Cosa introduce la moda nel dialogo con il corpo? L'essere diversi, rinnovati nell'aspetto.

La permeabilità anatomica alle correnti, che sono legate ai bisogni di emozioni sempre nuove, si esprime nella continua ricerca di una forma mutata e mutevole.

La forza centripeta del rappresentarsi, più o meno vestiti di riflessioni e lavoro sulla propria pelle, comprende sentimenti che sartorialmente rappresentano il distinguersi e al contempo associarsi dell'umano.

Vestirsi è anche connettersi con le esigenze di un corpo che cerca una sua inedita espressione attraverso inedite esperienze che oggi sono sempre meno legate alla novità di una nuova scoperta, ma alla traccia che si media con un tempo già sedimentato e che si manifesta sotto esercizi posturali algoritmicamente ricercati in un nuovo infinito formale sempre più tecnologico più che di immagine.

La moda è certamente un atteggiamento e anche la sua sostanza raccoglie il testimone da qualcosa che effettivamente manca e qualcosa di effettivo che c'è, ma si polverizza se parliamo di stile. Quest'ultimo fa, per dirla alla Barthes, della durata, unita all'usura, l'essenza del concetto di “classe”, ed il parallelo più verticale che ne determina l'atemporalità rispetto alle pulsioni mutevoli delle correnti.

Se parliamo di moda il paradigma è inverso perchè di essa il carisma è la “rincorsa”, che le dà vita e la sposta sempre un passo avanti, verso l'imperitura modificazione e conseguente autodistruzione.

In questo scorcio di secolo la “rincorsa” è espressa non tanto dal progetto della forma in cui gli oggetti sono realizzati e dunque la loro dimensionalità materica, ma da come sono comunicati e da chi li comunica: la loro etichetta.

Questa dinamica nasce dalla carenza espressiva di un universo congestionato di proposta e sclerotizzato nell'inseguire una richiesta, da sollecitare e artificialmente costruire, in nome della piramidale crescita dei fatturati.

La moda, bella o brutta, nel senso di ciò che lega l'arte allo spirito nel manifestare un'emozione privata quanto universale, è anch'essa bipartita, ma si manifesta mutevole per essere sempre appetibile, e la sua attrattiva nasce dal diverso e non dall'inesplicabile di un sentimento.

I grandi nomi di questo importante settore hanno da tempo affidato ai numeri la chiave progettuale dei loro prodotti, ma di fatto hanno riempito di pensieri massificati, quanto sterili, il concetto di identità.

Si parla di fast fashion e non ci si approccia al principio che alcuni brand del lusso globale regolano l'ecumenismo dello stile in funzione del profitto travestendosi delle glorie del passato e dell'alto costo dei loro prodotti come garanzia di una significazione immaginativa che di fatto ha da tempo abdicato al suo ruolo centrale: immaginare per creare.

Pochissimi investimenti verso l'inedito e qui verrebbe anche da chiedersi se si possa ancora produrre inedito: novità.

Dal mondo del così detto stile ogni riverbero rimanda a ciò che già esiste e come atto onanistico si sforza di stentati orgasmi comunicativi che fanno rumore fine a se stesso, senza reale procreazione innovativa.

Gli spasmi mediatici sono prodotti per regolare la pressione del mercato e misurare una febbre indotta più che sviluppata da veri e bollenti passaggi di forma.

L'abuso del “Genio”, come lemma definitorio di una qualità espressiva senza eguale, rende tutto uguale.

Grandi sono le produzioni comunicative per condire il piatto: termine dimensionale che in questo caso equivale ad una struttura priva di modulazione.

La noia, protagonista della scena, è formata da quattro lettere, come la parola moda, e oggi sartorialmente la veste.

