“Chi sapesse le virtù delle piante, farebbe miracoli”: è quanto scrive Pietro Andrea Mattioli nei suoi Discorsi al Dioscoride, l’opera che l’ha consacrato come il botanico più famoso del XVI secolo.

Nato a Siena nel 1501 da una famiglia di condizioni economiche non agiate, ebbe comunque la possibilità, fin da piccolo, di far parte dell’élite culturale cittadina del tempo: padrino del Mattioli fu infatti Alessandro d’Agnolo Piccolomini, che era stato maestro a casa di papa Pio II. Dopo aver frequentato la facoltà di Medicina a Padova, laureandosi giovanissimo nel 1523, si spostò in varie città italiane (Siena, Perugia e Roma) esercitando la professione medica e perfezionando la sua esperienza nel campo. Non era sicuramente un momento storico tranquillo nelle zone dell’Italia Centrale tant’è che, dopo il sacco di Roma avvenuto da parte dei Lanzichenecchi nel 1527, il Mattioli, che in quell’anno si trovava appunto a lavorare nell’ospedale romano di San Giacomo, decise di trasferirsi nel più sicuro territorio del Principato vescovile di Trento. Qui acquisì, ben presto, una grande reputazione nell’esercizio dell’arte medica, così che il principe vescovo Bernardo Cles lo chiamò presto alla sua corte, situata presso il castello del Buon Consiglio, come medico ufficiale. Oltre a quest’incarico, il Mattioli ricevette anche quello di curare lo splendido giardino che ornava la residenza signorile: probabilmente fu durante questi anni che egli approfondì i suoi interessi e le sue conoscenze nel campo della botanica medica. Inoltre, come consigliere personale dell’autorevole Cles, ebbe anche la possibilità di partecipare attivamente al vivo dibattito culturale che animava la sua corte, conoscendo Erasmo da Rotterdam e altri insigni umanisti che la frequentavano.

Alla morte del suo protettore, avvenuta nel 1539, il Mattioli si trasferì a Gorizia dove, facendo tesoro delle conoscenze botaniche apprese durante il fecondo periodo trascorso a Trento, terminò la stesura dell’opera che aveva già iniziato nel 1533: i Di Pedacio Dioscoride Anazarbeo libri cinque Della historia et materia medicinale tradotti in lingua volgare italiana…, meglio conosciuta come i Discorsi al Dioscoride, la cui prima edizione fu pubblicata a Venezia nel 1544. In quest’opera, il Mattioli riprende uno dei trattati più importanti della storia della botanica medica, il De materia medica di Pedanio Dioscoride, i cui primi manoscritti risalgono al V sec. e che esercitò un’enorme influenza in tutta Europa sia nel Medioevo, grazie anche alle numerose traduzioni in lingua araba che ne furono fatte, sia nel Rinascimento. L’Umanesimo italiano, più che riscoprire l’opera del Dioscoride, senz’altro già molto nota, ebbe poi l’indiscusso merito di sottoporla a una nuova lettura critica.

E questo fu, di fatto, quello che fece anche il Mattioli, non limitandosi certo a una semplice traduzione dell’opera dioscoridea. In primis, egli portò il numero delle piante descritte da 600 a 1200, integrando la descrizione di ognuna di esse con molte altre informazioni: l’indicazione dell’habitat di ciascuna specie, le sue particolarità, le virtù terapeutiche e i consigli pratici per un uso corretto. Vennero inoltre introdotte dal Mattioli centinaia di nuove piante, una buona parte delle quali sconosciute fino ad allora, in quanto importate dall’Oriente e dalle Americhe, e altre studiate direttamente da lui nelle sue ricerche condotte nella Val di Non e nel monte Baldo. Non mancano neppure notizie legate alla tradizione popolare e particolari gustosi, che rendono la lettura dell’opera del Mattioli sempre piacevole, grazie anche al suo stile agile e discorsivo, in cui sono ben evidenti le radici toscane dell’autore. A scopo esemplificativo, basti leggere quanto scrive della vite e del cavolo:

“Né minor inimicizia è tra ‘l cavolo et le viti, essendosi da molti osservato che le viti, a cui fu già piantato il cavolo vicino al piede, si sono per loro stesse discostate da esse per buono spatio di terreno. Et però non è meraviglia se tanto si lodi il cavolo per l’ebbriachezza, et che così cotidianamente l’usino i Tedeschi ne cibi per rompere la forza del vino”.

