Le api sono dotate di talenti straordinari e non temono confronti con animali “superiori”, notoriamente più intelligenti. Un alveare può contenere fino a 60.000 individui e un’ape operaia vive mediamente 45-50 giorni, mentre l’ape regina può raggiungere l’età di 5 anni e può deporre fino a 2000 uova al giorno. La difformità somatica e sessuale che differenzia le operaie dalle api regine, non è legata a differenze genetiche ma semplicemente al fatto che le larve di quest’ultime sono nutrite con uno speciale alimento chiamato “pappa reale”: una secrezione ricca di aminoacidi, enzimi, oligoelementi e vitamine, tra cui quelle del gruppo B, come acido pantotenico e acido folico. Questa differenziazione alimentare innesca un meccanismo epigenetico (metilazione di un tratto di DNA) in grado di influenzare l’espressione di determinati geni. Un ruolo fondamentale è svolto da una proteina, chiamata royalactina, capace di attivare l’espressione di uno specifico fattore di crescita epidermico (Egfr) che porta, nelle api regine, a un aumento della longevità, della taglia corporea e dello sviluppo dell’ovaio.

Come per altri insetti sociali, l’organizzazione interna di ogni colonia è paragonabile a un delicato “microcosmo” in stretta connessione con l’ambiente esterno, il cui equilibrio è garantito da una struttura gerarchica di ruoli, svolti con grande senso di responsabilità da ogni individuo della comunità. L’intero alveare, infatti, è molto più della somma delle singole parti e, di fatto, la sua popolazione si comporta come un super-organismo, plasmato intorno a un punto fisso, un unico centro pulsante da cui tutto emana e ritorna: l’ape regina. Le mansioni sono ripartite con estrema precisione, ma il contributo maggiore in termini di pianificazione strategica, è offerto dalle operaie che si dedicano, con instancabile zelo, a varie attività, tra cui la raccolta di nettare, la produzione di miele, propoli e pappa reale, il controllo della temperatura dell’alveare, la cura delle larve e della regina.

Invece, le api di sesso maschile (fuchi) sono presenti in numero esiguo rispetto alle operaie, sviluppano un corpo tozzo, hanno occhi grandi, sono privi di pungiglione e presentano una ligula (lingua) molto corta, che impedisce loro di raccogliere il nettare (per questa ragione sono nutriti direttamente dalle operaie). Queste caratteristiche portano i fuchi a trascorrere un’esistenza apparentemente tranquilla e oziosa, senza particolari incombenze, tenuto conto che l’unico obiettivo per cui sono programmati è quello di accoppiarsi con la regina, ignari che questo privilegio comporta per loro una fine tragica e poco lusinghiera. Infatti, pur dotati di una forte muscolatura, sono esonerati da ogni lavoro che non sia connesso al fatidico volo nuziale che li vede impegnati in un “inseguimento all’ultimo sangue”. Generalmente solo un piccolo gruppo di circa venti fuchi riesce a portare a termine l’impresa: a turno si accoppiano con l’ape regina e alla fine dell’amplesso, per impedire allo sperma di fuoriuscire, ciascuno di essi lascia la parte distale del proprio endofallo, condannandosi a morte certa. I compagni che non partecipano all’accoppiamento, essendo considerati un peso per la colonia, in autunno vengono uccisi o abbondanti a se stessi (essendo incapaci di nutrirsi, muoiono per inedia).

Un altro motivo di stupore per chi osserva un alveare è l’architettura perfetta ed elegante dei favi. In origine le celle, costruite con grande pazienza dalle api operaie intorno al proprio corpo, non sono di forma esagonale ma cilindrica; solo quando la temperatura interna dell’alveare raggiunge i 37-40 °C, queste strutture assumono la tipica forma esagonale. Tale fenomeno trova spiegazione nella tensione superficiale che si viene a creare tra celle confinanti (lo stesso fenomeno avviene quando più bolle di sapone entrano in contatto): le pareti laterali fluidificate assumono una forma perfettamente rettilinea, dello spessore di 0,07 mm, mentre il fondo, inizialmente tondeggiante, assume una forma esagonale (le pareti laterali si dispongono in tre rombi, formando un angolo di 120° con le pareti laterali, le quali tendono a inclinarsi verso l’alto di 9-14°). Eventuali ritocchi finali, come l’ispessimento dei bordi superiori, vengono eseguiti con grande maestria e senso delle proporzioni, impiegando cera e propoli. Quest’ultima sostanza, elaborata dalle api prelevando materie prime resinose dalle gemme di vari alberi e arbusti, oltre ad agire come antibatterico, antimicotico e antivirale (azione di contrasto nei confronti di malattie epidemiche all’interno dell’alveare), rende la cera delle celle più robusta ed elastica e favorisce, attraverso un fenomeno di amplificazione, la trasmissione di vibrazioni sonore. Recenti ricerche scientifiche sembrano avvalorare l’ipotesi che tali vibrazioni, percepite da uno specifico organo di senso localizzato nel tarso del secondo paio di zampe, sospeso in un canale pieno di emolinfa, siano coinvolte nella circolazione di informazioni riguardanti lo stato di “vuoto” o di “pieno” delle celle e il grado di armonia e coesione sociale di tutti gli abitanti dell’alveare.

