La comunicazione delle cattive notizie è in genere associata prevalentemente all’ambito oncologico. In realtà, è una componente essenziale della professione sanitaria e riguarda tutte le discipline. Informare un paziente sulla presenza di una grave cardiopatia ha, ad esempio, un potenziale impatto devastante, sia per il diretto interessato, sia per i familiari. È un compito difficile, di grande responsabilità, in grado di provocare ansia e timori in chi lo deve assolvere e angoscia in chi riceve la comunicazione stessa. È un obbligo giuridico, deontologico ed etico, che richiede esperienza e abilità, un processo dinamico complesso che incide profondamente sul suo esito. È anche una metodologia, che può essere appresa e applicata nella pratica, pur con grande variabilità a seconda delle caratteristiche del medico e del paziente. Numerose variabili possono, infatti, influenzare la comunicazione: personalità del curante, caratteristiche del malato, tipologia della relazione medico-paziente, terapia prevista, contesto.

Il ritmo del paziente

Esistono molte definizioni di cattive notizie; ad esempio, per J.T. Ptacek1 sono: “situazioni nelle quali vi è una sensazione di assenza di speranza, una minaccia al benessere mentale o fisico di una persona, un rischio di sconvolgimento di uno stile di vita consolidato, o comunque un messaggio che conferisce a un individuo una minor possibilità di scelta nella vita”. In generale, le cattive notizie hanno in comune la capacità potenziale di modificare in modo drastico e negativo la visione del paziente circa il proprio futuro, di limitarne le possibilità, in misura maggiore quanto più grande è la distanza tra le sue aspettative, percezioni, progetti (realtà soggettiva) e la situazione reale (realtà oggettiva). Compito fondamentale del curante è di rendere meno traumatico il passaggio tra le due realtà, modulandone la velocità di transizione, secondo il “ritmo del paziente”2.

Da sempre esiste il conflitto tra dire e non dire3 4, soprattutto su “quanto e come” dire, in particolare sulla comunicazione della diagnosi di cancro. Esiste una letteratura molto vasta, con opinioni contrastanti, frutto di contesti culturali diversi, anche se, attualmente, soprattutto nei paesi anglosassoni, prevale la tendenza a dire la verità, talvolta con decisione, anche per motivi medico-legali.

Quello di essere informato è, d'altronde, un diritto primario del paziente, per riorganizzare la propria vita, dare il consenso alle cure, provvedere agli interessi morali ed economici propri e della famiglia5. Numerosi studi hanno rilevato che i pazienti vogliono essere informati su diagnosi, terapia e prognosi, con modalità più professionali rispetto alla prassi abituale. L’articolo 30 del codice deontologico, peraltro, tutela espressamente il rispetto della documentata volontà dell’assistito di non essere informato o di delegare a un altro soggetto l’informazione.

Dire…non dire

Le perplessità del medico a dire la verità sono molteplici:

  • la verità può travolgere il paziente e influire negativamente sulla prognosi;
  • i pazienti in realtà non vogliono sapere, ma essere “illusi” per non perdere la speranza;
  • è spesso difficile valutare l’interesse reale del paziente nel singolo caso;
  • è frequente la sensazione di inadeguatezza al difficile compito, causata in gran parte dalla mancanza di una preparazione specifica;
  • talvolta si teme di non saper rispondere alle successive domande del paziente, di essere criticati, colpevolizzati;
  • vi può essere il timore di immedesimarsi troppo, di condividere in maniera eccessiva le emozioni del paziente.

Il concetto di verità, inoltre, non è assoluto, esistono diverse verità: del medico, del paziente, dei familiari, biologica, esistenziale... La stessa verità scientifica è tale solo all'interno di un sistema di riferimento autoreferenziale, che tende a scotomizzare le variabili soggettive e di contesto. La diagnosi, verità per antonomasia del medico, è solo UNA verità, non essendo in grado di descrivere il vissuto del paziente. In generale, deve essere comunicata a chi lo chiede o quando è comunque necessario; ad esempio, per evitare fraintendimenti in grado di condizionare il processo assistenziale. Gli effetti e la portata devono essere dilazionati e circoscritti, in modo da lasciare spazio ad altre autonome e competitive costruzioni del paziente6 che, anche se deboli sul piano scientifico e giudicabili a volte irrazionali, sono in realtà spesso utili come strategie di coping.

