Ne ha fatta di strada il telefonino da quando il 3 aprile del 1973 il suo inventore Martin Cooper effettuò la prima comunicazione cellulare! E ne ha cambiate di forme, modificando nel tempo le sue dimensioni, da quella originaria, pesante e gigantesca, assai simile a quella di un minaccioso radiotelefono militare, come lo abbiamo tante volte visto nei film di guerra, a quella odierna di sottilissima fiche che può stare nel taschino di una giacca maschile o in un portamonete femminile! Per non dire del costo che dagli originari quattromila dollari è sceso a cifre accessibili e abbordabili con piccole rate indolori, che durano giusto il tempo necessario a innamorarsi di un nuovo e più spettacolare modello, rendendo perpetua, vita natural durante, la rata per il telefonino.

Da strumento di comunicazione elitario e appannaggio dii una classe facoltosa è diventato, così, oggetto di uso quotidiano e continuo, sempre necessario e irrinunciabile. Oggi è quasi una protesi della nostra voce e delle nostre orecchie. Quando capita di uscire di casa al mattino sprovvisti di questa protesi, nel momento che ci accorgiamo di averla distrattamente e disgraziatamente lasciata a casa, avvertiamo un senso di disagio e di agitazione; ci sentiamo privi di qualcosa di essenziale alla nostra sopravvivenza e al nostro vivere sociale e civile, come se fossimo usciti nudi, come se avessimo dimenticato di portare gli occhiali, o, per i più anziani, di mettere la dentiera. E pur se non ne abbiamo immediata necessità, siamo presi dal panico e diventiamo catastrofici e pessimisti, immaginando che, in caso di emergenza, non abbiamo come comunicare una nostra eventuale difficoltà. Senza di lui ci sentiamo soli al mondo.

Con il cellulare, probabilmente senza rendercene pienamente conto, abbiamo mutato la nostra gestualità, il modo di muoverci, di camminare, di relazionarci agli altri, di vivere e stare in un contesto umano e sociale. Ci viene di pensare che l’essere umano ci ha messo migliaia di anni a diventare homo erectus, e che nel volgere di pochissimi anni, prima di diventare *homo sedens a furia di stare al computer, potrà essersi trasformato in homo flectus, quando il collo sarà definitivamente piegato come quello dei polli per l’abitudine di tenere sempre il volto rivolto allo schermo del cellulare adagiato nel palmo della mano.

Avranno molto da studiare gli antropologi del futuro osservando le posture che abbiamo assunto. Oggi si cammina con l’avambraccio per lo più destro piegato in avanti con il palmo della mano aperto; sembrerebbe il gesto di chiede l’elemosina se non ci avessimo messo il nostro cellulare collegato alle orecchie con i suoi fili. Lo teniamo, insomma, come se volessimo offrirlo in dono alla prima persona che incontriamo. È una postura un po’ innaturale che, però, sa di antichissimo e ricorda quello delle statue femminili greche del VI – V secolo avanti Cristo, le famose korai dell’Acropoli di Atene: giovani e avvenenti fanciulle, che avevano il braccio destro lungo il corpo e il sinistro teso in avanti a porgere un regalo.

Non ci vergogniamo, o forse non ci accorgiamo più, di apparire come visionari rimbambiti che parlano da soli, sempre impegnati a discutere con il nostro invisibile interlocutore al quale rivolgiamo senza pudore parole d’amore, disposizioni di lavoro, contumelie. E parlando parlando da soli, con gli occhi fissi al piccolo schermo, non sempre scansiamo chi per strada ci si para davanti e rischiamo costantemente di inciampare o di essere investiti attraversando spericolatamente la strada. Viviamo, insomma, in continua simbiosi con questa moderna protesi che, nata per favorire le comunicazioni, ci incapsula in una desolata solitudine annullando i rapporti umani; in famiglia non si parla più, al bar non si chiacchiera più, i fidanzati non si guardano più negli occhi; ma si chatta. E in viaggio, in gita, in visita a un museo, in escursione nella natura non si guarda più, ma si fotografa, rimandando il piacere di vedere e ammirare a un freddo surrogato elettronico, dopo che avremo scaricato le immagini sul computer di casa. E più questo figlio del progresso tecnologico progredisce, più diventa diabolico strumento di assuefazione, di isteria e di dannazione, perché perde continuamente il campo, perché sta sempre a singhiozzare per avvertirci che ha ricevuto un messaggio o un whatsapp, perché si scarica improvvisamente.

Quando nel 1949 George Orwell scrisse il suo tragico romanzo 1984 non avrebbe mai immaginato che, arrivato nel terzo millennio, veramente l’uomo sarebbe stato controllato, ascoltato spiato e condizionato dai telefonini, dalle cellule sparse dappertutto e dai mastodontici tabulati dove c’è tutto di noi. Ma di questo controllo poco ci curiamo e continuiamo a portarcelo sempre con noi: forse non siamo noi a possederlo, ma è lui a possedere noi. Gli antropologi del futuro, insomma, si domanderanno certamente come abbiamo fatto a consegnare tutto noi stessi a questo ordigno. Perfino chi fa satira sociale ci si è rassegnato e non ha evidenziato, come dovrebbe fare quotidianamente, quanto siamo diventati tutti ridicoli alla ricerca disperata delle tacche che ci abbandonano quando più ci servirebbero, a camminare per strada parlando da soli, a cercarlo disperatamente nella borsa e nelle tasche quando trilla inopportuno nel bel mezzo di uno spettacolo teatrale, di una conferenza o di un funerale e, soprattutto, a sorridere beati e beoti nei selfie.

Qualcuno scrisse “una risata vi distruggerà!” Questa corale risata liberatoria per la nostra goffa e grottesca assuefazione al telefonino, però, non è ancora arrivata. Speriamo che venga presto.