Il 2014, appena concluso, è stato anno di celebrazioni, centenari e anniversari, e ha confermato che noi italiani, poco propensi a guardare all'incerto futuro e più inclini ad ancorarci alla certezza tranquillizzante del glorioso passato, siamo diventati un popolo di celebratori e, soprattutto – tentiamo un neologismo – di commemoratori. Forse, troppo presi dall'enfasi del centenario dello scoppio della Prima guerra mondiale, pochissimo spazio abbiamo dedicato a un doppio anniversario di quello che per molti di noi è stato un vero eroe della comunicazione.

Nel 2014 è caduto il ventennale della morte del conte Marcel Bich, ma anche il centenario della sua nascita: Torino, 29 luglio 1914 – Parigi 30 maggio 1994. È torinese, originario della Valle d'Aosta, naturalizzato francese. Nel 2004, a dieci anni dalla scomparsa, il comune di Torino ha posto una targa davanti alla sua casa natale: “Qui nacque Marcel Bich, 1914 - 1994. Semplificò la quotidianità della scrittura”. Proprio così, il conte Bich, padre della leggendaria Bic, comprò il brevetto della penna a sfera dal suo inventore, l'ungherese Lazslo Biro, creando lo strumento scrittorio moderno forse più famoso al mondo; anno di nascita della Bic, 1950. Marcel Bich e il suo socio Eduard Buffard decisero di togliere la “h” finale del cognome per evitare l'assonanza con la pronuncia inglese di bich, sostantivo molto noto anche a chi ha dell'inglese solo i primi rudimenti, perché designa una delle professioni più antiche al mondo.

La Bic Cristal è la più famosa, ma se curiosiamo tra le pubblicità sui quotidiani e sulle riviste degli anni cinquanta, scopriremo che la prima edizione, sempre sottile e agile, aveva il corpo grigio opaco e il cappuccio azzurro. Lazslo Biro muore, povero e dimenticato, nel 1985. Marcel Bich muore, ricchissimo, nel 1994. La sua fu una rivoluzione tecnica, sociale ed economica di portata epocale che offuscò anche l'invenzione straordinaria del pennarello nipponico; una rivoluzione che i giovani di oggi, ma anche molti adulti, assuefatti al computer, non potranno mai capire e avvertire perché non transitati, come è accaduto a noi, dalla asticciola con pennino alla penna a sfera.

Quelli come noi che hanno iniziato le elementari alla metà degli anni cinquanta non potranno mai dimenticare le torture inflitte dalle suore, ai cui metodi pedagogici i nostri genitori ci affidavano correndo il rischio di fare dei propri pargoli, se non risoluti atei, almeno blandi anticlericali. Poveri fanciullini indifesi, intrappolati in scomodi banchi di legno, che hanno determinato il diffondersi della scoliosi, crescevamo avviliti dai colori dominanti delle nostre aule: grigi e neri i banchi, grigio chiaro e grigio scuro la tinteggiatura delle pareti, nere le suore, nerissimi i nostri grembiuli, sia maschili che femminili, nera la grande lavagna sostenuta da un'intelaiatura grigia, nero il melmoso inchiostro della boccetta infilata nel banco, nella quale intingevamo ispidi pennini che grattavano le pagine dei nostri quaderni, con la copertina, manco a dirlo, nera e il taglio delle pagine rosso.

La tortura cominciava con le aste: lineette verticali da inserire tra rigo e rigo, con la maledetta penna dall'ispido pennino. Poi, piano piano, dalle aste si passava ai numeri e alle lettere, poi alle prime parole, e poi ancora alla tortura di riempire pagine intere con nome e cognome. Perché – diceva la suora - almeno cognome e nome, bisognava saperli scrivere correttamente. E questa fu la prima ingiustizia inflittaci. Perché la difficoltà variava da nome a nome, da cognome a cognome. La “G” del mio cognome era una delle lettere più difficili con quella sorta di salto mortale all'indietro della mano; niente a che vedere con le difficoltà del compagno Astucci, che doveva disegnare il semplice ovale della “A” assai più facile, ma con la difficoltà di farlo con la mano destra, perché al poverino che aveva la naturale tendenza a scrivere con la sinistra, la suora legava la mano colpevole, per costringerlo a sciabolare di pennino con la destra. Ancora più problematica la “M” del mio nome; con il ruvidissimo pennino dovevo tracciare tre archi a sesto acuto col rischio che arrivato alla sommità del terzo, la punta del pennino traditore si apriva lasciando scendere sul quaderno una vergognosa macchia nera e sul nostro animo la rabbia per la mancata conclusione della lettera e l'amarezza per il burbero rimbrotto che ci aspettava.