Può anche accadere che venga percepita come cattiva una notizia che per il medico non è tale, e viceversa; infatti, la cattiva notizia non esiste necessariamente in quanto tale, ma, come per tutte le informazioni, il suo significato operativo è determinato dalla valutazione soggettiva del ricevente. I principali obiettivi della comunicazione sono: la riduzione della sensazione del paziente di essere solo contro la malattia, il tentativo di convincerlo che ha accanto un professionista che saprà aiutarlo, senza minimizzare la reale situazione clinica o nascondersi dietro formule evasive e oscure. È, infatti, fondamentale mettere il paziente nelle migliori condizioni per esprimere un parere sulle scelte da compiere, cercando di limitarne le componenti stressanti. La condivisione delle decisioni è in generale uno strumento essenziale della clinica della Medicina Generale, basata sul confronto tra un esperto di conoscenze scientifiche (il medico) e un esperto della conoscenza di se stesso (il paziente). Solo da tale conflitto, inteso come confronto negoziale, può derivare una decisione clinica condivisa, che non si deve basare né esclusivamente sui dati scientifici né sulla sola percezione soggettiva del paziente.

Il manuale non esiste

Esistono molti modelli di comunicazione, caratterizzati da una serie di punti chiave che facilitano il flusso informativo e svolgono la funzione di guida generale. Non esiste, infatti, un libretto di istruzioni, ma può essere utile uno schema di comportamento, interpretabile da ogni medico secondo il proprio stile e le caratteristiche del singolo paziente. I modelli, infatti, non devono essere seguiti pedissequamente. Come afferma Italo Calvino in Palomar: “Il modello è per definizione quello in cui non c'è niente da cambiare, quello che funziona alla perfezione, mentre la realtà vediamo bene che non funziona e che si spappola da tutte le parti; dunque non resta che costringerla a prendere la forma del modello, con le buone o con le cattive”7.

Un approccio utilizzabile, pur con i limiti evidenziati, è il percorso di Buckman definito SPIKES, acronimo formato dalle lettere dei 6 stadi che lo costituiscono8:

  • preparare il colloquio (S= Setting up);
  • capire cosa sa il paziente (P= Perception);
  • capire quanto il paziente vuole sapere (I= Invitation);
  • condividere le informazioni con il paziente (K= Knowledge);
  • identificare e comprendere le reazioni del paziente (E= Emotion);
  • pianificare e accompagnare (S= Strategy and Summary).

Anche se nella pratica quotidiana non è facile percorrere i gradini proposti, alcune raccomandazioni generali sono sicuramente utili. Inoltre, si deve ricordare sempre che i segnali non verbali (tono di voce, silenzio, gestualità, atteggiamenti corporei…) esprimono e comunicano emozioni e informazioni molto più efficacemente di quelli verbali. È, infatti, dimostrato che, in caso di discordanza fra segnali, viene prestata maggiore attenzione alla componente non verbale.

Nei casi in cui è possibile preparare il colloquio, per prima cosa si devono elaborare le proprie emozioni, ad esempio, per evitare fenomeni quali la falsa rassicurazione, spesso utilizzata per limitare il proprio rammarico nell'apprendere la grave situazione di un paziente a cui si è particolarmente affezionati. Dovrebbero essere pure adeguatamente conosciuti tutti gli aspetti della malattia (diagnosi, stadio clinico, provvedimenti diagnostici o terapeutici), obiettivo spesso non facile da raggiungere. È indispensabile il contatto visivo, in certi casi anche fisico. L’ambiente dovrebbe essere tranquillo, le interruzioni telefoniche prevenute, il tempo a disposizione sufficiente, la riservatezza garantita. Se il paziente lo desidera, è utile la presenza di un familiare o comunque di una persona cara. Si deve ricordare che le parole che si stanno per pronunciare modificheranno in maniera sostanziale la vita del paziente. Può essere utile il cosiddetto warning shot, colpo di avvertimento (“Ho purtroppo cattive notizie…”). Inizialmente si deve stabilire cosa il paziente, ed eventualmente i familiari, già sanno (“Da cosa pensa siano causati i suoi sintomi?”), facendo attenzione ai possibili fraintendimenti e ai nascondimenti voluti dal paziente per avere conferma di quanto già conosce. Le successive informazioni saranno fornite al livello che si percepisce necessario e desiderato, con chiarezza e realismo. L’eloquio deve essere pertanto aperto e partecipe, il linguaggio facilmente comprensibile, senza inutili tecnicismi, appropriato alla persona. Medico e paziente devono trovarsi sulla stessa lunghezza d’onda, per realizzare il cosiddetto aligning, allineamento, definito da Maynard come il processo mediante il quale vengono messe a fuoco le informazioni a partire da quanto il paziente già conosce. Si deve offrire al paziente la possibilità di fare domande e di esprimere le proprie preoccupazioni, per ricevere i necessari chiarimenti e contemporaneamente graduare le successive informazioni. Spesso i pazienti temono non tanto il possibile esito infausto, quanto il difficile percorso che sta per iniziare. L’invalidità è, ad esempio, frequentemente considerata peggiore della morte stessa. Durante il processo comunicativo si deve sempre valutare l’opportunità di proseguire il colloquio o di rimandarlo ad altra occasione.

