Il 6 aprile del 1953 era il lunedì dell’Angelo e attraversavo Mentana, il paese che sarebbe poi diventato l’amata-odiata mia seconda patria. Ero diretto a Sant’Angelo Romano con Elena (che guardavo con occhi interessati), il fratello Aldo e gli altri familiari: andavamo a incontrare, invitati a una canonica scampagnata, un’anziana donna, paziente di Aldo: questo, giovane chirurgo, l’aveva salvata dall’amputazione di un arto inferiore grazie alla sua abilità professionale.

Nel corso dell’anno precedente Peppina era stata ricoverata nel reparto femminile dell’Istituto di Patologia chirurgica del Policlinico Umberto I, diretto dal prof. Pietro Valdoni, del quale Aldo era ancora solo assistente: era disperata perché era stata informata che il processo infiammatorio costringeva ormai a praticare l’amputazione forse totale dell’arto inferiore per salvarle la vita. Ella però si era rifiutata e aveva dichiarato che avrebbe preferito la morte: era contadina e quell’intervento le avrebbe precluso per sempre l’attività campestre.

In quegli anni Cinquanta la medicina italiana entrava appena nell’era antibiotica ma trovare i flaconi di penicillina era un’impresa. Il giovane assistente - Aldo De Maria Marthiano [1], che nel tempo sarebbe diventato celebre scienziato - ne aveva avuto compassione; le aveva consigliato il ritorno a casa per poterla curare con una metodica medica, proprio in quei mesi da lui ideata e mai prima sperimentata. “Poiché l’arto andava in necrosi per un processo settico” – argomentava – “con iniezioni intra-arteriose femorali di una massiccia dose di quel nuovo ritrovato vi doveva essere una ragionevole possibilità di successo”. L’ipotesi teorica messa in atto a domicilio, con cinque iniezioni solamente nel breve volgere di un mese era risultata vincente. Peppina era tornata in campagna e, solo molti anni dopo, la sua gamba morì insieme con lei.

Quella pasquetta era stata una crapula: avevo visto per la prima volta come il “ventre” di diecine di convitati si fosse potuto dilatare sino a contenere una massa inverosimile di cibo. Il convivio era iniziato intorno alle ore 13: antipasto da pranzo intero (salumi, formaggi freschi, sottaceti, frittelle varie); a tanta abbondanza era seguita la stracciatella e ovviamente il lesso di pollo. Pensai: abbiamo finito! Errore: ancora il pranzo doveva cominciare. Vennero i cannelloni (e alcuni commensali fecero il bis) e le fettuccine con le “rigaglie” di pollo; fu servito poi il secondo piatto; in questo campo i singoli gusti erano stati accontentati: coniglio alla cacciatora, abbacchio con patate al forno e arrosti vari (i ‘soliti del bis’ non esitarono a cantare, come Scarpia, io vo’ gustar quanto più posso dell’opra divina). Puntuale, ormai al mio costante passa piatto, veniva il ma come, dottò, nun magni? È bbono, sa!, della padrona di casa: del resto ancora dovevano arrivare il piatto con i formaggi della campagna romana, la cesta della frutta, le torte fatte in casa mentre le brocche del vino continuavano a filar via.

Liberi alle cinque del pomeriggio, eravamo passati per Mentana dove Aldo aveva aperto uno studio medico. Qui egli eseguiva, con mezzo secolo di anticipo, una medicina eroica e di ricerca: dalle trasfusioni di sangue con la metodica perfezionata in Gran Bretagna, agli interventi chirurgici con il metodo oggi detto in ‘day hospital’, alla cura medica dell’ulcera gastro-duodenale. Quest’ultima metodica, bloccata sul nascere dai potenti del tempo, fruttò successivamente a due medici australiani il Premio Nobel per la Medicina 2005 [2]. È verità inoppugnabile infatti che debba occorrere molto tempo perché una cognizione, acquisita dalla scienza medica come certa, possa essere prima messa in discussione e poi assimilata nella nuova verità. Ed è ancora più difficile, se la cognizione viene a cozzare con conoscenze correntemente ritenute “certe”. Ciò accade normalmente nel campo scientifico medico, ove spesso le certezze conducono a metodiche terapeutiche eseguite, dopo essere state testate, per tanti decenni. Questo è stato proprio il caso da me vissuto mezzo secolo addietro e tornatomi alla mente in occasione della consegna, al prof. Ruggero De Maria, del Premio Venosta 2008 nel palazzo del Quirinale, da parte del Presidente della Repubblica del tempo.

Alla fine dell’anno 1953 misi piede stabilmente a Mentana condottovi da Aldo. Al tempo l’ulcera gastroduodenale era malattia frequentissima ed era curata con la resezione gastrica o duodenale: un intervento altamente mutilante e non privo di complicanze anche gravi e cronicizzanti. Quel mattino il prof. De Maria – divenuto poi mio cognato - mi conduceva a Mentana con la sua Lancia Ardea ed eravamo, sulla via Nomentana, all’altezza del castello di Casal de’ Pazzi, davanti alla sede dell’allora Settimana INCOM, oggi Dear. Guidando, mi forniva notizie intorno a una sua teoria circa l’ulcera gastroduodenale, una malattia della quale nei trattati di Patologia Chirurgica così si scriveva: “ …* è difficile spiegare perché a un dato momento un’ulcera si formi in quel tratto dell’apparato digerente e soprattutto perché la soluzione di continuo così formatasi non passi a guarigione […]. Nessun dubbio sussiste che l’agente che produce la cronicità dell’ulcera sia il potere peptico del succo gastrico*”.