Un’altra caratteristica affascinate riguarda il ronzio emesso dal loro corpo: in condizioni normali, nell’alveare, si registra un brusio compreso tra i 280 e i 350 Hz; per arrivare ai 450 Hz in fase di ventilazione (durante la stagione calda) e tra 500 e gli 800 Hz con il sopraggiungere della sciamatura. Quando la regina, dopo la fecondazione, è pronta a svolgere la sua missione riproduttiva, le sue “suddite” si accordano su una vibrazione di 200 Hz, che cala a 170 Hz, nel momento culminante della deposizione delle uova. Questo linguaggio sonoro è rivolto anche al mondo esterno; recentemente un’equipe di biologi israeliani ha scoperto che le api hanno un rapporto del tutto particolare con i fiori: infatti, riescono a dialogare con loro attraverso i suoni. Il loro ronzio funziona da stimolatore di nettare: da un esperimento condotto su 650 specie diverse di piante, è emerso che riproducendo un suono simile a quello prodotto dalle api, i fiori rispondevano con una micro-vibrazione accompagnata da un incremento (fino al 20%) della concentrazione zuccherina del loro nettare (un invito a pranzo irresistibile!).

Un altro parametro di vitale importanza è la regolazione del microclima interno: il calore di una colonia è calibrato a una temperatura ideale di circa 33 °C, ma in caso di necessità, giustificate da particolari esigenze gestionali (costruzione delle celle, incubazione delle larve, ecc.), sono tollerate oscillazioni che toccano i 43 °C. In inverno, per compensare condizioni climatiche avverse, le operaie tendono ad ammassarsi formando delle palle compatte e attraverso la contrazione dei soli muscoli alari (momentaneamente scollegati dalla funzione del volo) irradiano calore corporeo (termogenesi). In estate, al contrario, si impegnano a sbattere velocemente le ali creando un effetto “ventilatore”; a volte questo fenomeno è potenziato attraverso l’evaporazione di acqua che costantemente introducono all’interno. Il calore dell’alveare influisce anche sul periodo d’incubazione e il successivo sviluppo delle larve, che normalmente avviene a una temperatura compresa tra i 33 e i 36 °C. Un leggero aumento di temperatura favorisce la nascita di api esploratrici, particolarmente laboriose e intraprendenti (la loro vita media si aggira intorno alle sei settimane); al contrario una temperatura più bassa stimola la crescita di “api invernali”, meno dinamiche ma più longeve (vivono fino a sei mesi), che costituiscono lo zoccolo duro della popolazione e danno continuità alla stessa.

Comunque, tra le tante prodezze compiute da questi insetti, la più affascinante è senza dubbio la “danza del cibo”, compiuta dalle esploratrici una volta ritornate all’alveare. Questa misteriosa forma di comunicazione, che denota intelligenza e capacità di apprendimento, serve a indicare, con estrema precisione, i luoghi dove rintracciare cibo in abbondanza. Le api sono in grado di concepire cognitivamente la realtà che le circonda e le informazioni che riescono a comunicare sono codificate in modo astratto attraverso i movimenti del corpo. Tale linguaggio presuppone la capacità di elaborare delle mappe neuronali contenenti, in maniera dettagliata, informazioni riguardanti le distanze e i punti di riferimento da seguire per raggiungere i fiori ricchi di nettare. Se la fonte di cibo è compresa nel raggio di 100 metri dall’alveare, questa informazione viene trasmessa fisicamente attraverso una danza a cerchio, con movimenti circolari quasi completi. Invece, se la distanza è superiore, questa danza assume la forma di un “otto”, accompagnata da rapidi movimenti delle ali e dell’addome (“scodinzolamenti”). La frequenza, il numero, la rapidità di questi movimenti e la loro direzione, tenendo conto della posizione del sole, sono elementi utili per valutare l’ubicazione della fonte di nutrimento.

Da dati sperimentali è emerso che le api sono in grado di gestire informazioni anche sulla qualità del nettare raccolto; questa forma di comunicazione sociale (chiamata trofallassi) avviene attraverso il contatto delle antenne e “l’assaggio” del cibo raccolto, che per l’occasione viene rigurgitato dalle api esploratrici. In questo dialogo di molecole chimiche partecipano anche i recettori olfattivi, attraverso i quali le api rimaste nell’alveare riescono a percepire e a ritrovare le tracce odorose dei fiori visitati dalle loro compagne.

Questi insetti, sorprendentemente, possono fare affidamento su un piccolo cervello con una funzionalità “asimmetrica” (simile a quella dell’uomo e di altri animali), dove la porzione sinistra è responsabile dell’immagazzinamento della memoria percettiva, costruita sui ricordi degli odori e dei colori dei fiori.