Gli animali che popolano il nostro pianeta mostrano una varietà impressionante di forme, dimensioni e colori. Alcuni, come gli squali o le tartarughe marine, sono rimasti invariati per milioni di anni, tant’è che, in molti casi, vengono considerati fossili viventi. L’evoluzione non li ha cambiati più di tanto, ed essi sono riusciti ad adattarsi ai cambiamenti climatici che hanno interessato il pianeta durante le più svariate ere geologiche senza risentirne o addirittura fortificandosi. Altri, al contrario, hanno subito modificazioni morfologiche e comportamentali tali da cambiarli completamente e da farli vivere in ambienti totalmente diversi da quelli originari. Ne sono un esempio lampante i cetacei.

Evolutisi da progenitori terrestri dotati di due paia di zampe, pelo, coda e denti simili a quelli degli odierni orsi o lupi, i cetacei hanno via via sviluppato strutture adatte a un ambiente acquatico mano a mano che il loro habitat terrestre è stato sostituito da quello marino. A partire dall’Eocene (l’epoca geologica che va all’incirca dai 55 ai 33 milioni di anni fa), sono stati ritrovati numerosi reperti fossili lungo le rive dell’antica Tetide, il mare Mediterraneo ancestrale, e reperti rinvenuti in Pakistan mostrano come da primitive balene dotate di arti si siano successivamente originati tutti i cetacei attuali. Nel 2001, analisi del DNA hanno dimostrato come un animale anfibio chiamato Pakicetus, vissuto all’incirca 35 milioni di anni fa, fosse uno dei principali antenati di delfini e balene. Dalle dimensioni che spaziavano dal coyote al lupo, questa specie aveva denti adatti a un’alimentazione piscivora, orbite situate sulla sommità del capo come gli odierni ippopotami, coda lunga e zampe dotate di zoccoli, pelo al posto di pelle nuda. Ciò che ha indotto gli scienziati a credere trattarsi effettivamente dell’antenato dei cetacei è la struttura dell’orecchio, modificatosi per la vita sott’acqua, che ricorda quella del teschio delle balene.

Successivamente ai Pakicetidae, sopraggiunsero gli Ambulocetidae, forme più tardive dalle dimensioni di un’otaria e arti posteriori muniti di piedi piuttosto grandi, tanto da far pensare che essi utilizzassero molto queste zampe per la locomozione e per un nuoto simile a quello delle foche attuali. Tuttavia, sebbene i loro scheletri risultassero più modificati per la vita acquatica rispetto a quelli dei Pakicetidae, le loro dita non erano palmate e possedevano ancora zoccoli. Tutto ciò fa ritenere che appartenessero al grande gruppo degli Artiodattili, divenuto in seguito quello dei Cetartiodattili. I loro resti sono stati rinvenuti in depositi costieri sebbene le analisi degli isotopi dentali rivelino che essi bevessero acqua dolce e che quindi prediligessero quest’ultimo tipo di ambiente.

L’evoluzione continuò a interessare questi organismi fino a raggiungere quelli che attualmente vengono ritenuti gli esemplari più simili agli odierni cetacei sia da un punto di vista morfologico che comportamentale: i Protocetidae. Possedevano ancora arti posteriori sebbene molto più piccoli rispetto a quelli dei loro antenati, e la maggior parte di essi manteneva una connessione tra l’arto posteriore e la zona sacrale. Il Maiacetus innus, fossile conservato con un embrione a uno stadio tardivo all’interno del corpo, raggiungeva la terraferma per partorire, e l’embrione ritrovato era posizionato in modo tale che il capo uscisse per primo durante il parto, proprio come avviene per i mammiferi terrestri odierni, anziché in posizione podalica come i cetacei di oggi. Tutti i protocetidi utilizzavano gli arti simili a pinne per pagaiare e presentavano molto probabilmente uno stile di vita simile a quello delle foche, completamente acquatico ma connesso al mondo esterno per il parto, il riposo e gli accoppiamenti.

Nell’Eocene più tardivo, infine, comparvero i Basilosauridae, che persero la connessione tra arto posteriore e zona sacrale, ridussero agli estremi gli arti posteriori, svilupparono un collo corto e arti anteriori trasformati in pinne. L’evoluzione definitiva dei cetacei si ebbe approssimativamente con l’estinzione degli Archeoceti, cetacei fossili dell’Eocene, in relazione con i cambiamenti nella circolazione oceanica e nella produttività degli oceani, con il conseguente sviluppo di nuove strategie alimentari, predatorie e di ecolocalizzazione (quel processo che permette ai cetacei di oggi di lanciare un segnale sonoro il quale, in presenza di un oggetto, nel caso specifico di una preda, rimanda un’eco di ritorno che permette all’animale di capire la distanza che lo separa dall’oggetto in questione, la forma e le dimensioni). Dapprima sembra si originassero i Misticeti (odierne balene e megattere) e successivamente gli odontoceti (delfini, globicefali, zifi, capodogli…). Il Durodon, vissuto all’incirca 38 milioni di anni fa, rappresenta la più antica balena, mentre lo Squalodon, tra i 33 e i 14 milioni di anni fa, il più antico delfino.

I cetacei che noi oggi conosciamo hanno dovuto dunque subire drastici cambiamenti nel corso di milioni di anni per potersi adattare sempre meglio a una vita totalmente marina. Tra le modificazioni anatomiche rientrano senza alcun dubbio: la scomparsi degli arti posteriori (benché mantengano ossa vestigiali posizionate dove un tempo vi erano le zampe), trasformazioni degli arti anteriori in pinne adatte al nuoto, scomparsa del collo e dell’orecchio esterno, naso trasformato in uno sfiatatoio posizionato in alto sul capo, per permettere all’animale di respirare senza dover emergere completamente dall’acqua, trasformazione della coda in una pinna caudale, scomparsa del pelo. Essendo mammiferi, partoriscono allattando i piccoli fino a un’età che dipende dalla specie, e respirano aria attraverso i polmoni. Il volume polmonare è piuttosto basso, tale da evitare la formazione di emboli durante le immersioni e le apnee, situazione tipica di animali che si immergono anche per diverso tempo come pure le tartarughe marine.

Durante le apnee i polmoni si riducono di volume svuotandosi completamente mentre gli alveoli polmonari, altamente vascolarizzati, sono in grado di assorbire la maggior quantità di ossigeno. Inoltre, collassando, i polmoni evitano la comparsa di bolle di azoto durante la risalita che potrebbero causare seri danni all’organismo (come avviene per i subacquei con la narcosi di azoto). Tra i cetacei odierni il record di immersione spetta al capodoglio (Physeter macrocephalus), per un totale di due ore e mezza circa di apnea e una profondità raggiunta di 3000 metri, mentre il tursiope (Tursiops truncatus) non supera generalmente i 10 minuti di apnea.

Dunque i cetacei sono un chiaro esempio dell’evoluzione che ha coinvolto gli organismi terrestri, dell’adattamento che solo le specie viventi sono in grado di subire attraverso modificazioni sorprendenti, a volte totali, un’evidenza di quello che, ancora una volta, la nostra Madre Terra è in grado di fare, stupendoci, meravigliandoci e lasciandoci letteralmente senza parole.