Non siamo in un ambito futuribile, né in una fantascientifica immaginazione di una realtà lontana e forse irraggiungibile, ma purtroppo nel rimpallo senza esito e per ora senza futuro che riguarda la situazione dello smaltimento, del riprocessamento e, infine, dello stoccaggio del materiale nucleare nel nostro paese. È quella che potremmo definire una storia senza fine e, a quanto sembra, senza neppure un buon fine. Intanto, i rifiuti atomici continuano ad andare e venire nel nostro paese e in un domani non troppo lontano tutti quelli trattati all’estero dovranno ritornare da noi ed essere definitivamente deposti in uno o più siti di sicurezza e in condizioni di non irraggiamento all’esterno.

Una premessa è doverosa. Quando si parla di materiali radioattivi si devono distinguere quelli provenienti dallo smantellamento delle centrali nucleari italiane, dopo il referendum che oltre trenta anni fa sancì di fatto l’abbandono di questa forma di produzione energetica, e quelli che continuano e continueranno ad essere prodotti e, dunque, dovranno essere poi smaltiti nell’ambito della ricerca e dell’utilizzo per fini sanitari. Nessuno sa, ad esempio, che nella parte terminale di un parafulmine si trovano elementi radioattivi, come anche nelle luci di sicurezza dei rilevatori di fumo e così via. Un capitolo questo, se possibile, a parte per la forte parcellizzazione e la complessità del sistema da organizzare per garantirne un efficace e sicuro stoccaggio e successivo riprocessamento.

Se per questi secondi, diciamo così, il lavoro è in progress trattandosi di sostanze che già vengono utilizzate in sicurezza, molto meno sicura è la loro destinazione in termini di trattamento dei rifiuti e prima ancora di raccolta, il problema ancora centrale e senza apparente soluzione a oltre tre decenni dal referendum, è certamente quello che riguarda quel che resta del sistema atomico nazionale, delle cinque centrali dismesse e in lento, inesorabile, ma infinito smantellamento. Il nodo centrale, quello più preoccupante riguarda i tempi di scelta e decisione del sito, o dei siti definitivi, di stoccaggio delle scorie e dei materiali più rischiosi riprocessati che attualmente si trovano al 95 per cento all’estero, secondo i dati più recenti forniti dalla società Sogin che gestisce il delicato dossier e comunicati all’Isin, l’Ispettorato Nazionale per la Sicurezza Nucleare e la radioprotezione (succeduto alla vecchia Ispra). Questa considerevole mole di materiale così delicato sia nella fase di smantellamento iniziale che di recupero e inertizzazione, un giorno non lontano, secondo gli accordi decennali con Gran Bretagna e Francia dovrà tornare da noi ed è allora che senza possibilità di vie d’uscita occorrerà sapere dove stoccarlo e lasciarlo lì per l’eternità!

Ma è anche il restante 5 per cento che non ha pace e non trova soluzione. Si tratta di circa 16 tonnellate di combustibile atomico che si trovano suddivise in diversi depositi, ovviamente provvisori, quelli Itrec di Trisaia di Rotondella in provincia di Matera, di Opec 1 alla Casaccia vicino Roma, al Ccr di Ispra (Varese), al Lena nell’Università di Pavia e al Triga Tc1 sempre alla Casaccia, nei pressi della Capitale. Ancora si sa che le scorie radioattive più rischiose si trovano in gran parte, al 73,8 per cento in Piemonte e nel Lazio dove sono in quantità superiore, ma con minore impatto radioattivo. E ancora in decine di piccoli e medi depositi in tutto il paese; in questo caso si tratta soprattutto di quei rifiuti sanitari, risultato di ricerca e via dicendo.

Se la coabitazione con questi scomodi materiali è in realtà in corso da anni, mentre si discute e si cerca la soluzione, la vera questione che rischia di non aver mai fine è quella della scelta del o dei siti di stoccaggio definitivo del combustibile atomico. Una scelta difficile, complessa certo e anche indigesta. Perché il non detto dell’uscita dal nucleare decisa dagli italiani nel 1986, è proprio in questa scomoda eredità. Un’eredità che paghiamo anno dopo anno in termini di costi complessivi dell’energia e dell’elettricità, nel senso che in percentuale ogni italiano in bolletta sostiene senza accorgersene anche le procedure di questa famosa uscita dall’atomo che trentatré anni dopo è ancora qui con noi e che anzi ci si ripresenta senza molte vie di uscita. E con costi che rischiano di lievitare senza interruzione sino a qualcosa come oltre 7 miliardi di euro.

Una brutta eredità allora, e pesante, che si annoda con un’altra questione anche questa tanto intricata da essere quasi irrisolvibile: il sito o i siti devono avere caratteristiche specifiche in termini affidabilità. Primo fra tutti, la bassa o assente sismicità e questo già restringe di molto le possibilità e poi altre forme di sicurezza che riguardano la distanza da coste, corsi d’acqua, centri abitati, grandi vie di comunicazione, l’altitudine massima, la conformazione e la composizione degli strati di roccia o di materiali in profondità tali da garantire la loro impermeabilità anche alle radiazioni in caso di accidentali fuoriuscite.

