A volte anche la medicina ufficiale impiega delle cure che sembrano uscite da un film dell’orrore o da un polveroso ricettario medievale. Si tratta di rimedi che prevedono l’impiego di batteri, insetti, pesci, serpenti, lumache, essudati e veleni di ogni genere. Non sembra vero ma spesso funzionano, specialmente in quei casi in cui i trattamenti consueti non sortiscono alcun effetto.

Ad esempio, nell’ambito delle lesioni (ferite, ulcere e piaghe) esistono delle forme croniche che stentano a cicatrizzare, a causa di stati infettivi insensibili ai trattamenti antibiotici convenzionali. Tra i responsabili di queste alterazioni vi sono agenti patogeni che in determinate condizioni dimostrano un’insolita resistenza e aggressività, soprattutto in soggetti a rischio come diabetici, immunodepressi o persone anziane fortemente debilitate e affette da lesioni da decubito.

Lo studio dei meccanismi alla base di queste patologie ha evidenziato il ruolo svolto dai batteri (in particolare Clostridium perfringens, Bacteroides fragilis, Staphylococcus aureus e Streptococcus pyogenes) produttori di tossine capaci di necrotizzare i tessuti, compromettendo le fibre connettivali e le componenti molli, come muscoli e derma. Gli interventi classici, quando sono efficaci, prevedono la somministrazione di antibiotici (in particolare clindamicina, penicillina e vancomicina), la rimozione chirurgia del tessuto danneggiato (il cosiddetto “sbrigliamento”) oppure l’ossigenoterapia iperbarica, una pratica che ostacola la proliferazione batterica fornendo livelli elevati di ossigeno ai tessuti. Nei casi gravi, per evitare forme acute di setticemia con possibili esiti letali, si ricorre a misure drastiche come l’amputazione di un arto o di un suo segmento.

Tra le cure alternative, decisamente fuori dagli schemi, vi è l’asticoterapia, chiamata più semplicemente terapia larvale. Tale metodo prevede l’applicazione sulla zona infetta di larve di mosca verde (Lucilia sericata) allevate in condizioni sterili, le quali, essendo delle voraci consumatrici di materiale necrotico, permettono, anche se in maniera poco elegante, di ripulire le lesioni da tutto il materiale organico potenzialmente settico. Inoltre, le loro secrezioni contengono sostanze antibiotiche che inibiscono la proliferazione dei microrganismi patogeni, ed enzimi (tra cui tripsina e collagenasi) ad azione proteolitica, in grado di degradare le proteine dei tessuti danneggiati, lasciando intatte quelle dei tessuti sani. La “terapia larvale” è una pratica antica, impiegata con un certo successo fino alla Prima guerra mondiale per curare e stimolare il processo di guarigione di ferite croniche e infezioni delle ossa (osteomielite). Con la scoperta e la diffusione degli antibiotici e lo sviluppo delle tecniche chirurgiche tale cura è quasi del tutto scomparsa.

Tuttavia, negli ultimi decenni, l’interesse verso questo rimedio poco ortodosso è cresciuto, tanto che in alcuni Paesi è diventata una terapia medica riconosciuta e praticata in centri specializzati; il protocollo terapeutico prevede per due volte la settimana, l’applicazione di 10-15/cm2 di larve vive (la cui età è compresa tra le 24 e le 48 ore) direttamente sul letto della ferita per una giornata intera. In Italia, la terapia larvale è menzionata in alcune linee guida sulle lesioni da pressione, solo come possibile opzione quando il trattamento con gli antibiotici e la chirurgia non sortiscono effetti risolutivi.

Ma le proprietà terapeutiche degli animali non si fermano qui. È risaputo, infatti, che la bava delle comuni lumache è ricca di sostanze (mucopolisaccaridi, allantoina, acido glicolico, collagene, elastina, vitamina C, ecc.) con effetti nutritivi e rigeneranti per la pelle. La secrezione di questo animale era già usata nell’antica Grecia come trattamento antirughe, mentre nelle nostre campagne era utilizzato come rimedio ad azione mucolitica (in caso di tosse e bronchite), cicatrizzante e per il trattamento di calli e verruche. Le ragnatele applicate sulle ferite agiscono come emostatico (arrestano la fuoriuscita di sangue) e cicatrizzante; mentre da un’antica ricetta a base di aglio, cipolla e bile di mucca, lasciati a macerare nel vino, si ricavava un’efficace lozione antibatterica. Tra i veleni, quello delle api presenta inaspettate proprietà antireumatiche, non a caso contiene melittina e apamina, sostanze i cui effetti sono paragonabili a quelli del cortisone. Invece, lo “scorpione azzurro” (Rophalurus junceus), un aracnide che vive nei Caraibi e in Sud America (Venezuela), sintetizza delle tossine impiegate nella preparazione di un farmaco a cui vengono attribuite proprietà antitumorali.