Però la severissima suora il votaccio sul quaderno lo poneva con una penna bicolore, rosso blu, che era a sfera. Naturalmente non obiettavamo e subivamo l'ingiustizia come fatto pedagogico ineluttabile. Avevamo capito che la scuola era una tortura e ci eravamo rassegnati all'uso di quella penna antiquata e ispida perché così ci educavamo a scrivere meglio e a essere disciplinati. D'altro canto, non lontano dalla scuola c'era una ricevitoria del lotto dove gli impiegati trascrivevano su sottili e colorati fogli di carta velina i numeri giocati proprio con la penna col pennino con una grafia stranissima e veloce, facendo ad esempio i numeri “5” e “9” somigliantissimi. Inutile dire che, nonostante il riparo del grembiulino, le macchie d’inchiostro s’imprimevano dappertutto a cominciare dal colletto bianco inamidato che era il più esposto, ai polsini e perfino ai pantaloncini. L'unico aspetto gradevole di quella penna era la possibilità d’essere brandita come freccetta da “appizzare” sul banco, operazione ritenuta sacrilega dalla suora ed effettivamente dannosa per il pennino.

Poi in terza elementare il miracolo. Via le suore! Subentrò un indimenticabile maestro, proveniente da Torino, che con molta serenità sentenziò che l'uso del pennino gli sembrava un’inutile tortura e un sistema antiquato. Ottenemmo perciò la libertà di usare nientemeno che la penna Bic. Che velocità di scrittura! Che tratto morbido e flessuoso, che piacere! Potevamo scrivere con quell'azzurro luminoso e scintillante della penna Bic! E il compagno Astucci, il mancino, poteva liberamente armeggiare con la mano sinistra, perché il maestro l'aveva lasciato libero di scrivere come voleva e la Bic gli permetteva di farlo senza distendere sulla pagina la parola subito dopo averla scritta, come, era un’espressione simpatica del nuovo maestro, lettere al vento.

Sì, è vero, c'era anche scriveva con la stilografica e per questo si dava arie di riccone, perché le Pelikan costavano un sacco di soldi, per non dire delle Aurora che erano le penne dei ricchi. Ma al momento del compito in classe, soprattutto quando c'era da scrivere sotto dettatura, il compagno ricco, tirava fuori dalla cartella il suo portapenne di legno, deponeva con cura la preziosa stilografica, tanto l'aveva esibita abbastanza, e tirava fuori anche lui, l'agilissima Bic.

La Bic costava pochissimo, consumava pochissimo, non macchiava ed era alla portata di tutti: un vero strumento di democrazia. Addio per sempre pennino traditore e dispensatore di macchie! Fu un’utilitaria di successo, come la Fiat 600 che proprio in quegli anni rendeva tutti uguali, grazie alle cambiali, gli italiani. E anche noi bambini diventavamo tutti uguali grazie alla penna Bic. Certo c'erano le versioni più elaborate della penna, col cappuccio dorato e a scatto. Ma la vera intramontabile Bic è quella del modello base, agile e sottile, che è restata sostanzialmente sempre uguale, quella alla quale, nonostante l'assuefazione al computer, va la nostra incondizionata gratitudine. Oggi la scrittura a mano è considerata lenta ed è amata da quelli che prediligono ed elogiano la lentezza; ma ai tempi della nostra infanzia quello che oggi è ritenuto lento fu reso veloce dalla penna Bic. Come sono mutati col tempo i concetti di velocità e di lentezza!