Ma più di tutto, il nocciolo duro (si perdoni il riferimento atomico) è quello del confronto necessario con le comunità locali dei luoghi sui quali potrebbe appuntarsi l’attenzione dei decisori. Se dunque anche in termini scientifici e di sicurezza si raggiungesse una univocità di scelta sarà poi necessario sottoporre la decisione ai cittadini delle località in cui si dovranno realizzare le opere e poi depositare il materiale. Ed è qui che le cose si complicano, in un paese dove non si accetta un gasdotto che aiuterebbe la nostra bilancia energetica perché deve toccare terra in un punto della costa e lo si vorrebbe altrove; oppure dove si protesta contro i rigassificatori che vengono realizzati in mare aperto lontani da zone turistiche e invisibili per la distanza! Pensare che una collettività di qualsiasi regione italiana possa acconciarsi ad accettare un deposito di materiale radioattivo o di combustibile proveniente da impianti atomici, non fidando nelle misure di sicurezza e per la oggettiva pericolosità dell’oggetto del contendere, non solo è da facili profeti, ma è assolutamente realistico.

Ecco perché gli anni passano, i governi cambiano, chi all’opposizione protestava per la lentezza ora chiede pazienza trovandosi al governo o, meglio ancora, non sa forse “che pesci pigliare”. Ed ecco che i vent’anni già trascorsi senza decisioni rischiano di perpetuarsi e la storia della denuclearizzazione (del decommissioning in gergo delle centrali) di trasformarsi in una “neverending story”, una vicenda senza fine ma non fantastica e onirica come quella della pellicola alla quale si riferisce il titolo, bensì molto terrena e molto più rischiosa e come dicevamo indigesta, non solo per la politica, ma per i cittadini italiani. Sia quelli che in ipotesi dovessero sopportare la presenza dei siti, sia degli altri che pagherebbero senza sosta e in eterno i costi perché tutto questo possa verificarsi.

Nessuno, allo stato attuale, può in modo realistico affermare come si avvierà a soluzione la vicenda nucleare italiana e quali saranno i tempi di questo avvio di soluzione. Trentatré sono gli anni trascorsi dal referendum, venti dalla decisione di promuovere la ricerca di una soluzione. Avendo davanti agli occhi quanto accaduto e che accade nella storia della Tav, pronosticare che forse il paese sarà uscito dall’atomo dopo non meno di mezzo secolo non è soltanto realistico, ma rischia anche di essere ottimistico. Senza contare lo stato di infrazione che la vicenda crea al nostro paese per il mancato rispetto dei termini europei per affrontare queste situazioni e i tempi necessari.

Per avere idea delle dimensioni con le quali occorre misurarsi, basta registrare che i materiali oggetto di riprocessamenti e da depositare superano allo stato attuale i 95 mila metri cubi. Di questi quasi la metà sono da annettersi al decomissioning delle centrali nucleari dismesse dal 1986, oltre 30 mila a residui di natura medicale e industriale e più di 15 mila provenienti sempre da centrali e impianti nucleari. Con una piccola differenza. Il primo blocco riguarda materiali di rifiuto la cui radioattività decadrà nel corso di trecento anni. Quest’ultimo è, invece, relativo a sostanze la cui decadenza richiederà oltre 10 mila anni. E sono questi in primo luogo quelli che dovranno essere depositati in località geologicamente stabili e impermeabili, per la sicurezza dei luoghi, degli abitanti, e dell’ambiente in quel lunghissimo intervallo di tempo. Intanto, esistono 119 metri cubi di rifiuti atomici ad altissima pericolosità che sono quelli che Francia e Gran Bretagna a conclusione del periodo contrattato con l’Italia per il loro stoccaggio, ci restituiranno. I primi (19) dal sito di Sellafield, i secondi (100) da Le Hague.

Al momento, soltanto un’ipotesi, data la lentezza del procedimento decisionale. Un’ipotesi che anno dopo anno, passo dopo passo potrebbe trasformarsi in un incubo e in una lievitazione dei costi necessari di sei sette volte quelli attuali preventivati. Per chi governa ma anche per i cittadini italiani un rebus di difficilissima soluzione e molto, molto oneroso. E pensare che 33 anni fa, trionfalmente si disse che l’Italia lasciando il nucleare si sarebbe avviata a un futuro radioso dal punto di vita energetico e ambientale. Oggi sappiamo che è andata diversamente e che la pur legittima soddisfazione di aver lasciato l’atomo, seppur consolante, non è certamente capace di sciogliere tutti gli altri e intricati nodi che ci troviamo dinanzi!