Egli invece mi asseriva che secondo lui, in presenza del processo gastritico, quindi flogistico, non poteva non esservi come causa determinante un germe patogeno ancora da scoprire. Quindi, essendo ormai in commercio da pochissimi anni la penicillina, arguiva che se germe patogeno vi fosse alla base della malattia, a contatto con l’antibiotico (termine allora appena entrato nella terminologia medica) avrebbe dovuto soccombere, portando la malattia a guarigione. Mi disse con noncuranza che mi stava conducendo con lui perché avrei dovuto eseguire al suo posto il trattamento, dovendo egli correre d’urgenza presso un altro malato. Dire che per me fu il panico è poco: ma lui, con molta calma, mi andava illustrando il metodo mentre sfrecciava – con quanta velocità si muoveva con l’auto e quanta fifa avevo io! – alla volta di Mentana. “Un metodo elementare”, mi diceva; “prendi il sondino graduato, lo fai entrare in una narice e quando il paziente accenna al vomito, gli dici: inghiotti, inghiotti; penetrato il sondino per circa 25 centimetri, sei nello stomaco. Applichi allora all’estremità un grossa siringa e aspiri il succo gastrico tante volte sino a quando cessa di venir fuori. Subito dopo inietti nello stomaco attraverso lo stesso sondino due milioni di unità di penicillina diluita in venti centimetri cubici di soluzione fisiologica che hai già preparato in un’altra siringa sterile. Tiri infine delicatamente il sondino ed è fatto”.

Arrivammo allo studio, mi lasciò solo con il paziente: fu tutto estremamente facile. Quella tecnica la praticammo per circa due anni, con risultati eccellenti, ma venne all’orecchio del prof. Valdoni, il quale lo chiamò per dirgli che i suoi alunni o stavano in Istituto o andavano fuori. Fu così che mi trovai titolare di quello studio di Mentana, non avendone però il suo prestigio. I riscontri radiografici praticati dopo ogni ciclo terapeutico gli davano ragione, ma non erano ottenuti in un Istituto qualificato e quindi non avevano alcun valore probante; e poi, soprattutto, la scienza medica mondiale tutta aveva la stessa certezza di Uffreduzzi e di Valdoni circa l’eziologia e la patogenesi del morbo.

Rimase in Istituto, Aldo, e dovette seguire i dettami del Maestro, il quale volle esserne sicuro; gli diede il rarissimo onore di scrivere una monografia con i due nomi affiancati: Pietro Valdoni, Aldo De Maria, Patologia del resecato gastrico, in “Archivio di Medicina mutualistica [3]”; andò in Cattedra e morì giovane: non fece in tempo a riprendere il filo di quel discorso.

L’episodio riporta ancora alla mia mente, per analogia, le disavventure di Galileo Galilei, filosofo e matematico, il quale dovette obbedire al Santo Uffizio che aveva pronunziato la censura contro il sistema copernicano e aveva ingiunto a Galileo “di astenersi dall’insegnare e difendere o comunque trattare la dottrina copernicana, pena il carcere”. Pure Galileo Galilei, ricevuta la comunicazione il 27 febbraio 1616, per salvare la pelle, accettò e promise obbedienza.

La scienza medica tuttavia si muove sempre e nel 1982 giunse alla certezza che quella lontana intuizione del De Maria era ben fondata. Oggi sappiamo che nel 2005 è stato assegnato il Premio Nobel per la Medicina - premio andato agli australiani Barry Marshall e Robin Warren - per le ricerche sull'Helicobacter pylori: si chiama così il manigoldo che tante mutilazioni aveva provocato per decenni. Lo ha reso noto la Nobel Assembly del Karolinska Institute di Stoccolma. La scoperta dei due ricercatori australiani, avvenuta nel 1982, trasformò l'ulcera peptica già di esclusiva pertinenza chirurgica in infermità cronica, curabile con un breve regime di antibiotici e altri farmaci associati.

Il 7 ottobre 2008 il prof. Ruggero, era al Quirinale per ricevere, come detto, il Premio Venosta 2008, “per le sue innovative ricerche sulle cellule staminali tumorali, ritenute responsabili dei processi di metastatizzazione e della resistenza ai farmaci. Scoperte che hanno aperto la strada all’ideazione di nuovi farmaci antitumorali”. Presente alla cerimonia era pure il prof. Robin Warren: fu l’occasione per Ruggero di raccontare all’amico Robin quell’esperienza del padre non andata a buon fine. Questi lo consolò dicendogli delle traversie che aveva dovuto cavalcare per oltre un ventennio, sino all’universale constatazione che quell’intuizione sulla responsabilità dell'Helicobacter pylori nella eziologia e nella patogenesi dell’ulcera gastroduodenale era inoppugnabile e che la cura antibiotica era ormai sufficiente a evitare le mutilazioni di intere generazioni. Ancora una volta è stato confermato l’assunto che ogni cosa possa accadere solo a tempo e a luogo: i precursori sono sempre mal tollerati e solo di rado riescono a essere compresi.

Note:
[1] Cfr. Dizionario biografico degli italiani, Treccani, ad vocem.
[2] S. Vicario, Aldo De Maria Marthiano, considerazioni postume su una conquista della scienza medica, “Quaderno Mamertino 2009”, S. Agata Militello 2009, pp. 69-71.
[3] Vol. XXIV, Roma, dicembre 1961, pp. 303 con schemi e figure.