La comunicazione di uno stato di rischio è un processo interattivo complesso, che non si limita al solo informare per ricevere di ritorno un giudizio di assenso o meno, ma prevede uno scambio di emozioni, valori e opinioni, indispensabile per comprendere i reali bisogni dei pazienti, condividere la natura del rischio e concordare le azioni da intraprendere per la sua riduzione. Comunicare implica un territorio di confronto comune, allo scopo di contestualizzarlo e attribuirgli così un significato, che in parte esiste a priori ma è soprattutto arricchito durante la consultazione. Come affermava Bateson, ogni comunicazione ha bisogno di un contesto… senza contesto non c’è significato. Il concetto di rischio è pertanto definito socialmente e come tale appartiene alle costruzioni sociali.

Un problema di linguaggio

In ambito cardiovascolare la mole di informazioni è tale che frequentemente i medici non dispongono di dati “completi”. Anche quando disponibili, spesso non sono in grado di modularli in base alle caratteristiche del singolo paziente, in particolare alle sue capacità di comprensione. Manca una formazione specifica sulle strategie comunicative e il medico finisce per enfatizzare gli aspetti tecnici, peraltro poco comprensibili.

Il linguaggio del rischio è infatti difficilmente condivisibile tra medico e paziente, perché si basa su numeri mentre la maggioranza dei pazienti (e dei medici) presenta un livello di alfabetizzazione matematica e statistica molto basso. Non è certamente facile spiegare che il livello di rischio è applicabile alle popolazioni di soggetti con determinate caratteristiche ma non definisce quello del singolo individuo: un rischio coronarico del 10% vuol dire che, su 100 soggetti con quelle caratteristiche, 10 avranno un infarto, ma per il singolo vale il concetto del tutto o nulla, avrà l’infarto oppure no.

Anche un’informazione corretta e onesta può avere come risultato il disorientamento del paziente. Nel caso ad esempio dello studio 4S, il primo a dimostrare una riduzione di mortalità nel post infarto in soggetti trattati con statine, farmaci che riducono i livelli di colesterolo, una modalità comunicativa tecnicamente inoppugnabile sarebbe infatti la seguente: "Se 100 persone con le sue caratteristiche non venissero trattate, in 5 anni 92 vivrebbero mentre 8 morirebbero. Non sappiamo quali. Se gli stessi post-infartuati venissero trattati ne vivrebbero 95 e solo 5 morirebbero. Anche in questo caso non sappiamo se lei rientrerebbe tra i 5 sfortunati o tra i 95 fortunati". I pazienti sono spesso intimiditi e non osano dire che non hanno capito. I dati numerici possono così venire percepiti per eccesso o per difetto e causare eccessivo timore o falsa rassicurazione. I fraintendimenti in senso allarmistico hanno addirittura spinto a introdurre un nuovo parametro: NPIH, ossia number of people who will be inadvertently harmed (numero di persone che saranno involontariamente allarmate).

L’interpretazione dei dati numerici è altamente influenzata dal cosiddetto effetto cornice (framing), cioè dalle modalità di espressione. È ad esempio noto il maggiore effetto persuasivo del “framing” positivo, ad esempio in termini di probabilità di sopravvivenza, rispetto a quello negativo, come probabilità di morte. Dire che una determinata terapia ha il 95% di probabilità di successo o il 5% di probabilità di insuccesso esprime lo stesso concetto, ma viene recepita dal paziente in modo opposto. Famoso è lo studio di Yamagishi che dimostra come la focalizzazione sul numero assoluto di eventi faccia considerare maggiore un rischio di 1.286 su 10.000 rispetto a 24,14 su 100. La presentazione della riduzione dei rischi in termini relativi tende ad esaltare l’efficacia dell’intervento, quella in termini assoluti a minimizzarla. La scelta tra le due modalità può facilitare il fraintendimento dell’informazione.

Utile può essere il paragone tra il rischio cardiovascolare e quello di altre tipologie, più o meno comuni. Un rischio di infarto del 10% e dell’1% può essere descritto rispettivamente come pari a quello di essere l’unico colpito in una famiglia media o tra i passanti di una strada. Lo stesso rischio dell’1% è anche pari al rischio di morte in un anno per qualunque causa.

Il significato del rischio

La lunghezza della lista dei possibili interventi in ambito preventivo spinge frequentemente il medico a chiedersi dove si trova il limite tra il dovuto intervento opportunistico e la maldestra intrusività nella vita delle persone. Il progresso scientifico ha infatti determinato un notevole accrescimento del benessere, ma anche un aumento diffuso della percezione dei rischi e, in certi casi, la produzione di nuovi, sotto la spinta del processo di medicalizzazione della salute enfatizzata dai media. Il primo punto è quindi se e quando una situazione di rischio cardiovascolare è tale da dover essere effettivamente comunicata. A volte la riduzione del rischio presenta benefici validi a livello di popolazione, ma minimi nel singolo individuo. Questo ridimensiona la necessità di perseguire scopi predefiniti, a favore di obiettivi realistici e personalizzati.