I big sono per lo più tali per l'ingombro pachidermico della loro storia e dei loro ridondanti fatturati non certamente per l'ineffabile ricerca di una nuova qualità della forma. Quest'ultima è sostituita ossessivamente dalle urla dichiarative di miracoli che hanno solo l'onomatopeica del richiamo di un venditore al suo pubblico, al suo mercato, e non l'oggettiva valenza dichiarata.

Le ultime stagioni hanno affrontato la sostenibilità come l'abito nuovo dell'imperatore, ma non hanno accolto a pieno lo sguardo del fanciullo che ne dichiarava l'assenza applicativa e creativa di tali visioni su larga scala.

Non è un dichiarativo che veste di nuovo un sistema vecchio, ma è il processo espressivo che si radicalizza su una profondità d'azione a tutti i livelli della filiera con l'occhio rivolto all'io interiore dell'immaginazione in termini costruttivi, di contenuto, e formali, che fanno la differenza.

Nel panorama generale, fuori dalle multinazionali, gli orizzonti si stanno muovendo dal cuore di storie che affrontano i temi del viaggio come ricerca di una vita di dignità nel proprio universo culturale e che s'impongono nella tracciabilità, a chilometro zero, dei propri profili etnici e storiografici, oltre che produttivi.

L'esotico è l'erotico passaggio che da sempre accende le menti, e approccia la vita oltre confine, come aspetto unico ed irripetibile di stratificazioni culturali che si vivificano dalla viva voce di chi quel panorama lo ha geneticamente e che sulla planimetrica tela della terra si dipana come autentica caratterizzazione e personificazione del nuovo di oggi.

Nomi che vengono dall'Albania come Nancy Dojaka (vincitrice del LVMH Prize 2021), o meticci come Chopowa Lowena (Stati Uniti-Regno Unito-Bulgaria) o il sudafricano Lukhanyo Mdingi e ancora l'australiano Jordan Dalah e l'italiana Flavia La Rocca ci danno la loro personale interpretazione dello stile senza alcun legame con il concetto di influenza massificata e compiaciuta del suo status, ma raccontano di radici e collegamenti umanistici che portano altrove, tra storia e territorio.

Ecco che la potenza espressiva di chi oggi guida, in autonomia, il proprio marchio ha ragion d'essere nel momento in cui incontra lo sguardo acuto di chi sa tracciare le linee del proprio aspetto verso quel calibro dello stile che qualifica l'identità e non si prostra alla mera legge del martellante e ossessivo universo mediatico.

Tale diversità racconta un decoro dell'uomo che si apre all'uscita dal coro attraverso i suoi tratti gattopardeschi. Quel bisogno di mutazione costruttiva che può alimentare il domani di un settore che “bisogna che cambi perchè possa mantenersi come era”.

In tale ambito, il processo creativo, che si addiziona allo spirito di natura, è riconosciuto nella sua dimensione originale e rappresenta la sfera intima di colui che in esso si riconosce.

In questa remota schiera di anime si esercita il sentimento di una forma inedita d'interpretazione dei modi della moda ed in essa il concreto avanzamento, in termini semantici, grammaticali e poetici dell'universo dello stile.

Esempi come i sopra citati e quelli di conclamata creatività, come l'irlandese J.W. Anderson, alla guida del suo marchio e di Loewe, di proprietà di LVMH, fanno sperare in una direzione legata alla pura espressione creativa che si sposa efficacemente con i fatturati.

La moda necessita di un rinnovato stile comportamentale che la definisca nel tempo di oggi come protagonista di un'azione creativa/immaginativa concreta, che ne determini l'uscita dall'oblio iperproduttivo, antitetico alla creatività pura.

Essa deve emergere dalla palude della “fantasticheria comunicativa” a favore di una condizione umanistica dell'essere umano che ritrovi il pensiero ideativo legato ad un'identità cosciente, quanto ancora remota, connessa alla produzione rispettosa dell'ambiente e della condizione naturale dell'esistere e misurata con la verticalità immaginativa stimolata dalla verità dei bisogni.