La salute dovrebbe essere normale luogo e tempo di condivisione, in base ai principi generali di democrazia. La partecipazione dei cittadini in ambito sanitario è, dunque, assolutamente auspicabile, in quanto affermazione di un diritto e occasione per promuovere una effettiva cultura di cittadinanza. In realtà, anche se la tendenza a coinvolgere il cittadino in questioni sanitarie, singolarmente o in associazione, è sempre più diffusa, il principio della partecipazione, accettato sul piano teorico, è spesso usato nella pratica in maniera distorta, ad esempio, per condividere scelte predefinite o essere confinato nello spazio ridotto dei reclami di clienti-consumatori, anziché per realizzare un effettivo collegamento tra il linguaggio della salute e quello del diritto1.

Dal quotidiano…

La digitalizzazione del quotidiano, sempre più pervasiva (da cui la nascita del cittadino digitale: the netizen), ha portato allo sviluppo di realtà conoscitive quali la cosiddetta Citizen science, ritenuta ambito sperimentale in grado di adottare modelli alternativi di democrazia e produzione di conoscenza. In essa i cittadini dovrebbero creare conoscenza e la conoscenza creare i cittadini, realizzando comunità, condivisione di valori, sensibilizzazione alla ricerca: una vera e propria cittadinanza scientifica (da science for people a science by people). In ambito medico, i risultati più eclatanti sono la partecipazione a iniziative come lo Human Food Project, nel quale le persone pagano per ottenere informazioni sulla composizione del microbiota intestinale e confrontarle con altri partecipanti, senz’altro un’iniziativa interessante ma riduttiva rispetto alle reali possibilità di conoscenza basata sulla partecipazione dei diretti interessati. Sono peraltro in corso numerose iniziative in grado di consentire risposte a importanti domande, soprattutto in ambito informativo e metodologico.

Alla ricerca…

Un approccio positivo alla conoscenza citizen-based è la ricerca partecipata, tema oggetto da molti anni di una vasta letteratura, all’interno della comunità scientifica e non solo. Sono infatti sempre più frequenti gli articoli indicizzati con la parola-chiave consumer participation, termine che nella National Library of Medicine indica l’inclusione di cittadini/pazienti, nelle diverse forme2. La partecipazione e il relativo empowerment dei fruitori di servizi/interventi sociosanitari, oltre che alla reale effettività di un diritto inteso come valore, dovrebbe portare anche a un miglioramento della qualità della ricerca, in particolare nella scelta dei temi e di conseguenza nella rilevanza/applicabilità dei risultati degli studi3. In un famoso lavoro4, Jan Chalmers ha evidenziato che, per evitare l’eccessivo spreco di risorse nella ricerca, un aspetto fondamentale è, infatti, la scelta delle priorità su cui indirizzare gli studi, in particolare per ridurre lo scollamento esistente tra le priorità individuate/prefissate nella maggioranza dei trial e quelle dei pazienti. Mentre gli studi “classici” tendono in genere a enfatizzare l’interesse sui farmaci, le scelte dei pazienti sono maggiormente a favore di temi trasversali, quali aspetti educativi, organizzativi e psicologici, oltre che di consigli relativi allo stile di vita e all’utilizzo di trattamenti non prescritti dal medico5. È quanto ha dimostrato anche il lavoro della James Lind Alliance, con la costruzione di un database delle incertezze circa gli effetti dei trattamenti, per individuare quali fossero i dubbi più importanti di pazienti e medici e indirizzare la ricerca in quella direzione6.

Il tema delle priorità condivise ha riscosso grande interesse anche nell’ambito della Cochrane Collaboration7, tanto che da alcuni anni è nato un gruppo dedicato a questa area di ricerca: *the Cochrane Agenda and Priority Setting Methods Group. In particolare, i pazienti sono stati coinvolti su temi quali asma, schizofrenia, vitiligine, diabete, disturbi dell’equilibrio. Sono state evidenziate priorità quali effetti a lungo termine, sicurezza, utilizzo di trattamenti non prescritti dal medico, problemi dell’autocura8. Purtroppo, tali iniziative rimangono ancora isolate, nella maggioranza dei casi i cittadini coinvolti in progetti di ricerca sono considerati attori passivi, “reclute”, soggetti che mettono a disposizione la propria persona e i propri dati, in una condizione di asimmetria conoscitiva, dipendenza e debolezza, realizzando una sorta di “pseudopartecipazione”… in pratica più ricercati che ricercatori.