Sempre a proposito di principi attivi di origine animale, esiste un farmaco per il trattamento dell’ipertensione, ricavato dal veleno di un serpente che vive in Brasile (Bothrops jararaca); mentre alcuni tipi di neurotossine presenti in varie specie di rettili sono oggetto di sperimentazioni, con l’intento di trovare dei rimedi utili per il trattamento di patologie cerebrali come l’Alzheimer e il Parkinson. Anche le sanguisughe (Hirundo medicinalis), dopo secoli di oblio, sono tornate a essere apprezzate in ambito medico: l’irudoterapia moderna è pratica con successo soprattutto in Francia, Germania e Russia. Per i suoi effetti analgesici, anticoagulanti e antinfiammatori, trova applicazione in caso di ferite, ematomi, edemi post-traumatici, tendiniti e osteoartrite.

I millepiedi (Julius ssp.) e il comune porcellino di terra (Armadillidium vulgare) sono impiegati come diuretici; mentre gli scarafaggi (Blatta ssp.), polverizzati e miscelati con aglio, costituiscono ancora oggi un rimedio utilizzato nella medicina popolare cinese come febbrifugo, antinfiammatorio gastrointestinale e rigenerante cellulare (tali proprietà trovano conferma in recenti ricerche scientifiche). Del resto, anche la medicina omeopatica, nella preparazione dei suoi rimedi, attinge a piene mani dal mondo animale, offrendo granuli e tinture (in cui ingredienti sono fortemente diluiti) a base di cocciniglia (coccus cacti), inchiostro di seppia (sepia), latte di cane (lac caninum), crotalo (crotalus horridus), ghiandole salivari di cobra (naja tripudians), secrezioni gonorroiche (medorrhinum), ulcera di sifilide (luesinum), ecc.

Un altro rimedio, a dir poco originale, consiste nell’ingerire volontariamente delle uova di Tenia solium (verme solitario), un parassita intestinale (può raggiungere i 5 metri di lunghezza!) capace di sottrarre nutrimento all’organismo ospite (assimila il 5-10% dei cibi ingeriti), provocando una forte bulimia, associata a stanchezza, alitosi e vari disturbi intestinali. Questa pratica, per fortuna ora abbandonata, permetteva ai pazienti obesi o comunque desiderosi di perdere peso, di continuare a gustare i piaceri della tavola senza preoccuparsi troppo della linea (sembra che anche la Callas abbia fatto uso di questa insolita terapia).

Un posto di rilievo nell’ampia panoramica delle terapie a base di ingredienti di origine animale è riservata alla famosa cantaridina, un composto attivo presente nei corpi adulti, essiccati e polverizzati, della cantaride officinale (Lytta vesicatoria), un piccolo coleottero assiduo frequentatore di piante come il frassino, l’acero, il pioppo, il sambuco e l’olivo. Questa sostanza, nonostante i suoi gravi effetti collaterali, ha rappresentato per secoli l’ingrediente più importante di alcune note formulazioni afrodisiache. Per ottenere gli effetti desiderati veniva somministrata sotto forma di tintura oppure applicato localmente (uso topico) come pomata, la quale veniva preparata miscelando la polvere di cantaride con grasso di maiale o midollo di bue. Attualmente, la cantaridina è oggetto di studio in ambito oncologico, dove la sua tossicità è sfruttata per inibire la crescita delle cellule tumorali.

Sempre in questo ambito di ricerca, alcuni biologi stanno studiando la possibilità di poter utilizzare pericolosi microrganismi, opportunamente “addomesticati”, da inoculare direttamente nelle masse tumorali. Alcuni di questi batteri, come il Clostridium novyi, si comportano come dei killer selettivi; infatti, prediligendo ambienti anaerobi (privi di ossigeno), come quelli che si creano all’interno delle cellule cancerogene, sono in grado di distruggere i tessuti malati, lasciando intatti quelli sani (per il momento i risultati ottenuti sono molto incoraggianti ma richiedono ulteriori approfondimenti).