In alcuni casi il paziente non è psicologicamente pronto, ad esempio per la presenza di gravi malattie o difficili situazioni di vita. Il compito del curante è sicuramente più semplice quando è il paziente a richiedere l’intervento, ad esempio in caso di valori aumentati di parametri biologici, spesso correlati a livelli di rischio cardiovascolare in realtà bassi. Altre volte il medico si trova invece a dover enfatizzare l’importanza di condizioni che altrimenti i pazienti tenderebbero a sottovalutare.

Il coinvolgimento del paziente, la generazione di una percezione realistica del livello di rischio, sono l’obiettivo fondamentale, gli indicatori di qualità dell’assistenza, le premesse irrinunciabili sia per la tutela dei pazienti nei confronti di reazioni di negazione o allarmismo, sia per migliorare l’adesione alle misure preventive. Infatti, mentre le persone malate richiedono in genere un intervento medico, nel caso di una condizione di rischio l’intervento è in genere non sollecitato. Deve pertanto essere condiviso, ancora più che in presenza di malattia, con il paziente, informato su benefici e possibili svantaggi. Come affermato da A. Santosuosso: "Non esiste alcun fine della medicina che non crolli miseramente di fronte all’ultimo dei pazienti che non lo faccia suo".

Inoltre, mentre della malattia il paziente percepisce direttamente le conseguenze, del rischio ha una percezione molto più parziale e soprattutto variabile: ciò che è accettabile per un paziente, può non esserlo per un altro. Il percorso va adeguato alla singola persona, nei suoi aspetti sistemici, razionali e non razionali. Infatti, mentre il medico tende a considerare il rischio in senso tecnico, come evento probabilistico associato a variabili multiple, a trasformare la persona in un asettico profilo di probabilità, per il paziente il rischio è, come afferma V. Andreoli, "Qualcosa di non accaduto ma che potrebbe succedere... un non-esistente che potrebbe esistere… medicina di ciò che non c’è, di ciò che si pensa possa essere… il mondo drammatico del possibile”… l’eventualità del verificarsi di eventi imprevedibili, in grado di risvegliare paure ataviche".

Esiste quindi una incommensurabilità tra logica scientifica e psicologia della persona comune, che conduce a comportamenti che, irrazionali sul piano scientifico, risultano peraltro comprensibili se inseriti in un particolare contesto. Il rischio è infatti percepito come tale in riferimento a un quadro mentale che, costruito sulla base di aspettative ed esperienze, coinvolge aspetti di carattere emotivo-affettivo. L’apparente irrazionalità delle scelte dipende da gerarchie soggettive, situazioni emotive contingenti, esperienze precedenti, pregiudizi e preconcetti, cultura e contesto sociale e familiare.

Si parla di probabilità soggettiva, che introduce la variabile interpretazione nell’ampio contesto della informazione ai pazienti. Ad esempio, il pregiudiziale ottimismo o pessimismo per cui le persone credono (o vogliono credere) di essere soggette a rischi in maniera maggiore o minore è un fattore limitante una corretta percezione del rischio. Le persone tendenzialmente fataliste sono più facilmente pessimiste nei confronti dei potenziali benefici di un trattamento mentre tendono a enfatizzarne i rischi. La maggior parte delle persone pensa inoltre che questi riguardino soprattutto gli altri e quindi tendono a sottostimarli. La percezione del rischio dipende anche dalle sue specifiche caratteristiche, ad esempio se è volontario o imposto, se riguarda la propria persona o i propri cari, se è evitabile o inevitabile. Nell’ambito cardiovascolare, rischi comuni, come quelli associati al fumo o al diabete mellito tendono ad essere sottostimati, forse perché il rapporto di causa-effetto con eventi patologici non è immediato, evidente, costante e soprattutto direttamente esperibile.