Un editoriale del British Medical Journal, rivista scientifica di importanza internazionale, ha evidenziato ad esempio che, nonostante qualche segnale positivo, nella pratica la partecipazione dei cittadini/pazienti non è realizzata e che, su oltre tre milioni di pazienti coinvolti nella ricerca negli ultimi cinque anni nel Regno Unito, nessuno ha partecipato al progetto nella scelta delle domande e nella valutazione degli esiti e nemmeno nella diffusione dei risultati9. In effetti, la realizzazione di una vera partecipazione alla ricerca, intesa come coinvolgimento attivo del cittadino/paziente nella identificazione delle priorità, nella generazione di domande di ricerca e nella interpretazione dei dati, è auspicabile ma realizzabile con difficoltà. Tale modalità di produzione di conoscenza si scontra infatti con diverse problematiche, sia di merito che di metodo.

Un aspetto molto rilevante è la percezione, da parte del mondo della ricerca, da sempre custode del diritto esclusivo alla sua gestione, di un limite al proprio potere, il cui risultato può essere un atteggiamento di difesa corporativa. In un editoriale pubblicato su Nature, nel 2004, l’effetto che, secondo molti scienziati, il coinvolgimento di “non specialisti” potrebbe generare nella scelta delle priorità da seguire e, quindi, dell’allocazione dei finanziamenti per la ricerca, viene descritto in questi termini: “Sarebbe come affidare le chiavi del manicomio ai pazzi” 10. Ciò è significativo del grande cambiamento culturale necessario per modificare l’atteggiamento molto diffuso di medici e scienziati, nonostante dichiarazioni teoriche di disponibilità al dialogo e al confronto.

Tra i detrattori dell’apertura della ricerca al pubblico si manifesta anche il timore di mostrare il fianco a gruppi di pazienti o cittadini che partecipano per difendere o sostenere interessi specifici e di parte, a volte anche attraverso azioni di lobby11.

La partecipazione dovrebbe essere reale, normale espressione di un rapporto tra persone a pari diritti, pur nella diversità di bisogni, competenze e poteri. Dovrebbe, quindi, essere realmente informata, per evitare il più possibile l’asimmetria informativa che condiziona e limita il processo di coinvolgimento. L’ adesione a un gruppo di studio, infatti, non è sempre garanzia di effettiva partecipazione alle decisioni. Si devono, inoltre, risolvere i problemi relativi alla adesione dei cittadini/pazienti e alla loro rappresentatività: la maggior parte delle persone sono, infatti, scarsamente motivate a partecipare alla ricerca, per motivi culturali, mancanza di tempo, scarso riconoscimento del proprio impegno. Soltanto pochi sono spinti a partecipare, per altruismo o perché lo ritengono un valore. Molti partecipano nella speranza di un beneficio per sé o per i propri cari, a volte con aspettative irrealistiche.

Un grande limite della partecipazione alla produzione di conoscenza da parte dei cittadini è che spesso proprio le persone i cui diritti di salute sono maggiormente inevasi, ad esempio, gli individui di basso livello culturale, gli emarginati, le popolazioni con bisogni talmente gravi da non essere in grado di dare l’assenso, non vengono inclusi. Gli appartenenti a tali fasce di popolazione potrebbero, peraltro, dare un valido contributo ai lavori di ricerca grazie a progetti formativi specifici, utili peraltro anche per gli stessi ricercatori medici, in genere caratterizzati loro stessi da scarsa cultura/formazione al coinvolgimento dei propri pazienti alla ricerca. Alcuni temi sono particolarmente “difficili” da discutere con i diretti interessati, coinvolti emotivamente e particolarmente vulnerabili, ad esempio, abusi sessuali, alcolismo, problemi psichiatrici, disabilità.