Il piano di assistenza, idealmente concordato tra curante e specialista, dovrebbe essere anticipato al malato a grandi linee e formulato presentando le effettive possibilità terapeutiche, il rapporto tra rischi e benefici e le incertezze, inevitabili nella pratica della medicina. Si deve tenere presente che i pazienti in generale non ricordano più della metà di quanto viene detto loro, percentuale ancora più bassa quando ricevono una cattiva notizia. Può quindi essere opportuno, sia durante il colloquio sia al termine, ripercorrere brevemente il percorso informativo, identificando i problemi prioritari per il paziente, ai quali fornire risposte adeguate. Deve essere sempre mostrato qualche elemento di speranza, anche tenendo conto degli oggettivi limiti predittivi del singolo caso.

Quando le prospettive realistiche di benessere sono oggettivamente difficili o poco credibili, si deve comunque assicurare ogni sforzo per garantire un buon controllo della sofferenza. Alla conclusione dell’incontro è utile che il paziente esca con un altro appuntamento a breve scadenza9. Le reazioni del paziente, altamente variabili per tipologia e intensità, devono essere comprese, l’emotività espressa liberamente e legittimata, in quanto strumento per favorire l’adattamento alla condizione di malattia. Meccanismi reattivi quali negazione, proiezione, rabbia possono attivarsi e tradursi in atteggiamenti aggressivi nei confronti del medico, che deve evitare risposte accusatrici o colpevolizzanti. Si devono identificare con attenzione i comportamenti non adattivi e regressivi e intervenire, talvolta mediante la semplice attesa, per agevolare il ripristino di un favorevole equilibrio. In alcuni casi, è necessario accettare il modello di malattia che il paziente costruisce nella sua fantasia, le fantasie di fuga dalla realtà. Talvolta, è necessario trattare sintomi psichici, spesso sottovalutati in quanto considerati risposte fisiologiche.

Anche le reazioni del medico possono essere molteplici, di colpa (“se l’avessi convinto a fare quel test da sforzo”), impotenza (“non c’è più niente da fare”), fallimento personale (“non ho saputo trovare le parole giuste”), timore di conseguenze legali, dispiacere sul piano dei rapporti umani… I vissuti personali del medico possono associarsi a pensieri, emozioni condivise con il paziente, alla riattivazione di memorie sopite. Mettersi a confronto con i propri sentimenti, le proprie paure, può servire a conoscere meglio il proprio modo di agire e quindi a modificarlo, per trovare le giuste distanze e costruire relazioni terapeutiche più partecipi10. La non considerazione dei propri vissuti personali può indicare un utilizzo inconsapevole di meccanismi di difesa, con possibili distorsioni nella percezione della relazione che, a lungo termine, possono contribuire allo sviluppo di fenomeni di burn out da assuefazione affettiva.

Principali errori nella comunicazione delle cattive notizie (modificato da Tuveri2):

  • non avere a disposizione un tempo adeguato;
  • non lasciare spazio alle eventuali domande del paziente o dei familiari;
  • non favorire l’espressione delle emozioni;
  • dare false rassicurazioni o speranze irrealistiche;
  • togliere la speranza, spesso inconsapevolmente, con messaggi non verbali;
  • dare le informazioni secondo le priorità del medico e non del paziente.

Conclusioni

Comunicare cattive notizie significa “pesare” con attenzione la quantità e qualità di informazione da fornire al paziente, utilizzando un linguaggio comprensibile e un approccio interattivo, per ottenere una conoscenza condivisa del problema e un impegno adeguato e responsabile da parte del paziente, necessari per esercitare al meglio la propria professionalità.

I medici che svolgono tale compito in maniera sbagliata non saranno mai perdonati, i medici che lo fanno bene non saranno mai dimenticati

In collaborazione con Valentina Collecchia, studentessa in Scienze della Comunicazione.

1 Ptacek J.T. et al., Breaking bad news, JAMA 1996; 276: 496
2 Tuveri G. (a cura di), Saper ascoltare, saper comunicare. Come prendersi cura della persona con tumore, Roma: Il Pensiero Scientifico, 2005
3 Yourcenar M., Memorie di Adriano, Torino: Einaudi, 1988
4 Panti A., Il cittadino e la prognosi infausta. Informare o dissimulare?, Toscana Medica, 1998
5 Marin M., Come comunicare una diagnosi grave, M.D. Medicinae Doctor 1996; 21: 16
6 Longoni P., Pagliani S., La linea che guida il colloquio con chi è grave, congiunge verità e pietà, Occhio Clinico 2004; 7: 24-26
7 Calvino I., Palomar, Milano: Arnoldo Mondatori Editore, 1990
8 Buckman R., La comunicazione della diagnosi, Milano: Raffaello Cortina, 2003
9 Di Diodoro D., Cattive notizie ma con dolcezza, Occhio Clinico 1997; 4: 26
10 Simionato C., Raccontare il cancro per dargli un senso, Janus 2006; 22: 76-78