Il paziente è inoltre bombardato da una enorme mole di offerta informativa “esterna”, che tende spesso a sovrastare quella dei curanti ma che, pur essendo assai criticabile, è ugualmente pertinente dal suo punto di vista. Il paziente infatti non possiede gli strumenti per valutarla in modo adeguato. Manca una formazione del cittadino a un sapere scientifico “critico”, in grado di renderlo più consapevole nel compiere scelte autonome nei riguardi della propria salute. Il paziente ad esempio ha difficoltà a distinguere tra causa, necessaria e sufficiente, e probabilità, concetto aleatorio e non deterministico. Le persone ragionano in genere in termini di nessi causali lineari e rigidi, modulati dall’esperienza quotidiana, espedienti cognitivi euristici che permettono di giungere in maniera pragmatica alla soluzione del problema col maggior risparmio di tempo e di energie. Il rischio è per questo di solito percepito a un livello estremamente semplificato di codifica: una terapia, un trattamento, uno stile di vita sono considerati secondo una logica tutto o nulla, o pericolosi o sicuri. Tali meccanismi biologici cognitivi, in grado di rassicurare e dare risposte semplici a problemi complessi. sono probabilmente emersi nel corso del processo evolutivo come strumenti di difesa, a discapito dell’obiettività delle percezioni.

I medici sono anch’essi condizionati da pareri personali e culturali, anche se ovviamente esprimono le proprie valutazioni principalmente da una prospettiva scientifica, facendo riferimento ai dati di letteratura. La gestione del rischio comporta per questo frequentemente incomprensioni e fraintendimenti, della cui possibilità è necessario essere consapevoli.

Capacità intellettuali del paziente, informazioni di qualità adeguata, oneste ed equilibrate, non sono tanto dei presupposti finalizzati a una informazione intesa come “autorizzazione” alla decisione finale, quanto elementi che entrano in gioco durante tutto il tempo in cui medico e paziente giungono a costruire assieme il senso del processo comunicativo. Alla base della comunicazione del rischio è infatti il rapporto di fiducia tra medico e paziente, basato su una autorevolezza in grado di resistere alle multiple e conflittuali fonti di informazione dei pazienti.

Viene spesso affermato che un’informazione corretta e completa è poco compatibile con i tempi abituali della consultazione. In realtà l’informazione non va necessariamente data nel corso di un’unica consultazione, il rischio infatti non è un’urgenza e nemmeno un “corpo estraneo” rispetto alla relazione col paziente e quindi è possibile e preferibile comunicarlo nel corso dell’intero processo assistenziale.

Informare senza colpevolizzare

L’informazione può rendere consapevoli gli individui ma frequentemente non cambia i comportamenti. Un’eccessiva insistenza da parte del medico può addirittura portare, oltre che a una sovrainformazione neopaternalistica, alla cosiddetta reattanza psicologica, stato motivazionale che insorge quando un individuo percepisce che qualche sua libertà di comportamento viene ridotta o eliminata. Di fronte alla proibizione, l’individuo reagisce infatti cercando di preservare o ripristinare la libertà minacciata, indipendentemente dal fatto che il comportamento messo in atto sia per lui proficuo o, al contrario, come nel caso di uno stile di vita inadeguato, svantaggioso.

Secondo Platone: “Quando un uomo è ammalato o segue un regime di vita non salutare, bisogna, per prima cosa, consigliargli di cambiare vita; poi, se egli è disposto ad obbedire, gli si daranno altri consigli; se non è disposto, uno che sia veramente un uomo e un medico, cesserà, a mio giudizio, di consigliarlo, mentre chi facesse il contrario lo considererei un vile e un ignorante”.

In realtà, quando il paziente non è disposto a seguire le indicazioni del medico, si deve evitare lo svilupparsi di sensi di colpa, il cosiddetto biasimo della vittima, per cui la malattia colpisce chi non si impegna a conoscerla, chi non ricorre alla sterminata offerta di screening, check-up e diagnosi precoci, o chi se l’è andata a cercare con il proprio stile di vita rivolto al piacere. Non bisogna infatti dimenticare che ad esempio, come afferma L. Aimetti "colesterolo significa anche formaggio… uova, e quando dico uova sento il profumo della frittata di cipolle che si spande per la cucina”.

Comunicare significa entrare in relazione con il mondo del paziente, accettare anche il suo punto di vista, di cittadino con diritti costituzionalmente riconosciuti. Quando il paziente non accetta i consigli, il compito del medico è di riuscire a far includere nella valutazione del paziente elementi di razionalità scientifica, portandolo eventualmente a “dare un senso” al suo dissenso, e quindi ad assumersi responsabilità. Solo in questo caso il curante può interrompere il suo tentativo di rispettosa persuasione e accettare le possibili conseguenze di una scelta autonoma, sia quelle favorevoli, come il ridotto impatto emotivo o il raggiungimento di una maggiore capacità di scelta, sia quelle sfavorevoli, ad esempio la ridotta adesione all’invito a sottoporsi ad esami o a modificare uno stile di vita non salutare.

In collaborazione con Valentina Collecchia, studentessa in Scienze della Comunicazione.