi del Mattatoio, fanno il loro ingresso i soggetti che da Danilo Donati sono stati ideati e orchestrati in forma di costume per il cinema, ma a consegnarli alla cronaca è la figura del curatore Sailard che porge e gravita dal piano d'appoggio archivistico al piano espressivo epidermico.

Il racconto, in punta di ago, possiede la “foggia” che è la qualità di questo specifico universo e la foggia è recitata dalla sua Musa che non ha la scelta del corpo ma di quello che diviene “a cura di”.

L'alterità esecutiva che è della simulazione attoriale è simultanea al vero del vivere, e da esso attinge anche attraverso il costume.

La regia è della foggia tagliata a filo dell'anima che contribuisce alla semantica del movimento in abito e dell'abito.

Il 25 giugno è stato il momento: il Mattatoio è stato il luogo.

Qui è germinato il ridivenire delle parti di circa quaranta costumi della produzione del premio Oscar Danilo Donati per Pasolini (dal Vangelo secondo Matteo a Uccellacci e uccellini, passando per Il Decameron, l'Edipo Re, Il Porcile, I Racconti di Canterbury sino a Salò o le 120 giornate di Sodoma...).

Le membra di questi capi del vestiario cinematografico pasoliniano, a supporto di una finzione, si sono ricomposte per il valore dell'altrove e della risignificazione ad evocazione del prezioso patrimonio artistico e artigianale che le ha prodotte: condotte in una terza dimensione dallo scambio tra Sailard e Swinton.

La sintassi oratoria dei costumi ancorati alla celluloide, e quasi mai incontrati fuori dagli accenti narrativi del cinema pasoliniano, è apparsa più che mai epifanica della potenza che in essi gravita oltre l'esecuzione poetica per cui sono stati realizzati.

Creati dalla Sartoria Farani hanno dipinto, con consistenza tessile, e non solo, lo spazio di un atelier immaginario allestito in un padiglione del Mattatoio.

All'occhio del pubblico le forme lignee dei copricapi, realizzati dal Laboratorio Pieroni, sono state disvelate e poste nel candore del fondo, come liberate dalla patina dell'addizione temporale che le aveva occultate: stesso destino per i costumi.

In punta di dita la coppia Swinton-Sailard ha concesso a veli di carta di gonfiarsi dell'aria dell'oggi per raccontarci quanto celavano e rivelarci quelli che non sono lembi di un tempo ma strade percorribili, tra pieni e vuoti, accoglienti per chi respira della loro coscienza.

Emersi da diafani contenitori, per la diafana musa, questi capi non si sono limitati a ricoprirla, vestirla, ma l'hanno educata alla loro storia e alla loro esistenza.

Ogni costume ha abbracciato l'anima camaleontica di “Tilda” (medium ineffabile tra la seduzione della carne e l'usura derivata dalla fruizione cinematografica), ed ha lasciato all'arte degli arti il potenziale vivificatore che li ha rivelati.

La “polpa” dei costumi è il racconto della loro fisicità sui corpi dei protagonisti e delle comparse: comprimaria di un lessico favorito dall'occhio registico e dichiarato dalla sapienza sartoriale di Donati.

Questa materia diviene centrale per il gioco fuori luogo che in Embodying Pasolini risveglia i colori, i volumi, i tagli di queste creazioni, riqualifica la diffrazione luminosa delle superfici, ed il suo spegnimento nella profondità di una piega.

Come traccia epiteliale dell'animo umano la vestizione trova nelle porzioni di un volto allungato il favore della mimica dell'aulico e del sapiente, così come dello stolto, sciocco e un poco incosciente, attraverso quel carattere che gli è pertinente e che deriva dalla foggia di ciò che s'indossa.

Tilda Swinton mentore di quella neutralità di genere, che appartiene al teatro elisabettiano, ed interprete e personificazione del labirintico Orlando cinematografico, disintegra il ruolo della genetica e affronta la mimesi in un linguaggio fatto di stratificazioni e gesti suggeriti dall'anima vestita.

Tracciata dal bianco di un camice, e da paralleli e meridiani di un mondo corporeo fatto di ibridazione genitale, l'attrice britannica presenta, nella candida divisa, l'epidermica base che neutralizza la separazione e la distanza e attende la copulazione con l'identità.

Il suo volto palesa, in questa somma cromatica, uno ad uno, i capitoli della poetica pasoliniana tra gli spazi silenti di un Atelier ideale che lavora sul modellato della memoria, e su quello della personalità, attraverso l'acustica frusciante del tessuto di cui si compone.

Non cinema ma sapienza dei quei gesti “Donati” alla Musa da Pier Paolo Pasolini per mano di chi ne ha “Cura”.