«Siamo ancora molto lontani dalle battaglie tra pensiero, percezione ed emozione che realmente forgiano la nostra vita, inclusa la conoscenza “pura”» (Feyerabend 1991, 117).

Nell’immaginario collettivo, perlomeno della società occidentale attuale, non è certo necessario far questioni sulla differenza fra arte e scienza, perché questa è data per scontata. Nell’introduzione all’ormai classico testo di Sir Charles Percy Snow, le Due culture del 1959, ma riedito nel 2005 (Marsilio Editore), a sottolineare la riconfermata attualità del tema in esso trattato, Alessandro Lanni ci dice: «Dalla tassonomia platonica dei saperi fino alla separazione tra Naturwissenschaft e Geisteswissenschaft, nella storia dell’Occidente si è sempre dato per acquisito che esistesse una differenza tra conoscere i fatti di natura in modo oggettivo e occuparsi di ciò che fanno gli uomini in modo più o meno creativo» (Ivi, 7-8).

Anzi, se qualcuno osa far notare come ci siano diversi momenti e luoghi di comune convivenza fra artisti e scienziati, viene solitamente ricoperto di insulti e bollato come ignorante, se è un artista, e come prevaricatore e nuovo colonialista del sapere umano, se è uno scienziato. Forse appare un po’ troppo ambizioso il progetto di chiedersi «come sia sorta questa distinzione, come essa nel corso della storia abbia mutato il suo ruolo, quali valutazioni le siano connesse, quindi in quale misura tali valutazioni abbiano promosso o ostacolato la conoscenza del nostro mondo» (Feyerabend 1989, 8).

Mentre possono essere, a mio avviso, esplorati i punti di vista sottesi a tale distinzione, come ben descritto da Paul Karl Feyerabend: «Il primo punto di vista muove dall’assunzione che un’attività utile e coronata da successo, come ad esempio la medicina, l’arte bellica o la retorica, richieda una fondazione teorica che ne renda possibile l’applicazione immediata a situazioni complesse, mediante un processo perfettamente controllabile e dettagliatamente descrivibile da parte dell’intelletto. […] Solo dall’attività teorica sgorga la conoscenza; tutti i possibili risultati di un’attività pratica rimangono invece privi di valore fintantoché non si sia in possesso di un criterio mediante il quale stabilire quanto di essi è dovuto all’abitudine e quanto al sapere certo» (Feyerabend 1989, 8-9).

Qui risuonano chiare le parole “fondazione teorica”, “processo perfettamente controllabile”, potere descrittivo dell’“intelletto” e “sapere certo”, che riconducono immediatamente alle grandi tematiche sulle quali si articola gran parte della discussione epistemologica del novecento, figlia dell’intera storia delle idee degli umani. Se, secondo tale concezione, la teoria deve precedere la sua messa in pratica, la teoria stessa deve essere “fondata” e può esserlo se si suppone esista un “sapere certo”, “oggettivo”, cui fare riferimento, verso cui procedere attraverso un cammino altrettanto certamente “controllabile” per mezzo del nostro “intelletto” o meglio ancora della “Ragione”, potente e infallibile strumento conoscitivo che solo gli umani sanno di possedere e che li mette al di sopra dell’intero creato. Prosegue Feyerabend: «Il secondo punto di vista che soggiace alla moderna distinzione tra arti e scienze concerne quelle specialità che oggi concepiamo come arti in senso stretto, quindi non più la medicina o la retorica, ma la pittura e la poesia. Questo secondo punto di vista fu formulato per la prima volta da Platone. La pittura e la poesia, dice Platone, non solo sono prive di fondamento teorico, ma non mirano neppure alla realtà, bensì a fenomeni soggettivi, come le rappresentazioni e le emozioni del poeta e del pittore, e ingannano il lettore o l’osservatore con illusioni, quali quelle del palcoscenico e della prospettiva» (Feyerabend 1989, 10).

Ora il campo semantico viene ristretto, con un ondeggiare fra concezioni che si suppone siano tali nella società occidentale dei nostri giorni, alle “arti in senso stretto”, come tali individuate da Platone. Prima di occuparci di questo, vale la pena costruire qualche percorso di archeologia delle parole proprio attraverso l’opera che lo stesso Platone avrebbe dedicato alla Conoscenza o alla Scienza, il Teeteto, facendo il tentativo di liberarci almeno momentaneamente delle strutture categoriali che da Platone o da certe sue interpretazioni in poi ci hanno indirizzato nel grande mondo del sapere, erigendo vie e linee di confine fra aree che si sono venute di volta in volta enucleando, finendo con l’irrigidirle entro vere e proprie muraglie, spesso senza aperture comunicative.