I Discorsi al Dioscoride ebbero almeno tredici edizioni durante la vita dell’autore e numerose traduzioni in francese, boemo e tedesco, oltre a quelle in latino, note con il nome di Commentarii e da considerarsi come opera a sé. Ad aumentare il valore dell’opera furono anche le illustrazioni, che divennero sempre più pregiate con il succedersi delle varie edizioni. Quasi tutte le piante descritte sono infatti corredate dalle rispettive figure, eseguite con la tecnica xilografica, molto usata nel corso di tutto il Cinquecento, e ancora nel Seicento, perché molto più economica di quella litografica. L’importanza che il Mattioli dava alle illustrazioni lo spinse a cercare di migliorarle sempre di più, avvalendosi così della collaborazione di due famosi artisti del tempo: il pittore udinese Giorgio Liberale, che era al servizio dell’arciduca Ferdinando a Gorizia, a Innsbruck e a Praga, e l’incisore Volfango Meyerpeck. Questo miglioramento è testimoniato anche dalle varie edizioni dell’opera che sono attualmente conservate presso la Bibliotheca Antiqua di Aboca Museum: si passa dalle illustrazioni, molto curate ma ancora un po’ approssimative, dell’edizione del 1552 a quelle, molto più precise, dell’edizione del 1597.

La notorietà del Mattioli e della sua opera principale aveva ormai varcato i confini della penisola: nel 1554 Ferdinando I d’Asburgo, al quale era stata dedicata la prima edizione dei Commentarii, lo chiamò alla corte di Praga come medico personale del suo secondogenito, l’arciduca del Tirolo Ferdinando, governatore della Boemia. Grazie anche al mecenatismo degli Asburgo, il Mattioli ebbe la possibilità di arricchire la sua opera con illustrazioni di fattura sempre migliore: basti pensare all’edizione stampata a Praga nel 1563, per la quale, come dice egli stesso, chiese e ottenne i privilegi “dalla maggior parte de’ principi cristiani”.

Nel 1571, ormai anziano e provato dalle fatiche della professione, il Mattioli decise di ritirasi a vita privata, lasciando Praga e stabilendosi dapprima a Verona, quindi a Trento e infine a Innsbruck, morendo di peste a Trento nel 1578. Nonostante l’indole permalosa, polemica e “avida di lodi” (elemento su cui concordano tutti i biografi che si sono occupati di lui), il Mattioli, grazie alle sue indubbie capacità di scienziato e di medico, fu sempre benvoluto sia dai potenti che dalle popolazioni in mezzo alle quali si trovò a vivere e a operare nel corso della sua vita. Per celebrare la grande fama di cui aveva goduto nel 1617 i suoi due figli fecero erigere, a destra del portale maggiore del duomo di Trento, il monumento funebre a sua memoria, opera attribuita all’architetto e scultore Mattia Carneri.

E la fama del Mattioli non diminuì neppure nei secoli successivi, come provano le numerosissime edizioni della sua opera, stampate con importanti tirature fin verso la fine del XVII secolo in italiano, in latino, in francese, in tedesco, nelle lingue slave e persino in arabo. Un’opera che ha davvero lasciato il segno nel corso dei secoli, tant’è che il botanico Giuseppe Loss ancora nel 1870 ci testimonia che gli erboristi “hanno tutti il Mattioli, non conoscono altro nume”.