È necessario prevedere un cosiddetto “safe space”, inteso come certezza da parte dei partecipanti che le loro opinioni, soprattutto se discordanti, non siano usate contro di loro o che possano essere comunque svantaggiose per il loro percorso di salute o malattia12. Dietro alla volontà manifesta di coinvolgimento, si possono nascondere, infatti, processi di manipolazione, chiare differenze di potere, conflitti di interesse, che possono mettere in condizione di inferiorità, inibizione e condizionamento i cittadini, riducendo la loro possibilità di esprimersi liberamente o influenzandone le scelte13.

Perplessità derivano anche dalla affidabilità degli studi, i cui criteri di qualità metodologica possono differire da quelli della ricerca classica. Ciò può determinare una scarsa valorizzazione dei risultati nei comuni canali della letteratura scientifica, innescando un meccanismo di inerzia psicologica, tra i ricercatori, a dedicare tempo e risorse ad attività scarsamente remunerative in termini di ritorno in ambito accademico e di accesso ai finanziamenti. Un altro problema, sicuramente minore rispetto a quelli già elencati, è quello della proprietà dei dati pubblicati, in una realtà attuale nella quale “all is data”.

Conclusioni

La “vera” partecipazione del cittadino alla ricerca richiede una sperimentazione di linguaggi, una contaminazione di approcci metodologici, una cultura dell’ascolto, un diverso sguardo su comunità, storie individuali, un sapere non tecnico. Si tratta di sviluppare strategie e strumenti per una cultura della partecipazione, intesa come sentirsi parte alla pari di un processo di condivisione del potere di decisione, tra persone che cercano e creano insieme condizioni migliori per fruire insieme del diritto a una vita degna. Una cultura che non significa linee guida o tecniche da insegnare, ma esercizio concreto di ascolto e condivisione, attenzione verso le persone con le quali si vuole condividere l’esperienza della partecipazione14. Fondamentale è un diverso approccio culturale, che si potrebbe definire “vettoriale”, anziché puntuale come spesso accade: un cambiamento di attenzione, di prospettive, obiettivi di salute, variabili di riferimento: diseguaglianze, bisogni, presa in carico, accessibilità a informazione e cure/servizi, progettualità di salute. Complessivamente, una ridefinizione delle priorità di ricerca e di valutazione della appropriatezza, qualità ed equità delle cure, un dare spazio alle voci di cittadinanza per fornire risposte basate su un approccio globale, incentrato sulla identificazione e condivisione di valori, senso, interessi, obiettivi, una cultura nella quale il potere delle decisioni dovrebbe essere condiviso con chi ne vive in prima persona l’effetto15.

1 Collecchia G., La partecipazione dei cittadini alla produzione di conoscenza, in IsF, 2016: 36, n. 4: 21-23.
2 Marsico G., La sperimentazione umana- Diritti violati/diritti condivisi, FrancoAngeli, Milano 2007.
3 Exploring the impact of public involvement on the quality of research: examples, Involve 2013.
4 Chalmers I, Glasziou P., Avoidable waste in the production and reporting of research evidence, in Lancet 2009; 374: 86-9.
5 Tallon D. et al., Relation between agendas of the research community and the research consumer, in Lancet 2000; 355: 2037–2040.
6 James Lind Alliance.
7 La Cochrane Collaboration è un’organizzazione internazionale no-profit, il cui scopo è raccogliere informazioni in campo clinico-sanitario su trattamenti di qualsiasi tipo (farmaci o modalità terapeutiche) da diffondere in tutto il mondo. Il lavoro principale della Cochrane, punto di riferimento per una corretta informazione nell’ambito della salute, viene svolto da circa cinquanta gruppi internazionali.
8 The Cochrane Agenda and Priority Setting Methods Group.
9 Godlee F., Research is the future: get involved, in BMJ 2015; 351: h6525.
10 Going public, in Nature 2004; 431: 883.
11 Taverne D., Let’s be sensible about public participation, in Nature 2004; 432: 271.
12 Bergold J., Thomas S., Forum: Qualitative Social Research 2012. Participatory Research Methods: A Methodological Approach in Motion.
13 PNLG. Il coinvolgimento dei cittadini nelle scelte in Sanità, 2008.
14 Tognoni G., Partecipare, condividere, comunicare, in Assistenza Infermieristica e Ricerca 2005; 24: 158-161.
15 Richards T., Montori V.M., Godlee F., Lapsley P., Paul D., Let the patient revolution begin, in BMJ 2013: 346: f2614doi.