Proviamo a fare alcune considerazioni sull’etimologia della parola episteme, ma soprattutto sul suo uso nel Teeteto; proviamo, poi, a porre l’accento, rovesciando per l’appunto l’impostazione platonica più nota, sulla processualità e sull’azione del fare scienza e conoscenza, come in più punti ivi mostrato. In tale dialogo platonico si viene a creare una circolarità stretta fra conoscenza e scienza; infatti, Platone, articolando il suo procedimento dialettico al fine di capire in cosa consista la conoscenza e come essa si svolga (Natoli 2005, 8-9), usa sempre il termine επιστήμη e lo accosta alla sapienza o σοφία, per cui il sapiente è colui che possiede l’επιστήμη, con un continuo intrecciarsi di sapienza e scienza (Spanio 2005, 262-263).

Nel riflettere su cosa sia conoscenza Platone pone ed evidenzia anche uno scarto fra conoscere e sapere: il sapere, σοφία, equivale all’avere conoscenza di qualcosa, ma non è il conoscere, quindi la σοφία non coincide con l’επιστήμη. Inoltre, come si potrebbe mostrare seguendo l’uso che di questi termini e dei predicati ad essi collegati fa Platone, c’è differenza fra γνωσις ed επιστήμη: mentre il primo si identifica semplicemente con la capacità di discernimento o più esattamente con l’avere per noto, il secondo termine indica il possesso effettivo dell’oggettività dell’oggetto, «quel tipo di sapere che è capace di imporsi, che riesce a farsi valere in quanto è nelle condizioni di mostrare la sua verità» (Natoli 2005, 20-21). È evidente come qui si stiano gettando le basi per la profonda differenziazione fra la conoscenza “scientifica”, identificabile con l’επιστήμη in senso platonico, che è in grado di giungere alle essenze del reale e quindi alla verità assoluta, sciolta da qualsiasi limite di spazio e di tempo, e quella conoscenza che non è considerata scientifica, in quanto non dotata di tali caratteristiche. Fa riflettere, inoltre, il fatto che επιστήμη significhi anche abilità. Da notare che Platone, anche se in effetti mira a ricercare che cos’è “scienza o conoscenza”, dà valore ontologico anche alla relazione; azione e relazione assumono consistenza ontologica e si situano entro la polarità essere – divenire, per cui «la conoscenza, sia essa concepita come azione che come relazione, è da intendere come un caso dell’essere» (Natoli 2005, 15).

Nel momento in cui Platone propose la sua visione del mondo, con la sua tassonomia conoscitiva che poneva ai massimi livelli la conoscenza della verità come realtà vera conoscibile tramite l’episteme, egli tolse all’arte, in quanto imitazione dell’imitazione, il diritto a qualsiasi fondamento teorico, ritenuto peraltro da lui necessario, e la relegò in una nicchia tassonomica declassata, per essere l’arte non mirante alla “realtà”, legata alla “soggettività” del suo autore e quindi alle sue “emozioni” e alle sue modalità di “rappresentazione” della realtà stessa, resa difficoltosa non dall’impossibilità di conoscerla, per i limiti intrinseci degli umani o per la ipotetica non esistenza di una realtà in sé, ma per le “illusioni” percettive cui è soggetto spesso colui che osserva un’opera d’arte.

Ancora, quindi, il discorso platonico, probabilmente per primo nella storia delle idee, ruota intorno ad alcuni concetti chiave: la ferma credenza nell’esistenza di una “Realtà”, conoscibile “oggettivamente”, epurando la nostra conoscenza da illusioni, che sono tali in tanto in quanto vi è un mondo oggettivo con il quale misurarsi, e dalle emozioni che oscurano il corretto funzionamento della “Ragione”, oltre al classicamente platonico distacco fra teoria e pratica, dal quale consegue un ordinamento delle discipline da quelle che consentono la “vera” conoscenza, con l’uso dell’intelletto, a quelle che ne danno solo una falsa copia, legata alla pura credenza. Anche se considerato secondario nel processo di conoscenza, purtuttavia fa il suo ingresso con Platone il concetto di rappresentazione, che tanto fa discutere oggi e che, almeno nel caso di Platone, è reso possibile sempre dalla presupposizione dell’esistenza di una “Realtà” con la quale il soggetto che la conosce può misurarsi.

Sono, pertanto, ben manifesti quei dualismi, a iniziare appunto da quello fra soggetto e oggetto della conoscenza, per proseguire con quello riguardante Ragione ed Emozione, teoria e pratica, che hanno poi caratterizzato la storia del sapere fino a tempi molto recenti, ma che, soprattutto, nel corso del Novecento hanno vistosamente perso la loro confermata solidità, rendendo vacillante quella tautologia platonica prima così certa e che ora sembra non funzionare più così bene. D’altro canto, molto tempo prima dei tempi attuali, costruendo l’intero edifico del sapere su tali premesse concettuali, sottintese o manifeste, la spaccatura fra arte e scienza divenne più profonda. Infatti, gli artisti fecero di tutto questo un vanto, esaltando l’importanza della creatività nell’opera d’arte, contribuendo dal loro lato ad innalzare una insormontabile barriera nei confronti di quegli scienziati che fanno della ricerca della “Verità”, basata sulla credenza nell’oggettività della conoscenza, il loro punto di forza. Paradossalmente insieme, però, tali artisti e tali scienziati contribuirono a creare un fitto “buio ideologico” (Feyerabend 1989, 10), all’interno del quale ci troviamo ancora ad annaspare continuando a negare la possibilità di dialogo fra i due saperi e, invece, la loro ineluttabile dipendenza l’uno dall’altro come fonte che alimenta l’intero organismo della conoscenza, che è ogni singolo essere umano.

D’altro canto, qualora si vogliano riconoscere le numerose linee di trasmigrazione da una disciplina all’altra che rendono il tema arte e scienza fortemente interdisciplinare, «il permanente interscambio tra le due discipline rende […] impossibile una teoria generale che ne fissi la relazione una volta per tutte» (Thomas 1989, 16). Inoltre, il rischio è quello di far collassare le due discipline l’una sull’altra. Se le caratteristiche che le accomunano sono troppe, tanto vale eliminare le distinzioni e le compartimentazioni disciplinari. Ma ciò avrebbe un senso? Sembra si debba tornare, per rispondere a questo interrogativo, al problema di definire cosa si intenda con “Arte” e soprattutto con “Scienza”. Ecco allora che c’è chi, come Feyerabend, parla di “Arti” e “Scienze”, chi, come Popper, parlerebbe solo di “artisti” e “scienziati”. In ogni caso, appare generalmente accettata la necessità di ricorrere a due diversi compartimenti semantici sottesi all’uso di detti termini e nel farlo sembra innescarsi un’altalena definitoria, attraverso la quale ciascuno di essi sembra vestirsi di momento in momento di qualità dell’altro, che ne aumentano la valenza prospettica. Eppure questo non avviene secondo una corrispondenza biunivoca; ossia ciò che un artista attinge dal serbatoio della qualità “scientificità” non è direttamente correlato con ciò che uno scienziato prende dalla qualità “artisticità”, restando quindi distinguibili le due figure.

Troppo complesso sarebbe provare a dare una qualche descrizione dei due ambiti del sapere che stiamo considerando, potendosi ad esempio accettare, come sintesi dell’intera problematica definitoria, l’asserzione di Bärtschi il quale sostiene che “Arte è ciò che viene considerato arte”, per cui acquista senso quell’opera d’arte cui ognuno è in grado di conferire senso a seconda del luogo e del tempo in cui si localizza il suo specifico vissuto. Potremmo, forse, con Feyerabend, che sottolinea l’importanza del flusso storico nella definizione concettuale, per analogia dire la stessa cosa per la scienza, ma non di più. Qui ci interessa, però, soprattutto mettere a fuoco l’area di intersezione fra di essi, lasciando sfumare i contorni delle due grandi aree semantiche. Tenendo conto, inoltre, della non simmetricità dei rapporti reciproci, del colorito diverso che assumono “arte” o “scienza”, a seconda del verso dell’altalenare semantico che va da una all’altra o viceversa, si può concordare, ad esempio, che, sul versante che dalla scienza va verso l’arte, questo porta gli scienziati e i loro prodotti ad assumere in qualche modo la variegatura presumibilmente tipica di una produzione artistica.

Non si può, comunque, non tornare in parte sul problema di cosa si intende per scienza o di quelli che sono i criteri mediante i quali decidiamo di sistemare in un insieme o in un altro i prodotti della nostra conoscenza a seconda di come l’osservatore conoscente li individua durante il processo stesso della conoscenza, alla luce delle trasformazioni da essi subiti soprattutto durante il corso del Novecento, in particolar modo secondo il modo di pensare derivante dalla teoria dei sistemi autopoietici di Maturana e Varela (ad esempio 1999 e 2001) e approdante a una vera e propria rivoluzione epistemologica rispetto ad esempio alla visione della scienza di stampo neopositivista o anche, più recente, cognitivista. Potrebbe essere interessante argomentare su che tipo di relazione sussiste fra la scienza vista come arte, in una prospettiva filosofica in cui non si può tacere il ruolo dell’osservatore nella dinamica della conoscenza, che perde la sua assoluta oggettività, e prospettiva in cui costui, al di là di qualsiasi scissione fra ragione ed emozione, non è più in grado di dimenticare la profonda componente non razionale di se stesso che lo accompagna e rende, anzi, possibile il conoscere, proprio perché, con Feyerabend, «la conoscenza non è proprio lì a disposizione, è fatta dalla gente, è come un’opera d’arte… […] la conoscenza è […] un fenomeno sociale» (Feyerabend 1991, 31-32).

D’altro canto, la nostra scelta a favore di una teoria o di un’altra o semplicemente di un comportamento dipende non dal riferimento a una realtà in sé, che con il suo valore di Verità ci possa guidare in maniera assoluta, ossia sciolta da qualsiasi nostra assunzione di responsabilità, ma da una nostra scelta appunto. Per quanto detto sinora, possiamo pensare che tale scelta avvenga per una seduzione estetica, come ama dire Maturana, non nel senso di un ideale di bellezza canonico e dunque ancora una volta platonicamente posto al di fuori di noi, in un cristallino mostrarsi, bensì perché essa si basa sull’idea che noi amiamo la bellezza e che questo amore ci faccia sentir bene. In questo senso l’estetica è armonia e piacere e, infatti, la seduzione estetica si può dispiegare soltanto quando non c’è discrepanza fra ciò che è detto e ciò che è fatto, non c’è pretesa e non c’è pressione; è li, dunque, che sorge la seduzione della conoscenza (Maturana e Poerksen 2004, 50-52).

Autopoiesi - Άυτοποιέσις

Bibliografia

Bärtschi Werner, 1989 – Ragione e intuizione nella musica. In Feyerabend Paul K.; Thomas Christian, 1989 - Arte e scienza. Armando Editore, Roma, pp. 35-42.
Feyerabend Paul K., 1989 – Introduzione. In Feyerabend Paul K.; Thomas Christian, 1989 - Arte e scienza. Armando Editore, Roma, pp. 7-10.
Maturana Humberto R., Poerksen Bernard, 2004 – From Being to Doing. Carl-Auer Verlag, Heidelberg, Germany.
Maturana Humberto R., Varela Francisco J., 1999 – L’albero della conoscenza. Garzanti Editore, Cernusco s/N (MI).
Maturana Humberto R., Varela Francisco J., 2001 - Autopoiesi e cognizione. La realizzazione del vivente. Marsilio Editore, Venezia.
Natoli Salvatore, 2005 – Introduzione. In Platone, 2005 – Teeteto o sulla Scienza. Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, pp. 7-28.
Platone, 2005 – Teeteto o sulla Scienza. Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano.
Snow Charles P., 2005 - Le due culture. Marsilio Editore, Venezia.
Spanio Davide, 2005 – La filosofia come ricerca dell’epistéme. Il paradigma del Teeteto paltonico. In Platone, 2005 – Teeteto o sulla Scienza. Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, pp. 257-293.
Thomas Christian, 1989 – Acquitrini e paludi. In Feyerabend Paul K.; Thomas Christian, 1989 - Arte e scienza. Armando Editore, Roma, pp. 11-16.

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